LE PATOLOGIE DEGLI INSIEMI FAMILIARI DA SEPARAZIONE: …….
LE PATOLOGIE DEGLI INSIEMI FAMILIARI DA SEPARAZIONE: NUOVI SPUNTI CLINICI E PSICOSOCIOLOGICI IN TEMA DI MOBBING GENITORIALE E RECUPERO DELLE RELAZIONI GENITORIALI AMPUTATE (*)
Dr. Gaetano Giordano Psicoterapeuta Specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni
Direttore del Centro Studi Separazioni e Affido MinoriNota: laddove non altrimenti specificato, l’articolo deve intendersi opera di Gaetano Giordano.
Gli altri autori sono:
Avvocato Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
dr. Marco Muffolini – Dottore in scienze e tecniche psicologiche
dr.ssa Benedetta Rinaldi – psicologa e psicoterapeuta
VAI ALL’INDICE
(*)Il concetto di “amputazione genitoriale” -espressione straordinariamente efficace per definire cosa accade veramente ad un bambino “alienato” dal suo genitore, è stato per primo utilizzato da G. Benedetti, che così si esprime:
“Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata.
Io preferisco chiamarla “di amputazione genitoriale”, perchè dà meglio l’idea di che cosa sia, mi sembra. Si sta discutendo fra gli estensori della prossima edizione del DSM, se riconoscere ‘ufficialmente’ questa sindrome fra i disturbi mentali, di cui il DSM appunto si occupa … ” (Benedetti G. 1911)
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INDICE
Premessa
1. IL MOBBING IN LETTERATURA SCIENTIFICA
1.1. Il mobbing in etologia
1.2. Il mobbing nei gruppi umani
1.2.1. Il Mobbing nel mondo del lavoro
1.2.2. Il “mobbing”: altri vocaboli per lo stesso significato;
un vocabolo per altri fenomeni
1.2.3. Il “Charivari” come forma di “Mobbing sociale”
1.2.4. “Accadde un’estate”: racconto di un mobbing
familiare dal basso
1.3. La distinzione tra mobbing lavorativo, mobbing
genitoriale e altri mobbing
1.3.1. Il mobbing come modalità relazionale comune a
gruppi animal i e umani
1.3.2. I punti in comune della modalità mobbizzante
1.3.3. Il “mobbing” nell’uomo come estensione di un
programma di autotutela della prole e del fitness
2. LA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE NELLA
COPPIA GENITORIALE TRA GENITORIALITA’ E
GIUSTIZIA
2.0 Premessa: l’utilizzo di un nuovo lessico in questo
scritto
2.1. La “comparsa” dell’intruso e l’emergere della
transazione mobbizzante nella coppia genitoriale
2.2. Il rapporto tra il contenzioso giudiziario e la
transazione mobbizzante
2.3. Diritto vs. autopoieticita’ della coppia
2.4. Il diritto come autostrada preferenziale per la gestione
del conflitto di coppia
2.5. Dal caos nel sistema-coppia ai processi di
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subottimizzazione
2.6. Il mobbing genitoriale come problema di “diritti
sbagliati”
2.7. La subottimizzzazione come risultato dell’esazione
sbagliata di diritti sbagliati
2.8. Diritti sbagliati e dis-qualita’ emergente dal
“sistemaseparazioni”: il “family chopping”.
2. 9 . La serialit à decisionale della giustizia in tema di affidi
e l’eliminazione della figura del padre: ipotesi per una lettura
socio-antropologica
2.1 0 . Il Mobbing genitoriale e la Giustizia Italiana
avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
3.
LE
CARATTERISTICHE
DEL
MOBBING
GENITORIALE
3.1.Definizione di mobbing genitoriale
3.2.1. Le tattiche di ostacolo e distruzione del legame
genitore-figlio
3.2.1.1. Gli ostacoli alle frequentazioni e alle
comunicazioni
3.2.1.2. Le tattiche di distruzione dell’espressione sociale e
legale della figura genitoriale
3.2.1.2.1. Le tattiche extra-giudiziarie
3.2.1.2.2. Le tattiche giudiziarie
3.2.1.2.2.1. – La mobbizzazione attraverso l’utilizzo di
profili civilistici.
3.2.1.2.2.2. La mobbizzazione attraverso l’utilizzo di profili
penali
3.2.1.2.2.3. Lo stalking giudiziario
3.3.1. Tattiche svilimento e distruzione della figura
genitoriale
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4.
LE
CONSEGUENZE
DEL
MOBBING
GENITORIALE
E
DELLA
TRANSAZIONE
MOBBIZZANTE
4.1.0 Premessa: dalla coppia unita al l’“Insieme Bi-
Genitoriale da Separazione” a transazione mobbizzante.
4.1.1. La cosiddetta PAS – Sindrome di Alienazione
Genitoriale
4.1.1.2. Le polemiche relative alla “Alienazione
Genitoriale”
4.1.1.3. Le polemiche sulla PAS e l’Alienazione Parentale
come momenti di una mistificazione
5. IPOTESI DI GESTIONE CLINICA DEI CONTESTI
GENITORIALI MOBIZZANTI E ALIENANTI
5.1. La gestione dei contesti a transazione mobbizzante:
l’intervento del Tribunale o di suoi incaricati
5.1.1. Cenni sulla responsabilità professionale degli
operatori dei Servizi Sociali incaricati dal Giudice
Avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
5.1.2. Tentativi di intervento clinico in casi di della alienazione
parentale con interruzione del legame genitori-figli: una premessa
5.1.3. La cicatrice paterna: frattura e possibilità di
ricostruzione del legame padre figlio nei casi di mobbing
genitoriale
dr. Gaetano Giordano
dr.ssa Benedetta Rinaldi
dr. Marco Muffolini
5.1.4. Il ritorno di Ulisse: strategie di intervento nel
mobbing genitoriale
5.1.5. I risultati e le statistiche
BIBLIOGRAFIA
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Premessa [torna su]
Questo “articolo”, la cui lunghezza in realtà farebbe pensare di
più ad un libro, nasce dalle esperienze del Centro Studi Separazioni
e Affido Minori, di Roma.
Il Centro Studi Separazioni e Affido Minori 1 si occupa da oltre
una trentina di anni -negli anni ’80 con altro nome- delle
problematiche legate alla conflittualità nelle separazioni coniugali e
ai problemi da questa emergenti: mobbing genitoriale e alienazione
parentale.
Nel 1984 chi lo ha fondato e lo dirigeva, vale a dire l’autore di
questo articolo, ha utilizzato per primo in Italia le tecniche della
Mediazione Familiare, seguito ad anni di distanza da un Centro di
Ancona.
Nel corso di questi trenta e più anni, sono stati sviluppati
modelli di intervento sia in campo psicoterapico (chi vuole
riconoscersi negli orientamenti e nei legami col nostro Centro
Studi, deve avere di necessità una preparazione psicoterapica di
orientamento analitico, con una analisi personale molto importante
alle spalle), sia in campo psicologico-forense, producendo alla fine
modelli di intervento, e di lettura del problema molto personali.
Come si leggerà in questo articolo, il Centro ha sviluppato
orientamenti specifici nella gestione delle “patologie da transazione
mobbizzante in campo familiare”, e un lessico nuovo, sicuramente
apparentemente pretenzioso e autoreferenziale alle esperienze dei
professionisti che le portavano avanti, e che -coerentemente alle
prospettive comuni- nasce sostanzialmente per orientarsi nel loro
stesso orientarci nel loro campo di operazioni. Il loop linguistico
con cui viene descritto tutto ciò, esprime dunque volutamente la
prospettiva epistemologica alla quale ci si riferisce allorché si parla
di “conoscenza umana”. Gli autori di riferimento sono, da questo
punto di vista, Maturana, Varela, Bateson, e Morin.
Al momento, si riconoscono nelle linee guida dello stesso
Centro altri professionisti, alcuni dei quali partecipano con costanza
1
Il Centro Studi Separazioni e Affido Minori è formato da colleghi psicologi e medici uniti tra loro da un
solo vincolo culturale e di colleganza professionale, privi di qualsiasi aspetto associativo formalizzato.
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ad iniziative comuni, e sono la dr.ssa Benedetta Rinaldi ed il dr.
Marco Muffolini Dottore in scienze e tecniche psicologiche, nonché
la dottoressa Barbara Rossi, che opera a Milano (e Reggio Emilia).
Questo articolo vuole essere la presentazione di un punto di
partenza raggiunto dopo trenta anni di ricerche e studi sul campo, e
che vuole qualificarsi come il frutto di una ricerca personale
condotta sempre con scienza, coscienza, ricerca di etica nell’agire e
nel proporre.
[torna su]
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1. IL MOBBING IN LETTERATURA SCIENTIFICA
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Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob” e significa
assalire, soffocare, vessare o malmenare.
Fu in etologia che avvenne per la prima volta l’utilizzo di tale
termine e sempre in etologia che cominciarono gli studi relativi al
“mobbing”.
1.1. Il mobbing in etologia [torna su]
Il termine mobbing fu inizialmente utilizzato da Konrad
Lorenz per indicare una reazione collettiva verso un predatore da
parte di potenziali prede che attuando un assalto organizzato di
gruppo ne elidono l’attacco stesso; successivamente fu utilizzato
per indicare i comportamenti aggressivi di un gruppo di animali nei
confronti di un singolo inter o intraspecifico. Si evidenzia quindi
come il mobbing sia stato dapprima definito come strategia
difensiva antipredatoria di animali che conducono una vita
collettiva mentre successivamente ne è stato messo in risalto il
significato in termini di vantaggi conservativi a tutela della struttura
gerarchica del gruppo stesso (De Risio & Faia, 2002).
