Tribunale di Roma condanna madre alienante
Una interessante sentenza del tribunale di Roma di alcuni anni fà, che conferma che l’alienazione parentale esiste. Non sarà presente nel DSM5 nella categria “sindrome” , ma se i disturbi esistono le condanne nei confronti di quei genitori che fanno solo dei danni ai figli·
Sentenza Tribunale di Roma, Sezione I Civile del 3 settembre 2011
Alienazione parentale
·Testo
Tribunale di Roma
Sezione I Civile
Sentenza 3 settembre 2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
PRIMA SEZIONE CIVILE
La dott.ssa Anna Mauro, in funzione di Giudice Unico di primo grado, Prima Sezione Civile del Tribunale di Roma ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 86094/2077 Ruolo Generale Contenzioso
tra
N.S. elettivamente domiciliato in Roma, viale (…) presso lo studio dell’avv.to G.I. e G.G. che lo rappresentano e difendono giusta procura in atti
attore
e
D.L. elettivamente domiciliata in Roma, via (…) presso lo studio dell’avv.to M.F. che la rappresenta e difende per procura a margine della comparsa di costituzione e risposta
convenuta
Oggetto: Risarcimento del danno.
FATTO E DIRITTO
L’attore agisce in giudizio onde ottenere il risarcimento del danno da lui patito a seguito del comportamento del proprio coniuge.
Allega quanto segue:
– di avere contratto matrimonio nel 2000 e che, ben presto, evidenziatesi le inconciliabilità tra gli opposti caratteri dei coniugi, la vita familiare era divenuta insostenibile;
– che nell’aprile 2002 la moglie, a sua insaputa, presentava un ricorso dinanzi al tribunale per i minori chiedendo un provvedimento ablativo della potestà genitoriale e che tale procedimento, in considerazione del fatto che non erano emersi motivi che potevano indurre il tribunale ad emettere provvedimenti relativi alla potestà, si chiudeva con la declaratoria di non luogo a procedere essendo pendente il procedimento di separazione introdotto dal marito;
– che dopo l’emissione dei provvedimenti presidenziali, resi nel 2002, in sede di separazione, la ricorrente, affidataria del figlio, poneva ogni ostacolo alla frequentazione padre – figlio e che, per tale motivo, il giudice istruttore disponeva l’intervento dei servizi sociali che accertavano, come risulta dalla loro relazione, inviata il 10 marzo 2003 al tribunale, la scarsa disponibilità della moglie a far vedere il figlio al marito;
– che il 31 agosto 2005 la D. sporgeva denuncia dinanzi ai carabinieri riferendo di comportamenti disdicevoli perpetrati dal marito e dalla sua nuova compagna verso il figlio;
– che a seguito di tale denunzia iniziava un procedimento penale nei suoi confronti per atti di pedofilia nei confronti del figlio;
– che il pubblico ministero, dopo aver fatto esperire ad un proprio consulente approfondite indagini, chiedeva l’archiviazione del procedimento, richiesta accolta dal GIP;
– che la frequentazione con il figlio era stata frammentaria e discontinua e che per il comportamento della moglie egli era stato privato del proprio diritto a vivere la sua genitorialità essendo stati dalla donna sempre ostacolati, senza mai dare alcun segno di resipiscenza, i suoi incontri con il figlio.
Tali allegazioni trovano puntuale riscontro negli atti di causa e impongono, per le considerazioni che seguono, l’accoglimento della domanda dovendosi ritenersi provato, inconfutabilmente, il comportamento illecito della convenuta nei confronti del proprio coniuge, comportamento che è stato causa di danno al predetto.
Orbene, ricostruendo lo svolgimento dei rapporti tra le parti si evidenzia che, già nel marzo 2003, i servizi sociali – interpellati da questo tribunale a seguito di ricorso per modifica dei provvedimenti presidenziali introdotto dal padre, che lamentava l’impossibilità di incontrare il figlio per ostacoli frapposti dalla madre e chiedeva, quindi, l’affidamento esclusivo del figlio – mettevano in evidenza la scarsa disponibilità della D. nel permettere gli incontri padre – figlio e la contraddittorietà dei suoi comportamenti in quanto la donna, da un lato, esprimeva dubbi sulle capacità genitoriali del marito, tanto da fare per ben due volte ricorso al Tribunale per i minorenni onde ottenere la declaratoria di cessazione della potestà genitoriale del padre, e dall’altro avvertiva la necessità che il padre potesse essere più vicino nella vita quotidiana del bambino.
