Mantenimento diretto: che cos’è, chi lo vuole e chi no
Esemplare, nel merito, Cass. 31902/2018 che, limitando a “significativa” la necessaria presenza dei genitori presso i figli (grossolana confusione con quella degli ascendenti) permette agli interpreti, che non aspettavano di meglio, di mostrare tutta la propria abilità nel giocare con le parole in modo da scambiare la regola con l’eccezione. Dire che la pariteticità non può essere obbligatoria non vuol dire che è lecito fare della marginalità di un genitore la regola. In una lettura intellettualmente onesta, se l’affidamento è condiviso e la legge riconosce al figlio il diritto a una pari opportunità di accesso a ciascun genitore ciò significa che esiste un orientamento preferenziale, un obiettivo, verso una parità giuridica e sostanziale dei genitori che assicuri realmente al figlio, mediamente e flessibimente, quelle pari opportunità. Il criterio “caso x caso” sicuramente è da osservare, ma solo per verificare se ci sono condizioni ostative alla parità e tenerne conto quando occorrono. Procedere diversamente, ossia fondarsi sul genitore collocatario (v. prestampati e linee-guida) e considerare eccezione l’affidamento paritetico, vuol dire che ci sono degli adulti – che non sono i genitori, ma una parte degli operatori del diritto – che vogliono imporre la loro ideologia e/o il loro tornaconto attraverso modelli squilibrati, sopraffacendo diritti dei figli ovunque ormai formalmente riconosciuti da un pezzo.
D’altra parte, nessuna sorpresa. Si tratta di un atteggiamento largamento diffuso, anche a livello internazionale. Conclude una recentissima e larghissima indagine (2019, 27.000 casi considerati, D. Palhares et al., “Impacts of divorce and shared custody in families’ health and well-being“, https://www. researchgate.net/publication/330289749_Impactos_do_divorcio_e_da_guarda _compartilhada_na_saude_e_no_bem-estar_das_familias): “Although shared custody is a public health issue; there are legal barriers to its effective implementation, and paradoxically the legal arguments for non-granting shared custody are based on assumptions related to children’s health“.
L’accoglienza
Purtroppo nel nostro caso neppure una di queste regole è stata osservata. Tralasciando le dichiarazioni in interviste che si vogliono caritatevolmente supporre estemporanee e non meditate, più che mai sorvolando sugli striscioni nelle piazze, non si può non rammentare che nella sede ufficiale del Senato quella proposta in audizione è stata definita “figlicida, matricida, liberticida e femminicida”. E’ mancato solo, sorprendentemente, il genocidio.
Abbandonando velocemente questo triste aspetto, gli altri tre possono essere trattati insieme, essendo collegati. Nessuno – o quasi – ha fin qui notato che tra i vari progetti esistono profonde differenze, che richiedono quindi un’analisi separata. Faceva comodo mescolare le carte e così si è fatto. Bocciato il ddl 735 con critiche specifiche si è poi passati direttamente a chiedere il ritiro di tutte le proposte, senza analizzarle. Non potendo in questa sede passare in rassegna uno per uno tutti gli aspetti ne verrà qui preso in considerazione uno soltanto, altamente rappresentativo e scelto tra i due che sono anche oggetto del Contratto di Governo: la forma diretta del mantenimento.
Davvero una novità?
Entrando nel merito, si scopre anzitutto tra i commentatori una notevole difficoltà a comprendere in cosa consista il mantenimento diretto e se sia modalità già prevista – rectius privilegiata – dalla legge attuale o ancora da introdurre.
E’ la prima cosa da chiarire e conviene, allo scopo, partire dal testo in vigore:
” Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando … ecc.”