In ambito etologico il “mobbing behavior” ovvero il minacciare in
maniera aggressiva un nemico rappresenta un mezzo per adattarsi
all’ambiente. Fu Niko Tinbergen che osservando gabbiani comuni,
uccelli quindi piuttosto ordinari, evidenziò come una delle cose che
un gabbiano può fare nel periodo della nidificazione è quella di
aggredire un predatore tuffandosi di fronte ad esso. È necessario,
dunque, in una trattazione sul mobbing in etologia chiarire
innanzitutto il concetto di adattamento. Alcock, J. (2000) definisce
adattamento “una caratteristica ereditabile che fornisce ad un individuo un
vantaggio rispetto ad altri individui che possiedono differenti caratteristiche
ereditarie, vantaggio che favorirà detto individuo nella trasmissione di geni alle
generazioni successive”; una sorta quindi di situazione ottimale, rispetto
alle alternative esistenti, per favorire negli individui la trasmissione
dei propri geni alla prole. Il perché il comportamento dei gabbiani
promuovesse il successo riproduttivo del singolo individuo
risiedeva nel fatto che questo comportamento rappresentava un
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mezzo per i gabbiani “genitori” per confondere i predatori che
altrimenti avrebbero divorato la loro prole, un sorta quindi di
deterrente contro i predatori.
Tutto ciò deve però essere inserito nel quadro generale della
teoria dell’adattamento nel cui interno accoglie sia costi che
benefici evolutivi. Gli uccelli, infatti, mentre stanno attaccando un
nemico potrebbero venir uccisi o seriamente feriti, senza
considerare la perdita di tempo ed energia che potrebbero invece
impiegare in altre attività (Garavaglia R., 2003). Alcock, J. (2000)
sottolinea che “il rovescio della medaglia è però rappresentato dai benefici
evolutivi che un animale con attività di mobbing può ricavare da tale
comportamento, cioè un aumento potenziale della fitness dell’individuo dovuto
al fatto che esso salva una prole già in vita”. Per definire un
comportamento adattivo questo deve quindi possedere dei guadagni
complessivi che eccedano sui costi; principio spiegato dal fatto che
i caratteri che si sono affermati nel corso dell’evoluzione tendono
infatti a massimizzare i benefici rispetto ai costi, i caratteri che si
sono evoluti, secondo la teoria dell’ottimizzazione, rappresentano il
meglio del bilancio costi – benefici. Ad esempio un gabbiano
quanto più si avvicinerà ad una volpe tanto più riuscirà a distrarla,
aumentando la probabilità di sopravvivenza della prole, ma quanto
più l’uccello si avvicinerà tanto più facilmente la volpe potrebbe
acchiapparlo diminuendo la probabilità di riprodursi in futuro.
Alcock, J. (2000) individua “un punto nel quale i benefici supereranno i
costi col più grande margine possibile e questo punto è rappresentato dalla
distanza a cui un gabbiano si potrà avvicinare a una volpe nella sua attività
di mobbing”.
C’è però da sottolineare che gli studiosi che utilizzano la teoria
dell’ottimizzazione non considerano come le interazioni sociali
all’interno della specie possano rappresentare delle influenze a
differenza di coloro che propongono la teoria del gioco i quali
immettono nei loro modelli anche gli effetti sociali. Considerano,
cioè, il comportamento animale come se fosse un gioco tra i
membri di una popolazione, dove la soluzione che porta a un
migliore adattamento dipende dalle strategie utilizzate dagli altri
membri della popolazione. Nel comportamento di mobbing i teorici
della game theory non considererebbero solo il contesto tra
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gabbiani e volpe ma inserirebbero anche l’attività svolta dagli altri
componenti della colonia. “La teoria del gioco ci fa capire che la selezione
naturale può favorire caratteri che portano il successo nell’arena della
competizione sociale, riducendo così l’efficacia delle interazioni dei singoli
individui con gli altri aspetti dell’ambiente in cui vivono” (Alcock J., 2000).
I modi che consentono di saggiare le ipotesi che tendono a
spiegare il comportamento nella sua funzione adattiva sono
numerosi sebbene tutti implicanti la formulazione di una previsione
da valutarne l’accuratezza. Quando il comportamento da mobbing è
considerato, da alcuni studiosi, come l’attività che migliori
l’adattamento di un gabbiano, poiché grazie ad esso l’adulto
allontana i predatori, tendono ad essere formulate previsioni basate
sull’ottimizzazione. Kruuk (1964) per saggiare questa ipotesi ha
effettuato uno studio biennale sulla predazione in una colonia di
gabbiani comuni i quali attaccavano corvi e gabbiani argentati.
Queste ultime specie non essendo in grado di catturare e mangiare
gli uccelli adulti, si nutrono di uova di gabbiano comune,
innescando negli adulti un comportamento di mobbing supportato
da una certa garanzia nel momento della sua attuazione. I predatori
riescono a evitare gli attacchi dei gabbiani, ma risultano disorientati
e la loro ricerca di nidi ed uova viene resa inefficace. Tale
osservazione, a parere dello studioso, sembrerebbe avvalorare
l’ipotesi che il mobbing effettuato in gruppo sia una risposta
adattiva alla presenza di determinati predatori di uova.
Le ipotesi sulla teoria dell’adattamento può essere verificata
attraverso l’uso del metodo comparativo, per alcuni etologi per
saggiare la previsione che il comportamento di mobbing operato
dal gabbiano comune sia un adattamento che si è evoluto per
distrarre i predatori dalle uova e dalla prole tendono ad effettuare
una comparazione con altre specie di uccelli che assillate dal
medesimo problema della predazione sui loro nidi hanno evoluto
dei comportamenti simili.
I sostenitori di questo metodo tendono a sottolineare che la
comparazione non può essere effettuata sulle varie specie di
gabbiano in quanto queste specie avendo un antenato comune
possono aver ereditato gli stessi geni da tale antenato sviluppando
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di conseguenza un sistema nervoso simile e quindi un analogo
comportamento di mobbing verso i predatori.
Ciò che gli etologi hanno ipotizzato è che se il comportamento
evolve in risposta a delle condizioni ecologiche specifiche, anche
specie tra loro imparentate ma viventi in situazioni che presentano
problemi ecologici diversi dovrebbero divergere dal modello
ereditato dall’antenato presentando capacità e comportamenti
peculiari alla realtà ecologica in cui vivono. Di conseguenza le
specie di gabbiani che non sono minacciate dai predatori non
dovrebbero manifestare comportamenti mobbizzanti. A sostegno di
questa ipotesi gli studi di Cullen (1957) sui gabbiani del genere
Rissa i quali nidificando su scogliere quasi verticali dove nessun
mammifero predatore può raggiungerli e dove i vorticosi venti
marini rendono pericoloso il volo dei falchi e dei gabbiani e dove di
conseguenza la prole non corre il rischio di essere predata, gli adulti
non effettuano il mobbing contro intrusi occasionali. Cullen (1957)
sostiene che “l’assenza del comportamento di mobbing nei gabbiani del
genere Rissa, che non hanno predatori, si può considerare un caso di
evoluzione divergente, caso che contribuisce a convalidare l’ipotesi che il
comportamento di mobbing si evolva come risposta ad una pressione operata da
un predatore”.
È però stato evidenziato che specie che sebbene si trovino
filogeneticamente distanti e quindi caratterizzate da comportamenti
caratteristici e differenziati tra di loro riconducibili ad un proprio
antenato, se soggette ad una pressione selettiva simile possono aver
evoluto un comportamento analogo in maniera indipendente
attraverso un processo di evoluzione convergente (Fig. 2). Se quindi
l’evoluzione del comportamento di mobbing si collegasse ad un
fattore ecologico comune prenderebbe più campo l’ipotesi che il
carattere in esame rappresenti un adattamento alla pressione
ambientale che tale fattore opera (Alcock J., 2000).
Vi sono animali non imparentati col gabbiano comune che
hanno evoluto il comportamento di mobbing con un processo di
evoluzione convergente (Alcock J., 2000). I babbuini e gli
scimpanzé, ad esempio, ingaggiano attacchi collettivi soprattutto
contro leopardi, urlando, attaccando e poi ritirandosi; arrivando
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perfino a scagliare dei rami contro il predatore (Costa, 2005).
Un’altra specie coloniale che ingaggia assalti di gruppo contro i
predatori è il Citello della California (Owings e Coss, 1977), un
roditore. I principali nemici di questa specie sono i serpenti che
penetrando nelle tane dove si trovano i piccoli inducendo negli
adulti che trovandosi sul terreno fuori della tana ed essendo
relativamente al sicuro, tutti insieme effettuano il mobbing contro
l’intruso, tirandogli la sabbia sul muso con le zampe ed
infastidendolo al punto di indurre la resa del predatore. Nelle
ricerche di Owings risulta inoltre particolarmente interessante la
differenza comportamentale compiuta dai Citelli della California
giovani ed inesperti a seconda se fossero nati in una zona infestata
da serpenti velenosi o meno. Gli studiosi rilevarono, infatti, che i
Citelli giovani ed inesperti nati in una zona infestata da serpenti a
sonagli, velenosi evitavano in maniera evidente il contatto con
qualsiasi tipo di serpente; mentre i Citelli provenienti da zone prive
di serpenti a sonagli mostravano più fiducia verso questi animali. I
Citelli della California adulti che effettuano il comportamento di
mobbing contro i serpenti a sonagli, sanno discriminare tra questi e
serpenti non velenosi: mentre con i primi si tengono a maggiore
distanza con questi ultimi durante l’assalto si avvicinano di più.
Queste scoperte di Owings (Alcock J., 2000) hanno significato,
come asserito in precedenza, nel contesto di un’analisi dei costi –
benefici del comportamento di mobbing.
Sempre nell’ambito del mobbing, come difesa della propria
prole, è stata osservata una particolare strategia attuata dal Corriere
Americano (Charadrius vociferus) il quale induce in tentazione il
predatore su se stesso come facile preda per poi allontanarlo. Nello
specifico attraverso la “simulazione dell’ala rotta” (Costa, 2005)
l’individuo impegnato nell’incubazione delle uova o nella cura della
prole si comporta come se avesse un serio ferimento all’ala,
inciampando, sbattendo sui rami, riuscendo ad attirare per poi
allontanare il predatore e ritornare alla prole.
