Di violenza sulle donne e antiviolenza istituzionale che normalizza la lotta
Alcune delle ragioni per cui sono sempre molto scettica nei confronti di chi, a partire dalle Istituzioni, pubblicizza un grande interesse a combattere contro la violenza sulle donne:
“La violenza domestica non ha solo costi umani, morali, socio-sanitari ma anche economici, per cui gli imprenditori dovrebbero poter proteggere la vita delle lavoratrici e la loro occupazione” (Si pensa dunque a tutelare le “lavoratrici gratuite” che tengono in vita il welfare. Tutelare le donne che pensano al lavoro di cura e alla riproduzione. Principio secondo cui le donne vanno tutelate solo in quanto madri e badanti. vedi corriere.it)
Ovvero, fin quando le donne vengono ammansite, redarguite, represse nella loro autodeterminazione dallo Stato non è un problema. Se però a farlo è un uomo allora si mette in discussione la retorica della famiglia come luogo di meraviglia e le donne potrebbero decidere di non voler più essere quelle che si accollano il lavoro di cura, gratuito, per comporre un welfare che lo Stato promuove a costo zero risparmiando sui servizi, mantenendo dipendenti dal punto di vista economico le donne e mantenendo ruoli ben distinti che impongono alle donne di riprodurre e curare e agli uomini di lavorare al servizio del capitale e mantenere la famigghia. La parte contraddittoria, in tutto ciò, è il fatto che non si capisca che queste donne non si ribellano all’uomo, al maschio in quanto tale, ma ad una cultura che usa anche certi uomini come aguzzini in difesa di questo sistema, che se smantellato mette in crisi tutto quanto. Cattolici e fascisti (ealcune donne?) vorrebbero rendere più umane le famiglie. Ma non esistono istituzioni totali, ove i ruoli sono prescritti per obbligo ideologico, di genere ed economico, e mai scelti in senso autodeterminato, meno disumane. Così è per le carceri, per i manicomi e per qualunque istituzione che non rimetta in discussione il proprio ruolo.
La famiglia come luogo “autoritario” pensato per ricattare, imporre, costringere autoritariamente relazioni sociali e percorsi individuali è ben lontana dall’essere quel luogo in cui la scelta autodeterminata possa conciliare con una idea di comunità e società in cui chiunque abbia salute, reddito, lavoro, vita, respiri, istruzione, diritto di scegliere con chi vivere e fare sesso. Ecco perché le famiglie omosessuali sono viste come nemiche dell’umanità. Perché sono più spesso frutto di scelta autodeterminata. Quel che sono tantissime famiglie etero, anche. Ma in una famiglia omosessuale chi è che fa da ammortizzatore sociale? Chi ha obbligo di cura? Chi di riproduzione? Chi di mantenimento? Ed ecco che improvvisamente le famiglie appaiono in modo evidente, più di quanto ancora non riesca ad essere reso chiaro con le famiglie etero, per quel che realmente dovrebbero essere: luoghi in cui ciascun@, a prescindere dalla biologia, sceglie quel che vuole essere.
A confermare quanto dico c’è la crociata della destra cattolica che della Convenzione di Istanbul contro la violenza di genere odia giusto il fatto che si parli di violenza di genere, ovvero una violenza basata sui ruoli di genere, che può capitare a chiunque, a partire da chiunque, come diciamo nella nostra petizione, il che apre la questione delle violenze contro gay, lesbiche, trans, perfino contro gli stessi uomini costretti a interpretare ruoli, di genere, che non vogliono più interpretare.
E’ la Binetti, infatti, che parla di violenza del “maschio” e non di violenza di genere. Perché lei, e chi come lei, tiene a far vedere che la violenza sia dell’uomo, propria del maschile, e non di una cultura che impone ruoli di genere precisi a chiunque. Stesso dicasi della Bianchi (una ex Pd).
Riporto:
“In Parlamento Paola Binetti, deputata Udc affiliata all’Opus Dei, ha fatto approvare un ordine del giorno per mantenere la “coerenza” della convenzione con la Costituzione ed “evitare alcune ambiguità specifiche”. Tradotto, l’oggetto del contendere è stato l’articolo 3 relativo alle definizioni, che al punto c recita:
con il termine “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini
“Non si sentiva alcun bisogno di introdurre il concetto di genere in un trattato in cui al centro dell’attenzione c’è la donna in evidente e chiara contrapposizione con il maschio”, ha sostenuto Binetti. Su questo tasto aveva battuto anche la deputata Pdl (ex Pd) Dorina Bianchi sul ciellino Tempi: “l’Italia firmerà, ma occorre che la ratifica del trattato avvenga nel rispetto del suo ordinamento”. Sul quotidiano dei vescovi Avvenire il giurista Francesco D’Agostino ne approfitta per criticare la deriva (dal punto di vista cattolico) che porta ad una maggiore accettazione degli omosessuali e dei loro diritti, e di straforo cita criticamente proprio la Convenzione di Istanbul.” vedi uaar.