Chi abbia seguito l’iter della riforma del 2006 sa che questa stesura è un compromesso, abbastanza infelice, fra i testi di due proposte del tutto eterogenee, quella a prima firma Tarditi e quella a primo firmatario Mantini: una mirante al cambiamento, rispetto al modello monogenitoriale, l’altra alla conservazione. A dispetto della manipolazione subita, tuttavia il senso generale si è salvato. Se all’assegno si ricorre in via residuale, se, e solo se, non è possibile rispettare la proporzione tra risorse disponibili e contributo al mantenimento, vuol dire che la forma ordinaria è quella diretta. Che quindi è già prevista, e in via privilegiata, dalle norme attuali. Per cui il coro delle lamentele per la sua “introduzione” è da attribuire alla sua prevalente disapplicazione, che dura da oltre 12 anni, che ha dato la falsa sensazione della inesistenza.
Ma questa, a sua volta, come si spiega?
Certamente, anzitutto, con la sua perfetta adesione al modello autenticamente bigenitoriale, inviso al sistema legale. In altre parole, se gli affidatari sono due, entrambi hanno il dovere di provvedere di persona ai bisogni dei figli e non ha senso che uno deleghi l’altro. Può darne prova il disagio della Suprema Corte nel respingere le richieste in tal senso, documentate dal fatto che, pur mantenendo il diniego, ogni volta si è vista costretta a cambiare le motivazioni per la loro evidente inconsistenza e pretestuosità (v. Cass. 23411/2009, 22502/2010 e 785/2012).
Se la giurisprudenza, dunque, ha fatto del suo meglio – o del suo peggio – per scavalcare prescrizioni di legge tutto sommato abbastanza nitide, non così è stato per la dottrina, maggiormente vincolata al rigore della scienza giuridica. Si veda, ad es., il giudizio espresso da Arnaldo Morace Pinelli “… in considerazione dell’opzione per il mantenimento diretto effettuata dall’ordinamento con la l. 54 del 2006 sull’affidamento condiviso, occorre evitare che venga automaticamente attribuito al genitore collocatario un assegno di mantenimento per il minore, nel difetto dei rigorosi presupposti indicati dall’art. 337 ter c.c.”. E non diverse sono le valutazioni, qui omesse per brevità, di altri autori (ex pluris, C.M. Bianca, T. Auletta, B. De Filippis, L. Rossi Carleo e C. Caricato, E. Quadri, G. Frezza, G. Giacobbe, M. Sesta, G. Ballarani, A. Arceri, A. Costanzo etc…).
Dunque c’è già adesso, secondo legge; non è una novità, a dispetto di chi protesta per i tentativi di “introdurlo” . Ma la confusione è ancora maggiore: non si ha chiaro in cosa consista.
Gli equivoci sulla sostanza del mantenimento diretto
Su questo, infatti, gli avversari del mantenimento diretto – purtroppo anche ad altissimi livelli di responsabilità proprio nell’ambito del diritto di famiglia – hanno dato corso recentemente alle più bizzarre esternazioni. In sostanza, si sta sostenendo che il mantenimento diretto è abbinato alle spese per i figli nei momenti di convivenza (ossia che si realizza apparecchiando la tavola per lui quando lo si ospita: quindi esisterebbe da prima del 2006?); “di conseguenza” che l’integrazione mediante assegno è obbligatoria quando i tempi sono diversi (perché è maggiore il numero dei pasti…?), a prescindere dal reddito di ciascun genitore (come in Cass. 22502/2010); che le madri saranno rovinate economicamente dalla sottrazione ad esse dall’assegno per i figli, benché sostituito dalla copertura diretta dei costi dei beni e servizi destinati ad essi; e che la forma diretta accrescerà la percezione da parte dei figli delle differenze di censo tra padre e madre, dimenticando che il mantenimento diretto va calcolato per attività e prestazioni a loro vantaggio che dipendono dal reddito complessivo di entrambi i genitori, e non separatamente dell’uno e dell’altro, e quindi che ne godranno a prescindere da chi ne coprirà i costi. In altre parole, se in una famiglia monoreddito (paterno) la figlia liceale praticava nuoto e danza e vestiva firmato, dopo la separazione il padre fornirà alla madre con l’assegno perequativo il denaro per provvedere, ad es., all’abbigliamento e alla piscina e coprirà le spese per l’istruzione e la danza. La madre non perderà un centesimo e la figlia farà la stessa vita di prima. Infine due parole sul diffusissimo ma inconsistente argomento che il mantenimento diretto in caso di inadempimento lascia il figlio indifeso perché priva l’altro genitore dell’atto esecutivo che sanziona chi non ha versato l’assegno. L’ovvia replica si affida alla sostanza del mantenimento, ovvero al fatto che i figli sono i creditori sostanziali, che vengono soddisfatti quando ricevono concrete prestazioni a proprio vantaggio (e non quando del denaro passa da un adulto all’altro), raggruppabili in capitoli di spesa, e queste possono essere o attribuite tutte a un solo genitore (quello che riceve l’assegno: e dov’è per i figli la garanzia dell’adempimento sostanziale una volta che questo sia stato regolamente corrisposto? E dov’é per il genitore erogante l’atto esecutivo in caso di trascuratezza?) o divise tra i due, riducendo il rischio.