I pivieri, oltre ad attuare la strategia dell’ala rotta, sono in grado
di adottare altre strategie diversive anche nei confronti di animali
come per esempio una mucca, che pur non essendo in sé un
predatore può ugualmente rappresentare un pericolo per le uova e
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la nidiata calpestando l’area in cui si trovano. Tali volatili, che
nidificano a terra, allontanano il potenziale pericolo interponendosi
tra nido ed invasore con una serie di movimenti che inducono
l’allontanamento dell’invasore. Ristau (1991) ritiene inoltre che i
pivieri siano in grado di distinguere persone diverse e comportarsi
in modo aggressivo nei riguardi di qualcuno che precedentemente
ha assunto un atteggiamento minaccioso.
Riferirsi ad una o ad un’altra ipotesi può far cadere nel rischio
di trascurare ipotesi alternative che potrebbero invece portare alle
stesse previsioni. A questo rischio ha ovviato Shields (1984) con il
metodo delle ipotesi multiple per analizzare il comportamento di
mobbing della rondine. Molte coppie di questa specie nidificano
insieme ed attaccano i predatori tuffandosi in picchiata virando
all’ultimo momento con un forte turbinio di ali. Una ipotesi sulla
funzionalità del mobbing è quella che inquadra la funzione di questi
attacchi collettivi nella sopravvivenza della prole funzionando da
deterrente contro i predatori. Ma sono state formulate anche ipotesi
alternative (Alcock J., 2000) alla difese dei piccoli, ovvero
l’autodifesa e la difesa del gruppo portando a differenti previsioni.
Dalla disquisizione su queste ipotesi alternative Shield ha però
evidenziato che se il mobbing è ipotizzato come forma di
autodifesa non dovrebbero esserci variazioni stagionali di tali
attività, invece è stato osservato che il comportamento di attacco
collettivo è fortemente associato alla stagione riproduttiva, ragione
per cui l’ipotesi dell’autodifesa viene declinata. Se il
comportamento di mobbing fosse, invece, una forma di difesa
cooperativa del gruppo le caratteristiche degli assalitori per status
ed età dovrebbe riflettere la composizione della popolazione nel
suo complesso, è stato invece osservato che il gruppo di difesa era
composto da quegli adulti che avevano una prole. “Saggiando
formalmente tutta una serie di alternative, Shield fornì una dimostrazione
ancora più evidente che, nelle rondini, i genitori che manifestano attività di
mobbing proteggono con essa i propri piccoli e le proprie uova, e che in questo
risiede il valore adattivo di tale comportamento attivo” (Alcock J., 2000).
In sintesi, questo breve excursus nelle principali teorie
etologiche del mobbing animale e negli studi ad esse correlate lascia
emergere la costatazione che nel mondo animale il mobbing si
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esprime sempre in contesti genitoriali, ed è il frutto di un
comportamento di difesa della prole e della organizzazione di cura
parentale.
Anche dall’analisi delle varie ipotesi alternative prospettate da
Shield emerge chiaramente la relazione del comportamento
mobbizzante con la presenza di un contesto “genitoriale” (o di
tutela della progenie) e con la stagione riproduttiva, e dunque la
dimostrazione che il “mobbing” negli animali non è -se non
indirettamente- autodifesa né, tanto meno, difesa del gruppo.
Ciò implica che il mobbing fra gli animali
1) è l’espressione della tutela della genitorialità attraverso
l’attacco al predatore della prole;
2) è un comportamento etologicamente programmato.
La nostra ipotesi è che, proprio per questo motivo, il
“mobbing” sia un comportamento etologicamente programmato
nell’anima ma ancora attivabile con molta facilità nell’essere umano,
la cui differenza con gli animali è esclusivamente nel fatto che -per
così dire- amplia ed estende ciò che l’animale percepisce e
considera come “prole”, di “nido”, “fitness”, e dunque come tutela
della “prole”, del “nido”, della “fitness”.
1.2. Il mobbing nei gruppi umani [torna su]
1.2.1. Il Mobbing nel mondo del lavoro [torna su]
Sino al 1984 circa, il termine “mobbing” è stato utilizzato
esclusivamente in etologia.
Successivamente, Leymann, in Svezia, lo utilizzò (dopo però
che il fenomeno era stato descritto con altri termini) per indicare
un particolare tipo di conflittualità cronica in un contesto
lavorativo.
Infine, il termine “mobbing” è stato successivamente utilizzato
(accostato ad aggettivi o termini che ne permettessero la
contestualizzazione), per designare modelli simili di conflittualità
croniche, emergenti in altre tipologie di gruppi umani – ad es.,
“Mobbing familiare”, “Mobbing genitoriale” (Giordano, 2004).
Per quanto riguarda il mobbing lavorativo, esso -per la legge
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italiana- “è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il
lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel
tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche
intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez.
Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla
protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno
2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od
all’emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano
professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo
distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art.
2103 cod. civ.).
Fondamento dell’illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006
n. 4774) l’obbligo datorile, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure
necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.
Da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo
specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro
dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da
uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento
sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere,
attraverso l’art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto
lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l’intrinseca illiceità soggettiva ed
oggettiva di tale diretto comportamento – Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 – ed il
rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito:
Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).” 2
Per quanto riguarda la letteratura scientifica, come detto il
primo utilizzo del termine “mobbing” avvenne in etologia.
Al di fuori di tale scienza, abbiamo il primo utilizzo del termine
“mobbing” non relativamente alla descrizione di problemi sul luogo
di lavoro, ma di quello che oggi viene chiamato “bullismo”
(Heinemann, 1972).
1.2.2. Il “mobbing”: altri vocaboli per lo stesso significato;
un vocabolo per altri fenomeni [torna su]
2
Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 settembre 2008, n. 22858
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Al contrario, la prima descrizione di un caso di “mobbing sul
lavoro”, cioè di una costrittività organizzata con molestie e
vessazioni in un luogo di lavoro, avvenne nel 1976, con un volume
di Brodsky (Brodsky, C. M. 1976) il quale – anticipando dunque di
circa sei anni Leymann – scrisse però un volume intitolato “The
harassed worker”. Quello di Brodsky fu dunque, come sostiene lo
stesso Leymann “the first book ever to deal with mobbing/harassment in
the workplace. … The author looked at the stressed worker as being a victim
of his own powerlessness. Because of poor discrimination between workplace
problems of various sorts, this book never made any impression. Nevertheless,
this is the first time that some mobbing cases were published.” (Leymann H.,
1997).
Uno degli aspetti più interessanti -e per molti versi significativi
– dello studio del “mobbing”, è che questo è un fenomeno (ci
riferiamo al “mobbing” sul lavoro) che la letteratura scientifica ha,
negli anni, utilizzato termini molti diversi fra loro (“mobbing”, “abuso
emozionale”, “harassment” -o molestie-, “bullismo”, “maltrattamenti”,
“vittimizzazione”), per descrivere quello che qui definiamo “mobbing
lavorativo”, e che solo da non molti anni si è raggiunta una certa
unitarietà descrittiva, utilizzando con più frequenza rispetto ad altri
il termine “mobbing”.
A rovescio, bisogna poi notare come gran parte dei termini
utilizzati per descrivere il “mobbing”, siano invece stati utilizzati
anche per descrivere situazioni diverse dal mobbing sul lavoro:
“Although different concepts have been used to describe this phenomenon such
as “mobbing” (Leymann, 1996; Zapf et al., 1996), “emotional abuse”
(Keashly, 1998), “harassment” (Björkqvist et al., 1994a; Brodsky, 1976),
“bullying” (Einarsen and Skogstad, 1996; Rayner, 1997; Vartia, 1996),
“mistreatment” (Spratlen, 1995) and “victimisation” (Einarsen and Raknes,
1997a; 1997b), they all seem to refer to the same phenomenon. That
phenomenon is the systematic persecution of a colleague, a subordinate or a
superior, which, if continued, may cause severe social, psychological and
psychosomatic problems for the victim.”
In sostanza, abbiamo un utilizzo, per così dire crociato, del
termine “mobbing”, utilizzato relativamente a più contesti umani
oltre che a quello animale.
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Abbiamo altresì che con molti termini si son descritti i
fenomeni del “mobbing” specie quello lavorativo, e che con cui si
indica lo stesso fenomeno o che indicano a loro volta situazioni
molto diverse (basti pensare ai vari significati che possono assumere
i vocaboli “emotional abuse”, “harassment”, “mistreatment”, ecc., con cui
sono stati descritti fenomeni e fatti tipici del “mobbing”, lavorativo
e non).
La nostra opinione è che tale situazione corrisponda al fatto
che quello che chiamiamo “mobbing” sia l’espressione di un
programma comportamentale molto forte presente nella specie
animale, destinato alla tutela della prole e del nido, e che come tale
si è trasmesso durante l’evoluzione anche alla specie umana.
Le basi etologiche che negli animali lo pongono a tutela della
“prole” e del “nido”, e della “fitness” sono dunque molto vive negli
esseri umani, e questo programma comportamentale tende ad
attivarsi ogni qualvolta gli esseri umani percepiscono un pericolo
contro ciò che nel loro singolo e specifico dominio cognitivo (come
individui parte di un gruppo o di un contesto familiare) in quel
momento assume il significato di quello che nel mondo animale ha i
significati di “tutela della prole”, “tutela del nido”, “fitness”.
Secondo Ege, invece, il termine “mobbing” deve rimanere ad
identificare solo e solamente i problemi relativi ai luoghi di lavoro:
“Preme inoltre sottolineare come il Mobbing sia un fenomeno tipico ed
esclusivo dell’ambiente di lavoro, in quanto legato a particolari equilibri e
valori del mondo del lavoro. Ecco perché non è identificabile né con il
cosiddetto bullismo a scuola o con il nonnismo da caserma; allo stesso modo
non esiste né il Mobbing famigliare (da non confondersi con il fenomeno, da me
teorizzato, del Doppio-Mobbing, ossia delle ripercussioni del Mobbing sulla
vita privata e famigliare della vittima), né condominiale o sportivo e via di
seguito. É necessario resistere alla tentazione di applicare un nuovo termine
accattivante e di moda a qualsiasi contesto sociale in cui si sviluppino dei
conflitti: il pericolo è sostanzialmente che si perde tempo e non si trovano
soluzioni appropriate ed efficaci al problema” (Ege, 2002[cr1] ).
