L’AIMMF e le modifiche in Senato all’affidamento condiviso (ddl 957 e 2454)
Pubblichiamo l’intervento di Marino Maglietta, estensore dei disegni di legge inmateria di c.d. “affido condiviso bis” (Presidente dell’Associazione nazionale Crescere Insieme), e di Matteo Santini (Presidente Nazionale del Centro studi e ricerche sul diritto della famiglia e dei minori), in materia di modifiche in Senato all’affidamento condiviso (ddl 957 e ddl 2454).Firenze, 25 aprile 2011. L’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia (AIMMF) ha recentemente espresso forte preoccupazione in ordine alle proposte contenute nel ddl 957 (Comunicato Stampa del 9 aprile 2011), che torna sul tema dell’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, introdotto dalla Legge 54/2006
Ciò facendo l’AIMMF compie opera del tutto apprezzabile, evidenziando la propria viva e permanente attenzione ai temi del diritto di famiglia. Nel merito, l’AIMMF riproduce molto da vicino i rilievi e le riserve già espresse negli ultimi tempi da gruppi di avvocati e segnatamente da UNCM, AIAF, OUA e Osservatorio Nazionale sul diritto di Famiglia. Verso queste associazioni quanti hanno a cuore il benessere dei minori e lavorano da sempre per esso non possono che provare gratitudine per le garbate, accurate e costruttive osservazioni, che verranno nel prosieguo analizzate ordinatamente.
E’, anzitutto, da notare che il ddl 957, risalendo al 2009, ha richiesto qualche sia pur secondario aggiustamento e diversi mesi fa è stato quindi virtualmente sostituito dal ddl 2454(16 novembre 2010), che, lasciando integralmente inalterato il corpo del progetto, ha dato tuttavia preventiva risposta a un paio tra le preoccupazioni espresse, laddove esisteva qualche possibilità di equivoco, meramente formale. E’ dunque alla versione più recente che verrà qui fatto riferimento, anche se di essa nessuna delle associazioni sopra ricordate sembra avere preso contezza.
Iniziando dal dissenso sulla cosiddetta pariteticità dei genitori (comunque, già per la legge in vigore affidatari entrambi), “Viene così imposta per legge la divisione del tempo dei figli minori in misura eguale presso ogni genitore”, nessuna preoccupazione, perché non di tempi si tratta, ma del diritto del minore “di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi pariteticamente, salvo i casi di impossibilità materiale”. Del resto sul punto è inequivocabile l’introduzione: “… si faccia ben attenzione: si tratta di una pariteticità che non è affermata per i tempi, fiscalmente e rigidamente, (sarebbe del resto assurdo pretendere lo stesso numero di pernottamenti avendo il doppio dei pomeriggi, e viceversa), ma invoca pari responsabilità e paritetica assunzione di concreti doveri.”
Altra rassicurazione può essere fornita sul “doppio riferimento abitativo, per cui il figlio dovrebbe fare il pendolare tra le case dei due genitori ed avere la doppia residenza”. La proposta infatti dice altro, ossia che il giudice assume le decisioni riguardanti la presenza dei figli presso i genitori “stabilendone il domicilio presso entrambi, salvo accordi diversi dei genitori”. Ora, ai sensi dell’art. 43 c.c. i concetti di domicilio e di residenza sono ben distinti (1°, ovvero 2° comma) e poiché il primo è il luogo del principale riferimento degli interessi di una persona, essendo il figlio affidato contemporaneamente ai due genitori appare del tutto corretto e consigliabile che possa sentirsi “ a casa sua” sia presso la madre che presso il padre. Dei supposti “pendolarismi” si è già detto al punto precedente e comunque perfino con l’affidamento esclusivo gli spostamenti dei figli di genitori separati sono inevitabili.
Poco chiara è l’origine della successiva preoccupazione: “Viene altresì imposta per legge una formale e presunta parità economica dei genitori senza alcun riferimento alla diversità delle loro condizioni reddituali e patrimoniali in concreto, avvantaggiando in tal modo ingiustificatamente il genitore economicamente più forte.”, visto che in realtà per il contributo al mantenimento dei figli si prevede che “Salvo accordi diversi delle parti, ciascuno dei genitori provvede in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche”. Forse è si è avuto un improprio allargamento del giudizio negativo a partire dalla prevalente avversione giurisprudenziale per la forma diretta del mantenimento a favore dell’assegno, la quale tuttavia non rappresenta una novità del condiviso bis, essendo già prevista dalla legge in vigore.
Altro motivo di allarme è per l’AIMMF nella presunta “eliminazione, nel 2° comma dell’art. 155 c.c., del riferimento all’interesse morale e materiale dei figli nella decisione del giudice”. Ma così non è, essendo stato questo semplicemente riportato, nel medesimo comma, nella sua giusta posizione, la stessa che occupava incontestatamente nel codice civile prima della riforma del 2006, laddove si afferma che il giudice: “Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”. Ed è logico che ad un principio generale il legislatore rimandi non dove il testo di legge elenca precise prescrizioni – che devono semplicemente essere osservate – ma dove la genericità delle facoltà del giudice impone un ausilio applicativo. Si è solo inteso rimediare a una svista.