Queste considerazioni evidenziano la necessità di richiamare, per confronto, la prassi attuale fondata sull’assegno, a sua volta strettamente connesso con la distinzione tra spese legate e non legate alla convivenza, che presso un crescente numero di tribunali vengono definite “straordinarie” (e fuori assegno) e disciplinate mediante “Protocolli”. Nulla di più maldestro, data la evidente arbitrarietà di una classificazione del genere, che gonfia i fascicoli del contenzioso. Basti pensare che tipicamente all’interno delle spese ordinarie si infilano oneri, come quello dell’abbigliamento, che nulla hanno a che vedere con la convivenza e la relativa ripartizione dei tempi. Realizzata l’incongruenza, attraverso un lungo e tortuoso cammino si è arrivati a definirle così (testo degli organismi giudiziari milanesi: è lo schema attualmente prevalente): “Per spese straordinarie (extra assegno) si intendono quelle che presentano almeno uno dei seguenti requisiti: occasionalità o sporadicità (requisito temporale), la gravosità (requisito quantitativo) o la voluttuarietà (funzionale).” Una formulazione confermata dalle Linee Guida del CNF (novembre 2017) che, partendo dalla constatazione che nella famiglia unita la donna è tuttora penalizzata e costretta al doppio lavoro, esterno e casalingo, giunge alla geniale conclusione che deve continuare a sacrificarsi allo stesso modo anche quando, con la separazione, potrebbe esigere e ottenere condizioni di pari impegno e pari opportunità con i padri: quindi collocazione prevalente e assegno; come una baby-sitter.
In definitiva, l’esperienza attuale dimostra definitivamente che attribuire al giudice il compito di indicare “altresì le spese ordinarie, le spese straordinarie …” (testo del ddl 735) significa mantenere in vita – rectius, legittimare – il genitore collocatario e il mantenimento indiretto.
Eppure esiste una via d’uscita, neppure difficile da immaginare, visto che all’esame del Senato è anche il ddl 768, allineato con le linee guida del Tribunale di Brindisi sperimentate con successo dal marzo 2017 e imitate da un numero crescente di Corti. Queste, in particolare, sulla questione mantenimento non considerano “straordinari” oneri già esistenti, anche se non quotidiani (ad es. per l’istruzione), per cui tutte le spese già presenti o prevedibili sono immediatamente assegnate ripartendole tra i genitori per intero, mentre il contributo proporzionale sulla stessa voce riguarda solo quelle imprevedibili. Questo, tra l’altro, perché altrimenti, con i Protocolli attualmente impiegati, resta indefinito e fonte di interminabile contenzioso chi prenderà l’iniziativa per provvedere ai bisogni dei figli.