In realtà, non si comprende affatto (né Ege lo spiega) in base a
quale motivazione scientifica il “mobbing” debba essere considerato
“ un fenomeno tipico ed esclusivo dell’ambiente di lavoro, in quanto legato a
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particolari equilibri e valori del mondo del lavoro”, quando è evidente che
proprio perché lo troviamo nel mondo animale o:
i) lo consideriamo specifico del solo mondo animale, senza poi
riproporlo in gruppi umani;
ii) oppure, se consideriamo invece che il mobbing umano deriva
da quello animale, non può non discenderne, allora, che come
fenomeno può essere presente in ogni contesto umano, non
essendoci un perché al doverlo poi confinare nel solo contesto
lavorativo.
Da questo punto di vista è interessante prendere in
considerazione il “Charivari”, un fenomeno medievale un tempo
parzialmente diffuso, e proprio per l’accostamento che alcuni
sociologi fanno tra il “Charivari” ed il mobbing.
Per dimostrare poi come, dal nostro punto di vista, il
“mobbing” sia un comportamento molto frequente in ogni nucleo
umano nel quale due o più persone percepiscano un altro come un
“intruso”, citeremo un film degli anni sessanta, nel quale è descritto
con molta chiarezza un inedito caso di “mobbing dal basso” in
ambiente familiare.
1.2.3. Il “Charivari” come forma di “Mobbing sociale”
[torna su]
Il “Charivari” era una usanza medievale, tipica della Francia,
dell’Inghilterra, e importata poi in Canada e negli USA 3 ma anche in
Toscana.
Secondo A. Moroni, lo “charivari” era
una “Processione
caratterizzata da grida, gesti osceni, frastuono, travestimenti e indirizzata
contro vedovi o vedove che si risposavano, praticata soprattutto nell’Europa
centrale e in Inghilterra nel Medioevo. Poiché non se ne hanno testimonianze
precedenti i primi decenni del XIV secolo, la si ritiene collegata alle epidemie e
alle carestie che investirono l’Europa del XIV secolo, in quanto espressione di
disapprovazione sociale per un evento che danneggiava un equilibrio
demografico già precario.”
Secondo altri autori, il Charivari era strettamente imparentato
3
Monica Piccolo, Tesi di Laurea in Filosofia, Il Mobbing, Anno Accademico 2006-07, Università degli Studi di Messina,
Relatore: prof. Eraclide Prestifilippo
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col mobbing, anche se gli stessi (Carrettin, Recupero, 2001) danno
al mobbing lavorativo la classica spiegazione di meccanismo di
conferma della gerarchia di un gruppo e dei suoi confini: “Il
mobbing nell’accezione attuale a piuttosto a che fare con i meccanismi che ogni
gruppo sociale mette in opera per riconfermare costantemente i propri confini e
la propria gerarchia interna. Il fenomeno del passato che più si avvicina e
l’usanza dello Charivari, diffusa più o meno in tutta Europa ma più
consolidata in Francia e in Inghilterra. Non c’è un termine unico italiano che
traduca Charivari, detto anche “Rough Music” anche se l’usanza, in forme
edulcorate, si è mantenuta in alcune regioni italiane, specialmente in
Toscana. …
Lo Charivari classico si ha quando in un villaggio contadino, un uomo
anziano, ma ricco riesce a sposare una bella ragazza sottraendola così, in
forza dei suoi beni, al mercato matrimoniale dei giovani. Il malcapitato non
potrà più mettere piede in piazza senza essere accolto da frizzi, allusioni,
ingiuria e altri atti di ostilità. La sera delle nozze, poi, dovrà subire una
serenata piuttosto pesante ad opera dei giovanotti del villaggio che per tutta la
notte terranno svegli terrorizzati lui, la giovane sposa, e i vicini con baccano e
minacce. In qualche caso si registrano atti di violenza collettiva con
spargimento di sangue. Di tutto ciò rimane, nella nostra cultura popolare,
un’esile traccia in certi riti o serenate che accompagnano i matrimoni; ma non
era così nei secoli passati, quando la società – molto più chiusa – esprimeva
apertamente le proprie approvazione o disapprovazione.
Questa forma di mobbing, insomma, era piuttosto la regola che
l’eccezione, nel senso che il gruppo sociale faceva le sue vendette decretando
l’ostracismo contro chi veniva percepito come autore di un gesto illegittimo. Il
gruppo sociale isolava il corpo estraneo, qualora non potesse espellerlo perché il
ricco e/o potente”
In realtà non si comprende perché questa usanza debba vero la
natura che gli autori vogliono assegnarle, vale a dire esprimere la
volontà di un gruppo di riconfermare i propri confini e la propria
gerarchia interna, dal momento che l’usanza non modificava -né
tendeva a modificare- alcuna gerarchia o composizione del gruppo,
ma si limitava a infastidire tutta la notte un nuovo sposo, in verità
anziano.
Non si può infatti fare a meno di notare che l’usanza è in realtà
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rivolta proprio ad una coppia in via di procreazione, uno dei
partner della quale, il vecchio, aveva sottratto un soggetto pronto a
generare dopo aver però avuto un altro matrimonio, o essendo
anziano. L’obiettivo specifico, in altri termini, sembra proprio
essere quello che un matrimonio tra una persona che ha già
generato (o che, vecchio, non può assistere adeguatamente la prole
in futuro), sottragga la possibilità di generare ai più giovani.
L’aspetto interessante del “charivari”, che lo assimila alla
concezione del “mobbing” come pratica collettiva, è che dapprima
nacque come usanza volta a impedire le seconde nozze di un
vedovo con una donna giovane, desiderata dai ragazzi del paese, ci
viene infatti chiarito dallo scritto seguente: “Nato come rituale di
condanna informale delle seconde nozze dei vedovi, nel corso del XVI sec. lo
Charivari venne esteso dalle relazioni matrimoniali al controllo della morale
pubblica e della vita politica; da qui la particolare importanza che assunse
durante la Riforma” 4. E’ dunque evidente il significato di tutela della
possibilità di trasmettere i propri geni. L’usanza colpiva infatti il
vedovo che si risposava, e che dunque aveva già trasmesso e
diffuso i propri geni, ma -sposando una giovane- toglieva ai giovani
la possibilità di trasmettere i propri.
L’aspetto interessante di questa modalità di “mobbing” è nel
fatto che nasce come modalità di ostacolo contro le seconde nozze
di vedovo (che vuole risposarsi una giovane appetita dai suoi
coetanei), ma con il tempo si è espansa come ostacolo verso altri
tipi di comportamenti non graditi.
1.2.4. “Accadde un’estate”: racconto di un mobbing
familiare dal basso [torna su]
Il film “Accadde un’estate”, girato e prodotto nel 1965, vede
come protagonisti principali Maureen O’Hara e Rossano Brazzi.
Nel film, la signora inglese Moira Clavering, moglie esemplare e
madre perfetta di un bambino di dodici-tredici anni e di una figlia
un po’ più piccola, si innamora del pianista italiano Tassara, vedovo
e con una figlia.
4
Ilaria Taddei, “Charivari”, in Dizionario storico della Svizzera, http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I16546.php
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Con grande scandalo delle sue amiche, abbandona tutti per
raggiungere Tassara nella sua splendida villa sul lago di Garda.
I suoi due figli, però, decidono di partire per l’Italia scappando
di casa, col dichiarato obiettivo di riportare la madre a casa. Arrivati
in Italia dopo un viaggio che per due ragazzi di quell’età è stato
forse un po’ troppo facile e privo di problemi, giungono a “Villa
Fiorita” ove si trova la madre con l’affascinante musicista.
Qui non trovano certo una accoglienza festosa, perché sia
Tassara e la madre -pur contenti di vederli sani e salvi dopo quella
che è una fuga- rimproverano ai due di non essersi fatti nemmeno
invitare.
Vengono ospitati e rifocillati, ma Tassara telegrafa al marito di
Moira: lo avverte dell’arrivo dei due e promette che li rimanderà in
aereo a Londra il giorno dopo.
A biglietto già fatto, però, i due si impuntano: torneranno dal
padre solo se la madre li seguirà. Nella villa, nel frattempo, giunge
anche la figlia di Tassara, coetanea dei due bambini inglesi.
I tre ragazzi vincono presto la reciproca antipatia, ma lo fanno
proprio perché si accordano pressocchè immediatamente su un
obiettivo comune: far separare i loro genitori. I figli di Moira
vogliono che la madre torni dal padre in Inghilterra, la figlia di
Tassara che il padre lasci colei che sta per prendere il posto della
madre.
Ognuno dei ragazzi percepisce infatti il nuovo adulto come un
intruso nella propria vita, un intruso destinato a turbare equilibri,
modificare regole, allontanare in qualche modo il genitore biologico
o –per quanto riguarda la figlia di Tassara- il ricordo ed il rispetto
per il genitore scomparso.
Per riuscirvi, i tre bambini scelgono una classica modalità
mobbizzante, che non è tale tanto per la strategia utilizzata (rifiuto
del cibo), ma per la sottigliezza con cui essa viene messa in atto.
La dimensione mobbizzante è sancita infatti dal silenzio e dalla
assenza di qualsivoglia commento con cui i ragazzi pongono in
essere il rifiuto del cibo: i tre non mangiano senza dare alcuna
spiegazione, senza porre alcuna protesta, senza nemmeno
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ammettere che ci sia un problema. Si siedono a tavola, ma non
toccano nulla dai piatti dichiarando di non avere fame.
Creano così una intollerabile tensione nei due adulti, che non
capiscono cosa accade, pur percependo un grave problema. Di
sicuro, il fatto che i tre non mangino sostenendo di non aver fame e
senza spiegare il perché, apre delle grosse ansie nei due adulti, che
in breve non riescono a gestire più né il problema, né i loro
tentativi di soluzione.