Interessante è anche il rilievo dell’AIMMF sulla assegnazione della casa familiare: “Contraria all’interesse del minore risulta la previsione della perdita ope legis del godimento della casa familiare in caso di convivenza more uxorio, in quanto tale revoca andrebbe a nuocere inevitabilmente sul mantenimento dei riferimenti sociali e ambientali dei figli minori nel cui esclusivo interesse viene assegnata la casa familiare al genitore con cui gli stessi convivono.” Tale giudizio rappresenta una conferma del permanere della difficoltà per la magistratura minorile a realizzare con le proprie decisioni la svolta voluta dal legislatore a favore della bigenitorialità, pur esplicitamente espressa. Se il minore già con la legge in vigore ha diritto ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, è chiaro che non esiste un “genitore convivente”. Il figlio vive un rapporto simmetrico, intercambiabile nella sua flessibilità, all’insegna di autentiche pari opportunità da utilizzare privilegiando di volta in volta la temporanea collocazione che meglio soddisfi le sue esigenze. In un regime di questo tipo è evidente che, superato il concetto di “collocazione privilegiata”, viene meno anche la giustificazione giuridica per scavalcare il diritto di proprietà. Del resto il concetto è ampiamente illustrato nella relazione introduttiva al ddl. Il legislatore, infatti, non ignora la pronuncia 308 del 2008 della Corte costituzionale, ma ritiene che, una volta riaffermato e rispettato l’equilibrio anche abitativo nel rapporto del figlio con ciascun genitore cadano automaticamente pure le preoccupazioni per la presunta «sottrazione della casa al minore» su cui ruota tutto il ragionamento della pronuncia suddetta. D’altra parte, si tiene dovutamente conto della ben più convincente pronuncia della Corte di cassazione, (sentenza 17 dicembre 2007, n. 26574), secondo la quale la casa familiare non è un insieme di muri, ma il luogo degli affetti familiari per cui, una volta che “la famiglia” si sia smembrata, e per giunta si voglia introdurre in quegli ambienti una persona estranea, vengono irreversibilmente meno quei requisiti di «nido», di habitat consueto dei figli che in via del tutto eccezionale permette di superare le normali regole di godimento dei beni immobili. E’ dunque evidente il permanere del favor dell’AIMMF per il modello dell’affidamento esclusivo, che si continua a ritenere più adatto a realizzare l’interesse del minore e che si cerca di mantenere in vita con la parte sostanziale delle decisioni, pur piegandosi ad utilizzare il nome di “affidamento condiviso”.
Una tendenza che si conferma nel deprecare la “eliminazione del riferimento al tenore di vita anteriore alla separazione”, una espressione chiaramente, ma impropriamente, mutuata dagli obblighi tra coniugi, dove però ha senso, dovendosi disciplinare le risorse future di soggetti che non vivranno più insieme, e oltre tutto relativa a necessità ormai stabilizzate. Un caso ben diverso da quello dei figli, soggetti in età evolutiva e quindi dai bisogni permanentemente variabili, nonché conviventi con i genitori, e quindi logicamente chiamati ad adeguarsi ai mutamenti familiari, sia in meglio che in peggio. Il legislatore, pertanto, ha inteso evitare illogici riferimenti a ciò che si era stati prima: la separazione cambia il contesto economico, e oltre tutto può anche coincidere con svolte positive. Si pensi al comune caso di una moglie casalinga che, per affrontare la nuova situazione, inizi a lavorare, più che superando in tal modo l’impoverimento sempre legato alla separazione in se stessa. Il riferimento al passato in una situazione del genere risulterebbe riduttivo, a tutto danno dei figli.
Quanto al timore per “l’eliminazione della possibilità di disporre indagini per individuare la capacità reddituale dei genitori”, non ha fondamento. Il comma dell’art. 155 che prevede le indagini è il 6°. Le modifiche previste dal ddl in oggetto arrivano fino al 5°. Dunque è pacifico che il 6° resta intatto. Del resto si tratta di uno degli aspetti già presenti nel testo base (pdl 66) per la legge 54/2006, elaborato come i ddl in oggetto dall’Ass. Crescere Insieme, quindi non è pensabile che la stessa fonte oggi ne proponga la soppressione.
Non è facile, inoltre, comprendere quale sia lo spunto per le preoccupazioni espresse in merito alla mediazione familiare: “Suscita poi perplessità l’imposizione obbligatoria della mediazione familiare in tale materia (con la conseguente penalizzazione del genitore che sarà ritenuto colpevole di averne provocato l’insuccesso)”. Il ddl, infatti, prevede solo l’obbligo di informarsi sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione, restando liberi di non effettuarlo. Inutile dire che di quanto venga detto in esso, o nell’incontro informativo, nulla giunge al giudice, al quale le parti si limiteranno a presentare la certificazione dell’avvenuto passaggio. Qualcuno ha detto che anche quest’obbligo è eccessivo perché impedirebbe un libero accesso dei cittadini alla giustizia. Può replicarsi, tuttavia, che qualsiasi tipo di richiesta rivolta alle istituzioni richiede dei pre-adempimenti: dall’obbligo di procurarsi il certificato di residenza e di matrimonio, alla esibizione delle dichiarazioni dei redditi. Nulla più di un consenso (o dissenso) informato prima del più banale intervento chirurgico.