A questo punto è inevitabile porsi ancora una domanda: perché il mantenimento diretto dà tanto fastidio a certe categorie di soggetti? La risposta, sia pure per ipotesi, è chiaramente adultocentrica. La gestione del denaro è una forma di potere. Anche se è destinato ai figli, il denaro per il mantenimento comunque è gestibile con i “propri” criteri; e già la dominante formula della partecipazione al 50% alle cosiddette “spese straordinarie” è fastidiosa perché il totale dell’assegno si riduce e con esso il potere decisionale. Vediamo meglio. Si riceve una somma complessiva che si può ripartire senza rendiconto, anche spostandola da una voce all’altra e da un mese all’altro. Si può decidere, ad es., di rimandare l’acquisto di un capo di abbigliamento per investire di più nell’alimentazione. O viceversa. Fa comodo avere i soldi in mano. Questo, certo, comporta la perdita per i figli della piacevole e gratificante sensazione che entrambi i genitori si preoccupano dei loro bisogni; ovvero che sono presenti nella loro quotidianità e dividono momenti di scelta, ovvero che viene meno la natura formale e posticcia del “diritto di visita”, per il quale si incontrano due persone progressivamente sempre più estranee. O anche che si liberano ai figli adolescenti gli svaghi con i coetanei del fine-settimana, perché tanto con il genitore hanno già passato altri momenti. Si potrebbe aggiungere che lo stesso genitore percettore di assegno paga questo potere con una ben maggiore assunzione di responsabilità e perdita di tempo. Ma evidentemente esistono gruppi di persone, che hanno in mente ben precisi vantaggi per gli adulti e per le quali le “pari opportunità” e i diritti dei figli sono solo un argomento dialettico.
Non a caso di questo si è preoccupata la Suprema Corte, nella sua costante difesa del modello sostanzialmente monogenitoriale, affermando che “Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesseper questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso (Cass. 2127/2016). E con questo il diritto dei figli alla bigenitorialità va definitivamente in soffitta.
D’altra parte, alla descritta scarsa conoscenza tecnica si affianca una ancor meno consapevole e documentata polemica politica pseudosociale, della quale si sarebbe ben lieti di non occuparsi se questo genere di argomenti non fosse utilizzato per giungere alla bocciatura del modello stesso, così che interferendo l’ideologia con la scienza giuridica quest’ultima è costretta a farne notare le incongruenze per impedirne gli sconfinamenti. Si sostiene, dunque, che il mantenimento diretto sarebbe il bieco strumento escogitato da forze conservatrici e oscurantiste per privare le madri e i “loro” figli di una indipendenza economica faticosamente raggiunta, nonché della connessa autonomia. Insomma, un odioso ricatto, una vera e propria forma di violenza. Una tesi che è finora riuscita a coinvolgere e dirottare vasti strati dell’opinione pubblica, essenzialmente sulla base del credito concesso a scatola chiusa ai suoi sostenitori, ma che si sbriciola di fronte sia ad una più attenta informazione che alla memoria storica.
Difatti, già risalendo di poco nel tempo, ovvero alla Legislatura appena conclusa, si scopre che il ddl 2049 esce sul punto con questa formulazione: «Salvo accordi diversi delle parti, ciascuno dei genitori provvede in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche. Le modalità e i capitoli di spesa sono concordati direttamente dai genitori; in caso di disaccordo sono stabiliti dal giudice. Il costo dei figli è valutato tenendo conto:
1) delle attuali esigenze del figlio;
2) delle attuali risorse economiche complessive dei genitori»
Ovvero un testo non diverso dall’attuale ddl 768, che a sua volta traduce adeguatamente gli impegni della attuale maggioranza. Solo che la fonte è della attuale opposizione (firmatari, nell’ordine, sono Lumia, Filippin, Capacchione, Casson, Cirinnà, Cucca, Ginetti, Lo Giudice e Tonini). Se, poi, si volesse sostenere che si tratta di una momentanea obnubilazione di alcuni soggetti che rappresentano solo se stessi, e non le sagge e consapevoli scelte di forze progressiste, basta risalire più indietro nel tempo, ad epoca non sospetta, addirittura precedente alla riforma del 2006, ovvero quando il regime ordinario era l’affidamento esclusivo, per imbattersi nell’art. 40 della pdl 173 della XIII Legislatura (ripetuto nelle successive versioni del medesimo progetto). Vi si legge, infatti: “Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi che provvedono in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento in misura proporzionale al proprio reddito.”