E ancora, a proposito di chi realmente vuole che si intenda una violenza “maschile”, di chi la vuole attribuibile al “maschio” e non ad una cultura che costringe tutti i generi, perfino Bagnasco parla – in termini di buon senso – di Femminicidio. Perché questo termine è talmente eteronormato,vittimizzante il femminile, culturalmente affine alle anime conservatrici e reazionarie, che può viaggiare serenamente di bocca in bocca senza che si risolva davvero nulla.
Da lì consegue tanto vittimizzare le donne e consegnarle a piene mani ai tutori che le “salvano” e poi le riconsegnano agli stessi ruoli dai quali quelle donne vogliono fuggire. Così si trasforma una lotta di liberazione delle singole e dei singoli, liberazione da ruoli di genere imposti, da chiunque, in una patetica dimostrazione di debolezza delle donne private di dignità, in quel caso si, di potenza, di capacità di autorappresentazione, schiacciate in una dimensione in cui sono perfino costrette a legittimare istituzioni e tutori che le massacrano.
Così si trasforma una lotta di liberazione in una costante mortificazione della capacità di tante donne (come di tante persone autodeterminate) di decidere e crescere e rivoluzionare i propri luoghi di azione in cui c’è chi vorrebbe addirittura imporre loro gli strumenti da usare per salvaguardare se stesse.
A proposito delle denunce d’ufficio che vorrebbe imporre il governo:
“Si valorizzi metodologie e competenze femminili messe a punto da anni di esperienza sul campo. Impostazioni non giudicanti che puntano sull’autonomia di decisione femminile. Nulla si può agire al di sopra della volontà di una donna. La procedibilità di ufficio per gli iter giudiziari nei casi di violenza previste agli articoli 44 e 55 della Convenzione rischiano di saltare la cosa essenziale: la scelta femminile, indispensabile per uscire da situazioni complesse di dolore, per ricostruire una vita e quella dei figli affrancata dagli inganni d’amore, dalle minacce economiche, dalle ritorsioni.” (Marisa Nicchi, SeL, dall’intervento alla Camera sulla Convenzione di Istanbul)
Perché nessun@ può imporci gli strumenti di lotta. E ai Centri Antiviolenza rimprovero politicamente il fatto che non sappiano distinguersi e che sembrino (alcuni lo sono?) appiattiti su posizioni Istituzionali interventiste e securitarie (di importazione, a partire da culture femministe radicali autoritarie e non-garantiste che poco hanno a che fare con la tradizione laica europea) che nulla c’entrano con il rispetto per la potenza e la forza e l’autonomia femminile di cui pure parlano. Perché quando lo Stato, le Istituzioni, ti impongono gli strumenti di lotta finiscono per normalizzare quella lotta, svuotarla di significato, renderla inoffensiva, mentre fanno finta di curarti le ferite. Quando ti impongono gli strumenti di lotta e dicono che vogliono occuparsi di te vorrebbero piuttosto ammansirti, educarti a ritenere che non sono i ruoli che ti impongono a metterti nella condizione di dipendenza e subordinazione ma il “maschio” in quanto tale.
E tutto ciò è di una ipocrisia senza eguali. La stessa ipocrisia che lo Stato usa quando da un lato manda la polizia a reprimerti nelle piazze se rivendichi lavoro e reddito e poi dice che quella stessa polizia dovrebbe difenderti dagli uomini violenti.
La stessa ipocrisia di una nazione, come la Turchia, da dove viene quella Convenzione che non mi risulta sia stata votata da Francia, Spagna, Inghilterra, dai paesi del nord Europa sensibili alle questioni di genere, della quale si è discusso e la cui ratifica è stata approvata dall’Italia alla Camera. Nazione, la Turchia, che oggi è protagonista di una delle tante dimostrazioni di repressione contro donne, uomini, persone inermi che volevano difendere uno spazio verde.
La lotta contro la violenza sulle donne legittima oggi autoritarismi, patriarcati, è “comoda”, rinsalda e normalizza lo status quo, stabilizza le esigenze di mercato. Se avessero davvero voglia di affrontare il problema delle violenze non agirebbero in termini assistenziali e repressivi ma in termini preventivi e prevenzione significa rimettere in discussione disparità sociali ed economiche oltrechè di genere. Significa valorizzare l’autodeterminazione di persone, popoli, donne, uomini, gay, lesbiche, trans, sex worker, migranti e dissidenti di genere e della società sparsi ovunque perché o ci liberiamo tutti/e o non si libera nessun@. Finché questo non avviene noi siamo funzionali al fatto che tutto cambi per non cambiare nulla. Il Gattopardo insegna.
—>>>Contro il pensiero unico anche in fatto di lotta contro la violenza sulle donne perché la tua liberazione è diversa dalla mia. Perciò si parla di femminismI e non di femminismO.