Altro motivo di preoccupazione risulta ciò che viene definito “la legittimazione attiva dei nonni a proporre nel giudizio di separazione la domanda relativa al loro autonomo diritto di visita destinata ad accentuare la conflittualità familiare, con ulteriori ripercussioni negative sull’equilibrio dei minori, il cui interesse a mantenere relazioni con i familiari è già tutelato dalla possibilità per i nonni, ma anche per gli zii ed altri parenti, di proporre domanda al Tribunale per i Minorenni ai sensi dell’art. 336 c.c. ”. Ma, in effetti il testo del ddl 2454 dice che ai parenti: “…, è data facoltà di chiedere al giudice di disciplinare il diritto dei minori al rapporto con essi”. E’ intuibile che non si tratta di allargare le parti del processo di separazione, ma di consentire che essi possano attivare un procedimento a sé stante per rendere effettivo un diritto che stando in capo a un soggetto che non ha la capacità di agire resterebbe lettera morta. Esattamente come deve muoversi un figlio già maggiorenne ma non indipendente economicamente al momento della separazione dei suoi genitori, che non sia soddisfatto della sorte a lui destinata da essi, senza per questo diventare “parte” nella separazione. Quanto all’art. 336, afferma la possibilità che in caso di maltrattamenti o ancor più gravi circostanze possano attivarsi anche i parenti, quindi è sembrato consigliabile al legislatore disciplinare anche situazioni di opportunità, senza giungere allo stato di necessità.
Validissimo, infine, il suggerimento di rivedere il riferimento agli istituti di educazione, tanto che nel testo del ddl 2454 (novembre 2010) si legge: “In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, in una comunità di tipo familiare.”.
In definitiva, appare probabile che ciò che maggiormente abbia sollevato perplessità, ovvero dato fastidio, e abbia contribuito ad una valutazione fortemente negativa della nuova proposta sia stato un aspetto citato solo indirettamente nel comunicato stampa dell’AIMMF, ovvero il mancato sostegno al progetto di istituire un tribunale unico dei minori e della famiglia, sostanzialmente trasformando in tale struttura gli attuali tribunali per i minorenni. Difatti l’art. 12 dei ddl risolve a favore del tribunale ordinario i dubbi sulla competenza relativamente alle famiglie di fatto. Si tratta certamente di una posizione degna di rispetto, così come riteniamo valutabili le motivazioni dei nuovi ddl: “ … si ritiene preferibile che il dibattito si svolga in luoghi più facilmente accessibili agli utenti (il rapporto numerico è 165:29) e ove sono più ampie le garanzie per le parti: una precauzione che appare necessaria, atteso il principio del rispetto dell’interesse del minore che informa tutti i provvedimenti in materia.”. Ma questo è certamente un tema prematuro, che sarà oggetto di futuri più ampi dibattiti.
Accanto a questo genere di considerazioni, che attengono alla specificità del nuovo progetto, non può tuttavia tacersi, di fronte alla forte ondata di critiche giunte dalle associazioni citate all’inizio, che si ha la sensazione che si tratti di qualcosa di diverso e di più profondo, rispetto al dissenso su singoli aspetti. La sensazione è che ci si sia sforzati di trovare criticità e negatività nel disegno di legge 957 (o meglio 2454), e solo quelle, essenzialmente perché è il modello stesso che a molti non piace, che non è mai piaciuto. Volgendosi indietro, non si può non rammentare che se sono occorsi dodici anni per far entrare nel nostro ordinamento l’affidamento a entrambi i genitori (a dispetto di quella lunga serie di convenzioni internazionali così spesso invocate a tutela dell’ “interesse del minore”) è perché quelle medesime associazioni lo hanno fortemente avversato o, nel migliore dei casi, hanno taciuto. La simpatia, la propensione, verso il modello monogenitoriale traspare da ogni loro intervento, da ogni loro scritto. Onestà intellettuale vuole che se ne possano anche vedere delle ragioni, siano o meno prevalenti o esaustive. Innegabilmente il sistema fondato sul “genitore affidatario” (o “collocatario” che è la stessa cosa) permette una serie di automatismi e di semplificazioni (attribuzione della casa, w-e alternati, assegno …), fino a quella massima, che è l’uso di prestampati, o di formulari salvati sul computer. Non così se ci si deve calare nel caso particolare, studiandone usi e abitudini, in modo da confezionare per esso abiti su misura, precisando compiti di cura e capitoli di spesa. In effetti per queste necessità la mediazione familiare si rivelerebbe preziosissima, ma qui subentra un altro tipo di difficoltà, soprattutto in altri ambiti: il mediatore di problemi potrebbe risolverne troppi, potrebbe invadere troppo spazio. O, almeno, si è portati a temere che ciò possa avvenire. Sarà un caso che la mediazione familiare incontri tante resistenze?
fonte altalex