Dove salta agli occhi che:
– la modalità è stabilita perfigli che neppure sono in affidamento condiviso, ma in quello esclusivo;
– l’assegno non è presente neppure come possibilità residuale;
– e soprattutto non c’è nessun legame tra i tempi e la forma del mantenimento.
E in questo caso non si tratta di una iniziativa estemporanea e limitata, trovandosi l’art. 40 all’interno di una legge quadro dedicata all’infanzia, che porta il titolo “Norme per la tutela e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva“e che venne firmata da 56 parlamentari, tutti progressisti, tra i quali le deputate Melandri, Bolognesi, Chiavacci, Stanisci, Mariani, Cordoni, Biricotti, Lorenzetti, Capitelli e Signorino.
Emerge, dunque, una notevole difficoltà da parte di alcuni soggetti a considerare aspetti e contenuti delle proposte di legge per ciò che nient’altro sono, ovvero istituti giuridici, di per sé neutri sia politicamente che sotto il profilo del genere e che sono stati pensati solamente come le soluzioni più idonee per affrontare i problemi della famiglia separata. Ignorarne la reale natura conduce quei soggetti a cadere in evidenti contraddizioni, socialmente rovinose ove si consideri che la posizione che occupano e il prestigio del quale godono molti di essi ne fa un demagogico punto di riferimento, atto a sollevare lo sdegno e provocare agitazioni di piazza di masse non tenute a documentarsi, che si muovono per effetto di una non verificata fiducia.
Conclusioni
Viceversa, la conclusione più corretta che può trarsi da questa breve ricostruzione è che le buone idee non hanno paternità e che la tematica del diritto di famiglia, prettamente socio-etica, non può essere affidata a schieramenti precostituiti, ad occasionali logiche di partito. Anche perché i fatti hanno dimostrato che esiste nella sostanza una larghissima convergenza, anche a livello dei partiti, sulla necessità di uscire dalle attuali incoerenti logiche. Non a caso la stessa impostazione, le medesime soluzioni, si ripresentano nelle più eterogenee (politicamente) proposte che si sono succedute nel tempo. Già nel febbraio 2007 usciva la pdl 2231 (Costantini e Mura, Italia dei valori) e da allora progetti dall’identico impianto sono stati regolarmente ripetuti (pdl 2342 e 2360 e ddl 1344 e 1399 XV Leg.; pdl 53, 1132 e 1304 e ddl 957, 2454 e 3289 XVI Leg.; pdl 1403 e 1495 e ddl 2014 e 2049 XVII Leg.) fino alla pdl 249 e a ddl 768 della Legislatura presente, depositati per iniziativa di tutte le principali forze politiche: Partito Democratico e Forza Italia, Alleanza Nazionale e Partito Radicale, Lega e Movimento 5 Stelle, UDC ed SVP…. Dunque se sui medesimi fondamenti e il medesimo modello si è avuta una così larga convergenza è perché con tutta probabilità si tratta di buone idee. Appare allora decisamente consigliabile che i soggetti ostili al ddl 735 cessino di boicottare tutte le proposte in esame e i suoi fautori di irrigidirsi su una stesura decisamente discutibile, per ritrovarsi insieme a sostenere un testo unificato che si ispiri al ddl 768, versione aggiornata di quelli testè citati, oltre tutto già sperimentata sul campo, come sopra rammentato.
Fonte:https://www.studiocataldi.it/articoli/33250-mantenimento-diretto-che-cos-e-chi-lo-vuole-e-chi-no.asp