La crisi arriva al terzo giorno della strategia mobbizzante
intessuta dai tre: Tassara capisce che quella inappetenza è un
comportamento messo in atto volontariamente e per protesta, e
costringe con violenza la figlia (interpretata da una giovanissima
Olivia Hussey, futura “Giulietta” di Zeffirelli), a inghiottire del
cibo. Dopo averle aperto la bocca a forza, averle infilato gli
spaghetti con violenza costringendola a chiuder la bocca e
inghiottire, la stende sulle proprie gambe e la picchia di fronte agli
altri. Subito dopo, cerca di costringere la figlia di Moira a fare
altrettanto, e Moira -dopo aver fatto capire alla propria figlia che
non ha alternative al mangiare- litiga col convivente per i suoi
sistemi brutali.
L’unità della coppia, e tutto il romanticismo che riempiva la
loro bolla esistenziale vanno in pezzi, ed è a questo punto che
arriva la confessione della piccola inglese, che rivela il vero
obbiettivo dei tre bambini: la cacciata dei rispettivi intrusi dai
propri rispettivi nidi.
La storia a questo punto prende una piega drammatica, con un
risvolto che mette in gravissimo pericolo la vita di due dei tre
bambini e spinge la coppia “adulterina” a porre fine alla loro
unione.
Moira torna in Inghilterra dal marito, del quale quasi più nulla
si è saputo, abbandonando per sempre il suo amato musicista
italiano.
Il film, attualmente accompagnato da critiche piuttosto pesanti
in virtù del clima moralistico e strappacuore su cui si intesse il
dipanarsi della storia (“Daves [il regista N.d.R] ha portato l’intrigo sul
piano lacrimogeno del ricatto sentimentale con esiti che sfiorano l’indecenza. Si
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piange, si piange http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?
id=203 ), esprime però molto bene l’intento e la texture
mobbizzante dei comportamenti dei tre bambini.
Ovviamente “Accadde un’estate” rimane un esempio di cinema
forse non eccelso, ma a modo suo aiuta anch’esso a dimostrare
come i comportamenti mobbizzanti siano in realtà connaturati a
tutti quei contesti umani nei quali siano in gioco il fitness e la tutela
della prole, che non appare assurdo possa essere percepito, come
problema, anche dalla stessa prole.
D’altra parte, tutta la letteratura favolistica e non sulla cattiveria
dei rapporti tra patrigni, matrigne, e figliastri (che altro non sono
che gli “step parents” delle famiglie ricostituite), così come gran
parte delle problematiche conflittuali che esplodono in queste
famiglie, possono essere letti come momenti di mobbing familiare
verticale.
E’ infatti ipotizzabile che la presenza di una prole altrui da
accudire (o di cui il proprio partner si debba prender cura), possa
essere percepita da un partner ancora senza prole, come un
ostacolo alla propria possibilità di riprodursi (essendo cioè il “nido”
già occupato da un intruso che impedisce l’arrivo della propria
prole).
1.3. La distinzione tra mobbing lavorativo, mobbing
genitoriale e altri mobbing [torna su]
Come si può dunque constatare, allora, quella che qui
definiamo “transazione mobbizzante” appare avere logiche e
regole simili a prescindere dal contesto nel quale lo si osserva e,
soprattutto, dalla finalità che noi, come osservatori, crediamo di
osservare nel gruppo e/o nel singolo individuo mobbizzante.
Nel senso: a noi, come osservatori, sembra che il gruppo di
impiegati che mobbizza un altro impiegato, o un dirigente che
mobbizza un dipendente per costringerlo a dimettersi, abbiano
scopi del tutto diversi da quelli del gruppo di scolari che esprimono
atti di bullismo contro un loro coetaneo, dal gruppo di “anziani” di
una caserma che mettono in atto del “nonnismo” contro i nuovi
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venuti, da un genitore che tenta di estromettere l’altro dalla vita del
figlio.
In realtà, sono le nostre premesse di osservatori che ci fanno
apparire tutti questi esempi come assolutamente privi di nesso tra
loro. D’altra parte, era proprio Einstein che sosteneva come fosse la
teoria a definire cosa si poteva osservare -e cosa no- in base a
quella teoria.
Come noto, e come l’aforisma di Einstein prima citato declina,
è la teoria che ci permette di decidere quali fatti osservare. Se
dunque si modificano le premesse dell’osservazione, abbiamo, di
conseguenza “fatti” diversi da osservare; ovviamente tenendo conto
che, come diceva Koestler, ogni scoperta scientifica non è la
scoperta di un nuovo “fatto”, ma di una nuova relazione tra fatti già
esistenti (e questo citando, tra i tanti, il dato secondo il quale la
“muffa” è sempre esistita ma solo Fleming la collegò -invece di
buttare il brodo considerandola una inquinante- ad un’altra
esperienza percettiva fino ad allora ignorata, vale a dire l’assenza di
flora batterica nel brodo) (Koestler, 1974 ) .
1.3.1. Il mobbing come modalità relazionale comune a
gruppi animali e umani [torna su]
Per quanto riguarda il “mobbing”, dunque, a noi sembra di
poter affermare che in una certa varietà di contesti umani, che
raggruppiamo sotto l’etichetta di “contesti mobbizzanti” sia attivo
lo stesso trend comportamentale: l’estrusione di quello che viene
percepito come un intruso da un gruppo e/o da un contesto
gruppale (laddove il genitore mobbizzante percepisce sé stesso ed il
figlio -vedremo poi il come ed il perché- come un gruppo nel quale
“l’altro” è ormai un intruso).
Il punto fondamentale è dunque nelle premesse utilizzate per
definire mobbizzante un determinato contesto.
All’osservatore che definisce la propria osservazione sulla base
dell’assioma che “lavoro”, “scuola”, “caserma”, “famiglia” siano
contesti differenti nel quale valgano (come comunque avviene, ma
ad altri livelli, secondo il nostro punto di vista), regole differenti,
appare dunque ovvio che mobbing lavorativo, “nonnismo”,
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“bullismo”, mobbing genitoriale, siano fenomeni differenti e dotati
ognuno di regole proprie.
Se però andiamo ad identificare qual è il criterio che identifica
ciascuno di questi contesti
(“lavoro”, “scuola”, “caserma”,
“famiglia”) agli occhi degli individui che ne fanno parte e che
operano come “mobber” , abbiamo un dato comune: si tratta
sempre di contesti fondamentali -o comunque ritenuti grandemente
significativi- per l’esistenza del singolo, e il cui controllo può
garantire a questi la tutela del proprio esistere, di una parte
significativa del proprio esistere, nonché dei frutti del proprio
esistere, e, anche, la tutela del suo poter esprimere scelte e
decisioni.
Detto in altri termini, si tratta di quelle che noi leggiamo come
estensioni del “nido” e di strumenti o contesti utilizzati “a tutela del
nido e della prole”.
Certo, l’idea che un liceo o una caserma siano estensioni “del
nido” può apparire molto involuta o forzata, ma la forzatura
scompare se si riflette su due punti: cosa, nell’esistere di un
animale adulto con prole, renda tale un “nido”, e qual è il significato
che questo “nido” ha nella sua prassi esperenziale quotidiana
(rapportandola poi alla prassi di un essere umano), nonché il fatto
che tutti i contesti prima citati (“liceo”, “caserma”, “luogo di
lavoro”, “palestra”, ecc.) sono tutti contesti nei quali l’esistere ed il
decidere secondo la propria autonomia e in equilibrio con le regole
che definiscono quel contesto, sono vitali -o comunque
grandemente significativi- per i singoli che li utilizzano e, in
definitiva, per la loro “fitness”.
Per utilizzare un’altra modalità descrittiva, possiamo dire che
ovunque vi siano tre o più individui legati tra loro da un interesse e
una finalità comune, si genera un contesto che può essere
grandemente significativo per tutti o per parte del gruppo, e questo
contesto, se diventa grandemente significativo -nella percezione che
ne hanno due o più individui che vi partecipano- può, in caso di
conflitti per la gestione delle regole che vi soprassiedono, assumere
le connotazioni di “contesto a transazione mobbizzante”.
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Detto in altri termini,
ovunque tre o più individui
percepiscano l’esistenza di quella che può essere considerata
l’estensione di un “nido” animale, dunque un contesto grandemente
significativo per l’esprimersi della propria personalità ed autonomia,
si può generare un contesto mobbizzante.
La “chiave” che definisce dunque il contesto mobbizzante (o,
anche, “contesto a transazione mobbizzante”) non è -a nostro avviso- né
la prole in quanto tale né l’attività produttiva in sé, ma la
significatività che il vivere e l’operare in quel contesto assumono
agli occhi di due o più partecipanti.
D’altra parte, bisogna ammettere che per un minore la scuola e,
nel caso, la palestra (o l’oratorio, ad esempio), assumono lo stesso
significato che possono avere per un adulto il luogo di lavoro o la
famiglia; lo stesso dicasi per la “caserma”, nella quale la percezione
di poter esprimere la propria validità e autonomia, e la capacità
dunque di gestire le regole del contesto “caserma”, assumono
grande importanza.
Per quanto riguarda il luogo di lavoro, è evidente che
l’estensione ad esso del significato che hanno per l’animale -adulto e
con prole- il “nido” e la “tutela del nido”, ne rendono un luogo classico e
tipico per far emergere un “contesto a transazione mobbizzante”.
In definitiva, il “mobbing” è una transazione che subentra
allorché un contesto umano è grandemente significativo per
l’esistere dei singoli che lo costituiscono e per il loro garantirsi,
attraverso il suo controllo, la possibilità di operare a tutela propria,
del proprio esistere, e -indirettamente (come nel mobbing
lavorativo) o direttamente- della propria prole.
Quello che cambia passando dal contesto animale a quello
umano è, dal nostro punto di vista, soltanto il criterio con cui si
definiscono i concetti di “prole”, “nido”, “tutela del nido” e “fitness”.
Come vedremo ora più dettagliatamente, infatti, nei contesti
“mobbizzanti” vi sono regole comuni, a prescindere dalla natura del
contesto, che evidenziano come i comportamenti strutturanti i
contesti, e le transazioni mobbizzanti sono accomunati da regole
comuni e sembrano relativi ad uno stesso set “comportamentale”.