Successivamente, non essendo riuscita con il ricorso al Tribunale per i minorenni ad ottenere un provvedimento ablativo della potestà, percorreva la strada del processo penale e il 31 agosto 2005 sporgeva nei confronti del marito la gravissima denunzia di violenza sessuale verso il figlio e chiedeva e otteneva l’immediata interruzione di ogni rapporto tra i due. Tale denunzia si rivelava del tutto infondata e, con una provvedimento del 27 gennaio 2006, il P.M. presso il Tribunale di Roma chiedeva l’archiviazione del procedimento dopo avere esperito approfonditi atti di indagine ed, in particolare, aver dato incarico di consulenza alla neuropsichiatra infantile dottoressa A.G. e fatto effettuare specifici test (tra cui il R.).
Metteva in evidenza il P.M., le preoccupanti perplessità che gli esiti dell’indagine destavano e, in particolare, “la reazione della famiglia di Ma. (da parte di madre) che invece di accogliere lietamente (sia pure con ogni ragionevole cautela) gli esiti processuali, ha ostentato malcelata incredulità nei confronti di dette risultanze … manifestando assoluto disinteresse in ordine alle reali cause che hanno contribuito a determinare il malessere di M.”; osserva ancora il P.M. che se tale atteggiamento può essere giustificato in un’ottica strettamente tecnica e difensiva “nessuna giustificazione può essere addotta in relazione al comportamento di chi, con il proprio atteggiamento, ha contribuito a determinare – si auspica inconsapevolmente – la situazione oggi al vaglio del giudice penale, senza assolutamente tenere conto delle conseguenze devastanti che tale atteggiamento potrà in futuro ricadere sull’esistenza di M.”.
Nel decreto del P.M. si legge che il bambino da circa cinque mesi non poteva vedere né sentire telefonicamente padre.
La D. non paga delle motivazioni del P.M. proponeva opposizione alla richiesta di archiviazione, opposizione però rigettata l’11.10.2006 dal GIP.
I sentimenti che la donna nutriva nei confronti del marito, difficilmente inquadrabili con chiarezza, ma sicuramente molto contrastanti tra loro non le consentivano di far vivere all’uomo una relazione serena e appagante con il figlio il tant’è che successivamente, nel corso del processo di separazione, il G.I., con provvedimento del 27 giugno 2007, avvertiva la necessità di effettuare una verifica in ordine alla situazione psicofisica del minore “visite le relazioni dei servizi affidatari che lamentano difficoltà nel loro ufficio a causa degli atteggiamenti ostativi della madre, che lungi dall’avere preso coscienza dell’oggettiva situazione di sofferenza psichica in cui versa il minore, persevera nella sua condotta contraria all’interesse del figlio”.
A distanza, quindi, di otto mesi dal provvedimento del gip e di diciotto mesi da quello del P.M. nulla era cambiato nel comportamento della madre che insisteva con pervicacia a ostacolare i rapporti padre – figlio.
In tale situazione, non v’è chi non veda che la condotta della D. reiterata nel tempo si sostanzia in una patente e gravissima compromissione dei rapporti affettivi del padre verso il figlio minore, attraverso l’interruzione di ogni apprezzabile relazione per un lungo periodo. Tutto ciò integra, senza alcun dubbio, la lesione del diritto personale del N. alla genitorialità, diritto costituzionalmente garantito a norma degli artt. 2 e 29 della Cost. avendo comportato nell’uomo, come peraltro evidenziato dagli innumerevoli ricorsi da lui proposti al giudice, una forte sofferenza per non avere potuto assolvere – e non per sua volontà – ai doveri verso il figlio e per non aver potuto godere della presenza e dell’affetto del piccolo.
Sicuramente responsabile di ciò, alla luce delle risultanze processuali, è da ritenersi la resistente che, con il suo ostinato, caparbio e reiterato comportamento, cosciente e volontario, è venuta meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio causando all’attore, che con questo processo ne chiede il ristoro, un danno non patrimoniale da intendersi nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica. Poiché, però, tale tipo di pregiudizio sfugge, per il suo stesso contenuto, ad una precisa valutazione, esso va congruamente determinato facendo uso di criteri di carattere equitativo, pur ancorati a parametri razionali, che possono essere in concreto individuati, nella fattispecie qui in esame, in base alla gravità dei fatti, alla lunga durata temporale degli stessi, ai rapporti tra le parti e alla loro personalità, età e condizione socio – culturale.
Sulla base dei parametri elencati, ed eseguendo un opportuno bilanciamento tra gli elementi raccolti, si ritiene che possa essere liquidato in via equitativa all’attore un risarcimento che si determina all’attualità nella somma di Euro 50.000,00.
Tale somma è produttiva di interessi a far data dalla presente decisione.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando così decide:
condanna la convenuta al risarcimento del danno in favore dell’attore nella misura di Euro 50.000,00 oltre interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo; condanna la convenuta al pagamento nei confronti dell’attore, delle spese di lite che si liquidano in Euro 1.875,00 per diritti, Euro 3.250,00 per onorari, oltre spese generali, iva e cpa.
Così deciso in Roma il 10 febbraio 2011.
Depositata in Cancelleria il 13 settembre 2011.