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Come detto in altri contributi (Giordano, 2005) il “mobbing” è
un’attività presente appunto in tutti i contesti umani con storia, e
può essere riassunto nella attitudine che ha da sempre il genere
umano a “rendere la vita impossibile” (mediante dicerie, dispetti,
ostacoli posti volutamente, sgarbi e cattiverie gravi e in grado di
distruggere un persona) all’altro, allorché lo percepisce come
“intruso”.
Come abbiamo fatto notare precedentemente, il punto è nella
definizione -da parte dell’osservatore che descrive il fenomeno- del
contesto entro il quale si definisce il mobbing come contesto da
osservare.
D’altra parte, se si analizzano adeguatamente i comportamenti
mobbizzanti emergenti da qualsivoglia contesto (azienda, famiglia,
coppia genitoriale, caserma, scuola, ecc.), abbiamo che tutti questi
comportamenti sono identici fra loro, hanno lo stesso significato
per chi li riceve e chi li pone in atto, e sono finalizzati ad un
identico risultato.
1.3.2. I punti in comune della modalità mobbizzante
[torna su]
I comportamenti di cui sopra, in altri termini, altro non sono, a
nostro avviso, che un set di modalità per così dire di base, modalità
che, a seconda dei singoli contesti, differiscono tra loro per le
modalità con cui devono essere applicati per raggiungere il risultato
voluto.
In questo senso possiamo dire che in tutti i contesti
mobbizzanti si osservano, a nostro avviso, sempre le stesse
modalità operative, nel senso che le strategie mobbizzanti espresse
da uno o più soggetti mobbizzanti contro un soggetto target sono
strategie sempre finalizzate a estromettere l’altro basandosi su:
l’impedire, direttamente o indirettamente, lo svolgimento del
ruolo da cui il soggetto mobbizzato deve essere rimosso,
assegnandogli compiti eccessivi o rendendogli eccessivamente
oneroso o faticoso svolgere quello che gli sarebbe assegnato;
a) lo svilire ai suoi occhi e a quelli altrui le sue capacità di
assolverlo;
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b) il costringerlo a compiti umilianti o inferiori al suo ruolo;
c) l’impedirgli di ricevere informazioni utili a svolgere il suo
ruolo;
d) l’impedirgli di decidere quel che è nel suo ruolo decidere;
e) l’umiliarlo o svilirlo -e comunque delegittimarlo-
pubblicamente;
f) il costruire dicerie e false accuse su di lui;
g) il terrorizzarlo e farlo sentire in pericolo.
Se si analizzano infatti queste strategie e le si rapporta ad un
possibile dato in comune, ci si rende conto che hanno di fatto tutte
lo stesso fine: estromettere quello che viene percepito e/o
considerato come intruso, o costringerlo ad allontanarsi dal
contesto, facendogli percepire (e dunque in molti casi anche vivere)
un suo essere inadeguato ed in pericolo rispetto alle regole che
governano quel contesto.
Questo avviene in realtà attraverso due soli tipi di tattiche:
impedimento, e delegittimazione.
I. L’impedire all’”intruso” (vale a dire: colui che è percepito e/o
considerato tale)
di controllare e gestire le regole ed i
comportamenti che lo mantengono in equilibrio funzionale con le
regole ed i comportamenti che gli connotano e garantiscono la
permanenza in quel contesto (all’impiegato viene reso impossibile
fare l’impiegato in modo soddisfacente per sé e gli altri; al genitore
viene impedito di fare il genitore, alla recluta o allo studente
vengono imposti comportamenti che lo privano della sua
autonomia a decidere, e lo classificano come estraneo e inadeguato
rispetto al vivere collettivo);
II. Il delegittimare l’intruso, in modo che gli “altri” confermino
che non è in grado di controllare e gestire le regole e i
comportamenti che lo classificano come partecipante adeguato a
quel contesto, e che lo mantengono in equilibrio funzionale con lo
stesso.
Con il termine mobbing, dunque, indichiamo un modello di
relazione (che definiamo a “transazione mobizzante”) praticamente
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ubiquitario nel mondo animale, dal momento che non è nemmeno
specie-specifico ma addirittura rintracciabile in gruppi di organismi
lontani dai mammiferi (la prima osservazione riguarda infatti un
gruppo di volatili).
Seguendo dunque la linea che abbiamo tratteggiato sino ad
ora, possiamo chiederci come mai fenomeni che a qualcuno
sembrano molto diversi e distanti fra loro, a noi sembrano in realtà
molto simili.
1.3.3. Il “mobbing” nell’uomo come estensione di un
programma di autotutela della prole e del fitness
[torna su]
Il punto è che se si osservano le cose dal punto di vista sino ad
ora accennato, ne consegue che l’“allontanamento dell’intruso”, la
“difesa della prole” (e delle uova e/o del nido) sono in realtà
comportamenti presenti anche nei contesti umani, e in contesti che
in realtà solo apparentemente sono diversi da quelli connessi alla
“tutela della prole”. Quello che si modifica è il loro esprimersi,
modifica dovuta alla necessità di estendere ad altri spazi operativi il
“set comportamentale” che vi è alla base.
Detto in altri termini, i concetti di “tutela della prole”, così
come quelli di “tutela del nido”, “fitness”, eccetera, assumono nei
contesti umani (e non potrebbe essere diversamente) connotazioni
diverse, ma in realtà solo amplificate, di quelle che si hanno
osservando contesti animali.
L’ipotetica discrepanza per la quale il “mobbing” animale è
cosa del tutto diversa dal “mobbing” lavorativo, è dunque, in realtà,
solo frutto di un artefatto osservativo, vale a dire solo frutto di una
segmentazione arbitraria (come tutto ciò che è detto da un
osservatore) la quale -valida per diversi motivi (ad es., allorché si
affronta il problema della gestione psicoterapica e giudiziaria del
fenomeno) – è inadeguata al momento in cui si vuole dare una
lettura per così dire trasversale del “mobbing” .
La arbitrarietà della definizione, riguarda, come detto
precedentemente, la definizione di “prole” e di “nido”, che nel
mondo umano non possono non assumere estensioni molto più
ampie di quelle che hanno nel mondo animale, e arrivano a coprire
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tutto ciò che si fa per garantirsi la sussistenza della “prole” e del
“nido”.
D’altra parte, non si capisce perché un meccanismo così
importante e fondamentale come la tutela della prole e del nido da
un intruso si debba perdere nel passaggio dal mondo animale a
quello umano, e non invece andare incontro ad un rafforzamento,
ad una estensione, e a una sua mentalizzazione e acculturazione.
Nella nostra prospettiva, quel che accade è che nel passaggio
tra comportamento (e mondo) “animale” a comportamento (e
mondo) “umano”, dunque, il bisogno di poter allontanare l’intruso
rimane stabile.
Quello che nel mondo dell’umano si allarga e si estende ad altre
dimensioni operative sono invece il concetto di “prole” e quello di
“nido”, e di tutto ciò che si fa per garantirsi quelli che vengono
percepiti come il primo ed il secondo (vale a dire il nido, che può
essere inteso anche come il proprio, e anche in assenza di prole).
In sintesi, e per ripeterci a scopo di chiarezza, quello che nel
mondo animale sono “prole”, e “nido”, nel mondo adulto si
espandono e si estendono a tutto ciò che è finalizzato a garantirsi
la prosecuzione del proprio esistere, e del proprio poter si esprimere
per poter esistere in un contesto significativo in quel momento per
questo scopo (potenzialmente, dunque, tutte le attività umane che
diventano “importanti” per quei singoli individui), il che implica
l’allargamento di tutto il potenziale contesto di espressione del
comportamento mobbizzante a contesti comportamentali più ampi,
come quello del lavoro e della convivenza sociale.
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2. LA TRANSAZIONE MOBBIZZANTE NELLA
COPPIA GENITORIALE TRA GENITORIALITA’ E
GIUSTIZIA [torna su]
Dal Film “Casomai”
Prodotto da MAGIC MOMENTS, RAI CINEMAFICTION
Soggetto: Alessandro D’Alatri
Sceneggiatura: Alessandro D’Alatri, Anna Pavignano
San Michele – chiesa – INT. giorno – ott. 02
SFX. Dal bianco di una luce divina tutto torna reale. Tutti gli invitati
del matrimonio di Stefania e Tommaso sono presenti. C’è un silenzio
profondo. Mesto. I due sposi si osservano. Si tengono per mano. Livio, vestito
con i paramenti della cerimonia, cammina tra i banchi.
LIVIO
Avete capito?… Avete capito perché l’ho tirata tanto per le lunghe? E
questo, per fortuna, è stato solo un esercizio di fantasia! Eppure sembrava
tutto
vero.
Ci
avete
creduto?!
Ma
com’è
possibile?
Com’è possibile che l’amore possa dissolversi così? Che possa scomparire del
tutto? Dove sono finiti i baci, le carezze, le promesse… L’amore! No, non ci
credo. Io credo che sia solo rimasto sepolto. Soffocato da una gran quantità di
interferenze, intrusioni, pressioni di ogni genere che nulla hanno a che vedere
con l’amore.
Don Livio è in mezzo alla chiesa.
LIVIO
Io, credo che sia proprio così.
Ma non sarà che due che si amano fanno paura? A chi? All’infelicità.
E l’infelicità, purtroppo, sembra essere diventata il motore del mondo:
dicono renda parecchio…
Due uniti spendono meno di due divisi. Due dentifrici, due case, due
televisori, due lavatrici, due di tutto! Tutto doppio. Anche l’infelicità! Ma
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attenzione: gli infelici spendono molto di più perchè hanno bisogno di
premiarsi. No, no, così non va. Non va.
Il pubblico segue attento e silenzioso. Livio torna verso l’altare.
LIVIO
Ora io mi trovo in un certo imbarazzo: dovrei celebrare questo
matrimonio. Ma con quale consapevolezza? Quella dei loro sì? Ma io mi
domando: quanti saranno adesso a rispondermi? Quante voci, comportamenti,
esperienze ci sono dentro a questi due? Due e basta? Oppure quattro, sei, otto,
dieci, cento, mille? Io, purtroppo, dei loro sì non me ne faccio più niente.
Livio cammina silenzioso scuotendo la testa.
LIVIO
A meno che… A meno che oggi a darmi un sì non siate proprio voi. Eh?
Da soli come potrebbero farcela? Come potrebbero resistere? Ecco per me
sarebbe tutto diverso se oggi foste voi a sposarvi con loro! Che foste anche voi
pronti a condividere questo impegno. Allora sì che sarebbe un matrimonio
speciale… Quando due si amano, amano il mondo, e il mondo dovrebbe
ricambiarli. O no?
Si alza l’avvocato Ramalli.
AVVOCATO RAMALLI
Mi scusi padre, ma non sono d’accordo. Se due vogliono separarsi, mi
dispiace per loro, ma io faccio l’avvocato, è il mio lavoro…
LIVIO
Giusto…
Il commercialista si alza anche lui.
COMMERCIALISTA
Scusi, ma io ho lo stesso problema di questo signore. Io devo tutelare il
diritto di un cliente, non di una coppia.
LIVIO
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Ha ragione anche lui…
(tratto dal sito: http://www.kinematrix.net/articoli/casomai.htm
2.0 Premessa: l’utilizzo di un nuovo lessico in questo
scritto [torna su]
Come ripeteremo anche in seguito, abbiamo deciso di
affrontare il tema del mobbing -e soprattutto del mobbing
genitoriale- ricorrendo all’utilizzo di una terminologia creata ex-
novo.
Tale decisione non è stata presa certo né per eccesso di
protagonismo linguistico, né per complicare ulteriormente il campo
di studi.
Il punto da cui siamo partiti è la constatazione che le
separazioni -e soprattutto le separazioni conflittuali- implicano
situazioni, ruoli, modalità relazionali, regole di costruzioni dei
rapporti, che nel lessico attualmente utilizzato in letteratura -di
fatto scaturito da letteratura rivolta a famiglie normounite- non
trovano adeguata descrittività.
La nostra scelta è stata dunque quella di connotare con nuove
terminologie la diversità e specificità che si viene avere in questi
contesti di famiglie separate, dando spazio ad un lessico che in
qualche modo tentasse di dar atto delle caratteristiche salienti di
questi contesti.
D’altra parte, non si può non ammettere -ad esempio- che il
ruolo di “genitore” è sostanzialmente diverso se lo si ha in una
famiglia normounita, ovvero se lo si esprime in un contesto di
separazione, e soprattutto di separazione conflittuale e, a sua volta,
a seconda che si sia affidatari (o collocatari) del figlio, ovvero
genitore non affidatario o non collocatario.
Dal nostro punto di vista, infatti , voler continuare ad utilizzare
per i nuclei familiari separati, e soprattutto in conflitto fra loro, le
stesse terminologie delle famiglie unite, porta in sé qualcosa di
elusivo e mistificatorio , perché non si dà atto -e l’utilizzo di una
identica terminologia per definire e trattare di nuclei integri e nuclei
separati lo consente molto bene- che le relazioni e i ruoli all’interno
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dell’“ Insieme Bi-Genitoriale da Separazione ” sono assolutamente -e
sempre più tragicamente- diversi da quelli che si hanno nelle
famiglie integre, ancorché conflittuali.
L’utilizzo di nuovi termini è dunque pensato in sé come
ulteriore contributo allo studio e alla descrizione di un problema,
un contributo che di per sé vuole essere una forma di sintetica
disamina e descrizione del problema.
Per miglior chiarezza espositiva, accenniamo qui a questi nuovi
termini, riservandoci però di dar adeguata descrizione degli stessi
con il prosieguo di questo scritto:
– “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, che identifica il gruppo
formato dai genitori separati e dai loro figli, dà atto che la stessa
esiste in quanto scissa (e dunque tende a ricordare il clima
psicotico che si può instaurare in questi sistemi familiari.
– “Polo familiare monogenitoriale”, che identifica il genitore
affidatario o collocatario, ed il figlio o i figli a lui affidati
– “Polo genitoriale de-figliato”, che identifica il genitore non
affidatario o non collocatario.
Come ovvio, tale terminologia non identifica “persone”, ma,
semmai “ruoli”, emersi a seguito della separazione. La
nomenclatura utilizzata, però, tende a (o tenta di) dare cognizione
delle dinamiche relazionali che si sono venute a creare con la
separazione, descrivendo le caratteristiche salienti destinate a
influenzare, in un senso o nell’altro, i comportamenti, le aspettative,
la percezione del problema, dei singoli personaggi.
In sintesi, la terminologia utilizzata rimanda grandemente (e
con la consapevolezza del rischio di farlo troppo arbitrariamente)
alla necessità di ricordare che nei casi di separazione, e soprattutto
di separazione
conflittuale, le singole specificità relative al
rapporto genitore-figli, influenzano grandemente comportamenti e
percezione di sé e del mondo.
Da questo punto di vista, tale scelta implica sicuramente una
critica verso l’attuale trattazione dei problemi delle separazioni,
dovendosi a nostro avviso arrivare alla conclusione che la
letteratura scientifica attuale (incluso il Diritto) hanno sino ad ora
avuto un atteggiamento a c.d. “doppio messaggio” verso i problemi
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delle separazioni. I nuclei familiari emergenti dalle separazioni,
infatti, sono state di fatto trattati e descritti, insieme ai loro
componenti, come se fossero nuclei familiari identici a quelli delle
famiglie non separate. Conseguentemente, i comportamenti
disfunzionali degli stessi sono stati attribuiti a caratteristiche più o
meno patologiche dei loro componenti: con ciò, però, ignorando gli
effetti che su tali nuclei e sui loro componenti hanno le regole
scelte per gestirne i problemi, e le peculiarità che a tali nuclei e
persone discendono dalla situazione in cui si vengono a trovare.
2.1. La “comparsa” dell’intruso e l’emergere della
transazione mobbizzante nella coppia genitoriale
[torna su]
Per quanto riguarda specificatamente la coppia genitoriale, della
quelle ci occupiamo in questo scritto, il mobbing genitoriale emerge
nel momento in cui uno dei due genitori connota come “intruso”
l’altro, e, ovviamente, come “intrusione” la presenza dell’altro nella
vita propria e di quello che a quel punto percepisce come “il proprio
figlio”.
In genere, tale percezione comincia a farsi presente allorché un
genitore acquisisce l’idea di essere quello che “realmente” e “da solo”
accudisce il figlio, in assenza cioè dell’altro.
Nella nostra pratica clinica, tale “percezione” si struttura
solitamente (e fatti salvi casi particolari) in presenza di due punti
fondamentali, che imprimono una modifica drastica e irreparabile
alla storia e agli equilibri del sistema genitori-figli, ed è il momento
nel quale si giunge a quello stato di cose (che non è di “cose”,
ovviamente, ma di relazioni), e per il quale noi abbiamo coniato il
termine (sostenuto da una specifica concettualizzazione del
problema) di “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”.
E’ cioè questo il momento in cui la triade “coppia genitoriale /
prole” si trasforma in quella “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
formata da due “poli relazionali” in tensione fra loro (nel senso della
necessità di assestarsi su regole paradossali e comunque
sconosciute), e che abbiamo definito “Polo familiare monogenitoriale”
e il “polo genitoriale de-figliato”.
In realtà, l’insieme che così si forma è -tecnicamente almeno- un
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“metainsieme”, perché formato da due insiemi non solo diversi, ma
anche di verso livello logico, le cui caratteristiche li rendono diversi
l’uno dall’altro e, anzi, opposti.
Il fatto determinante è che nella nostra cultura, e dunque nella
gestione che si fa nel sistema sociogiudiziario della coppia separata,
quello che si forma dopo la separazione è considerata una “coppia
separata” e basta, e questa assenza di definizione (o una definizione
in fondo data in negativo, di “coppia che non è più coppia ma viene
chiamata coppia”) esprime di fatto, e di fatto a sua volta crea, una
dimensione mistificatoria sulla vera natura dell’insieme che si forma
dopo la separazione, in quanto viene di continuo negata, anche ad
un livello lessicale (e da qui il nostro introdurre nuovi termini) e
dunque operativo e pragmatico, che si tratta non solo di due
“nuclei” familiari diversi, ma di livello logico del tutto differente, in
quanto le regole dell’uno negano quelle dell’altro o, comunque, le
mettono fortemente in crisi.
E’ qui che la nostra cultura, Diritto e Psicologia inclusi,
esprimono una capacità schizofrenizzante verso nuclei di persone
che non sa nemmeno cosa sono perché non sa nemmeno come
come chiamarli.
A prescindere da ciò, l’irruzione del contenzioso giudiziario in
questo sistema parafamiliare innesca a questo punto quella che
definiamo “transazione mobbizzante”.
Con tale termine intendiamo la modalità relazionale in atto al
momento in cui la conflittualità genitoriale passa dal manifestarsi in
pochi e singoli atti mobbizzanti, ad un clima relazionale basato
sostanzialmente su logiche mobbizzanti.
L’emergere di quella che definiamo modalità transattiva
mobbizzante coincide, di fatto, col momento in cui il conflitto
genitoriale diventa ricorsivo e dunque inesauribile ed ingestibile .
I punti che -secondo quanto abbiamo desunto dalla nostra
pratica clinica- innescano l’emergere e poi la stabilizzazione di
questa “transazione mobbizzante”, sono due:
– L’emergere dell’”Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
– L’intervento del sistema giudiziario gestire le regole
dell’”Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
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Questi due passaggi possono avvenire in momenti lievemente
differenti tra loro, o pressocchè contemporaneamente. Ovviamente,
tanto più vi è contemporaneità nella comparsa di questi due punti,
tanto più ciò indica una possibile evoluzione sfavorevole della
conflittualità, evidentemente già alta in partenza nella coppia.
Bisogna poi considerare che la transazione mobbizzante deve
essere considerata non come una caratteristica della coppia, ma
come una caratteristica che emerge dalla relazione tra la coppia
conflittuale -intesa come sistema- e il “SistemaSeparazioni”, vale a dire
quell’insieme di regole, ruoli, persone che intervengono a gestire il
conflitto coniugale in nome dell’esercizio della giustizia.
Il punto da sottolineare è che la transazione mobbizzante non
appartiene agli individui che sembrano esprimerla, ma al
macrosistema entro cui si manifesta.
Chiariremo meglio questo concetto allorché disegneremo quale
metafora del comportamento della coppia genitoriale, l’esempio di
una macchina e della sua velocità come frutto non del veicolo in sé
ma della sua relazione con il contesto (“2.4. Il diritto come
autostrada preferenziale per la gestione del conflitto di coppia ”).
Il dato da considerare è che le relazioni vigenti nell’“Insieme Bi-
Genitoriale da Separazione” tendono a favorire grandemente
l’intervento del sistema giudiziario, e, ovviamente, l’intervento del
sistema giudiziario radicalizza sempre più le logiche paradossali del
sistema “a due teste e un corpo solo” che emerge dalla separazione
della coppia conflittuale, vale a dire l’“Insieme Bi-Genitoriale da
Separazione”, così -un po’ arbitrariamente- definito perché di fatto
composto da due nuclei genitoriali con un’unica prole (di entrambi),
nuclei ormai destinati a vivere di regole me quotidianità molto
differenti se non antitetiche.
I. L’emergere dell’“ Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
L’emergere di un “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione” è il
primo dei due punti critici che determinano il passaggio, nella diade
genitoriale, da una situazione conflittuale a un sistema a transazione
mobbizzante.
L’“Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, come l’abbiamo definito,
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è un sistema composto da quelli che abbiamo chiamato “poli
relazionali” e che -a puri fini descrittivi- abbiamo poi definito,
rispettivamente, il “Polo familiare monogenitoriale”, e il “polo genitoriale
de-figliato”.
L’utilizzo di tale nomenclatura, che può sicuramente apparire
come un eccesso di pedanteria descrittiva e di tendenza alla
nominalizzazione, in realtà esprime -come detto precedentemente-
il bisogno che abbiamo di connotare con un linguaggio adeguato
quello che alla nostra esperienza clinica è andato delineandosi
sempre più nell’osservazione dei contesti genitoriali conflittivi.
Nella nostra prospettiva, il problema della conflittualità
genitoriale pone non solo nuove sfide, ma soprattutto ci obbliga ad
individuare nuovi scenari descrittivi ed esplicativi delle relazioni e
transazioni in atto, e questo -come detto precedentemente- a nostro
avviso giustifica il ricorso ad una nominalizzazione che illustri
realtà che non possono essere lette con ottiche e terminologie
usuali. Vero è, ad esempio, che i due genitori separati sono
entrambi genitori, ma è altrettanto vero che lo scenario che si apre
con la separazione e con l’ingresso del contenzioso giudiziario nella
loro vita li rende genitori non solo del tutto diversi dai genitori non
separati, ma anche del tutto diversi tra loro.
Nel trattare con i contesti separativi a transazione mobbizzante,
abbiamo infatti osservato con chiarezza come una parte del
problema nasca in realtà col riarrangiarsi del nucleo una volta unito
in due “poli”, che acquistano connotazioni paradossali, pur
rimanendo in rapporto fra loro.
Tali due poli formano tra loro quella che non è più una
“famiglia”, ma che non sono nemmeno i residuati della distruzione
definitiva di una famiglia. Si tratta di quello che abbiamo definito
proprio per questo “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, che ricorda
una sorta di individuo bicefalo, o, se si vuole, bi-genitoriale, se
proprio vogliamo utilizzare questo neologismo coniato dalle
associazioni di padri separati, che però non coglie mai, nell’uso che
se ne fa, la paradossalità che in realtà esso comporta.
Dal momento infatti che la genitorialità può solo che esser
condivisa e “bi-genitoriale”, ricordarlo con questo neologismo
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assume -nella nostra logica- il senso paradossale del riaffermare una
realtà evidente ma negata ad un altro livello, e il tutto negando però
la negazione: in una logica, dunque, pericolosamente vicina a quella
schizoide, nella quale “bi-genitorialità” assume il senso di ciò che
viene negato e che si tenta senza riuscirvi di riconquistare.
In questo scenario, ci sembra dunque adeguato dire che con
l’ingresso del Diritto nella conflittualità genitoriale di una specifica
famiglia, si ha la formazione di un “Insieme Bi-Genitoriale da
Separazione” formato appunto da due poli che tendono ad
avvicinarsi proprio mentre tendono ad allontanarsi, in un moto
paradossale e cortocircuitante, originato dal fatto che ciò che li
spinge ad essere vicini -il figlio- è in realtà ciò che li allontana.
Questi due poli sono:
1) il “polo familiare monogenitoriale”, composto dal genitore
collocatario o affidatario, e dal bambino o dai bambini rimasti con
lui.
2) il “polo genitoriale de-figliato”, composto dal partner separato
dal proprio figlio e che potrà avere con questi contatti
sensibilmente ridotti rispetto all’altro e, soprattutto, a quelli che un
genitore non separato ha.
Questi due poli familiari acquistano in parte profili e specificità
nuovi, legati alla separazioni della diade genitoriale, ma in parte
conservano peculiarità tipiche delle diadi genitoriali non scisse.
L’incrociarsi tra queste caratteristiche -che sono di livello
diverso, se non antitetico, e comportano esigenze diverse, se non
antitetiche- determina la dimensione paradossale nella quale
vengono a trovarsi i soggetti coinvolti nella separazione.
Il termine utilizzato per connotare entrambi, cioè “polo”, indica
in realtà proprio il legame che continua ad esistere fra queste due
nuove “realtà”, nelle quali le logiche consuete vengono modificate e
ciò che ci si aspetterebbe nelle famiglie normounite, tende a
capovolgersi o a modificarsi drasticamente.
Da una parte questi genitori rimangono infatti entrambi
genitori, dall’altra parte sono genitori con esigenze quotidiane
assolutamente opposte, e di natura diversa: uno ha quella di
assistere il proprio figlio, l’altro, di essere genitore proprio perché
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privo del contatto quotidiano col figlio. Il primo ha dunque una
serie di esigenze più concrete, il secondo più affettive.
Questo incrociarsi di esigenze e caratteristiche crea un dato
fondamentale: i bisogni dell’uno sono percepiti molto facilmente in
termini di colpe o mancanze dell’altro. Il che facilita non poco il
conflitto.
L’emergere di questo “Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
avviene allorquando la convivenza tra i due genitori ed il figlio
cessa e porta alla formazione, più o meno stabile e comunque in
tempi non brevissimi, di un sistema che, in assenza di correttivi e di
interventi volti a tutelare le relazioni tra le componenti del sistema
piuttosto che i “diritti” dei singoli, tenderà inevitabilmente a
generare attriti e tensioni.
Tali attriti e tensioni risulteranno sempre più ingravescenti,
lasciando emergere quel “nucleo” (o status) di conflitti e tensioni
tanto centrifughe quanto centripete che nel nostro linguaggio
abbiamo chiamato anche “famiglia a bolla di sapone” (perché -come le
molecole di sapone- sono famiglie divise da quello -i figli- che le
unisce).
La famiglia “a bolla di sapone” altro non è che una famiglia con
due genitori separati, uniti da un figlio e da una forte “conflittualità”
per lo stesso, una “conflittualità” che si pretende venga gestita da un
procedimento giudiziario.
Questa “conflittualità” nasce ovviamente dalle problematiche
della coppia coniugale, dai desideri di vendetta e rivalsa di entrambi
i partner, e, per quanto riguarda l’accudimento del minore, dal fatto
che vi è una sorta di crossing over tra bisogni e responsabilità
genitoriali.
Nella nostra lettura di queste situazioni, infatti, il punto
centrale è che i bisogni di un genitore rispetto al proprio figlio
sono, in una coppia separata, percepibili molto facilmente come
speculari a “responsabilità” e “colpe” dell’altro.
Per fare un esempio, il genitore rimasto solo col figlio,
percepisce il peso di questo accudimento, sia da un punto di vista
dell’impegno quotidiano che di quello economico, come
direttamente connessi alle mancanze del genitore assente; viceversa,
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il genitore “defigliato” percepisce come responsabilità dell’altro il
dover provvedere al mantenimento di un figlio che non vede “come”
vorrebbe, e il non poterlo incontrare a proprio volere.
L’innescarsi di questi facili (e in fondo deresponsabilizzanti)
nessi causali amplifica, spesso enormemente, le attitudini
interpretative e persecutorie nei due partner: l’aspetto ulteriormente
dirompente della situazione è dato dal fatto che ogni nesso
“scoperto” (cioè: percepito) da uno dei due partner, è legittimato
dal comportamento dell’altro, che tendendo a negare ogni propria
responsabilità e a specularizzare l’accusa, costruisce con l’altro un
corto-circuito interpretativo e
comportamentale sempre più
accanitamente persecutorio.
In realtà è molto facile che nessuno dei due partner si arrenda
ad un dato, e cioè che la “separazione” vada vissuta come un
problema da risolvere senza individuare colpevoli o responsabili,
ma solo soluzioni.
Il fatto è che in questo insieme paradossale, formato da due
poli: il “polo familiare monogenitoriale” e da un “polo genitoriale de-
figliato” (termine molto brutto, ma che proprio per questo rende
bene il significato di cosa accade a chi rimane solo) vi sono due
caratteristiche che si strutturano nel tempo: la prima è che uno dei
due genitori passa molto più tempo con il figlio rispetto all’altro, e
diventa di fatto il genitore che accudisce il minore molto più
dell’altro. La seconda, invece, è che l’altro genitore sperimenta
invece una situazione tutta opposta: per lui, infatti, la costante della
propria genitorialità consiste esattamente nell’assenza di prole, o,
quanto meno, nella rarefazione quantitativa e qualitativa (il genitore
separato diventa un genitore “ludico”, ben che vada, con compiti
marginali nell’educazione e nell’accudimento del figlio, di cui,
semmai, deve assolvere la sola parte economica).
Ciò implica di fatto una condizione di alienazione dalla propria
genitorialità, dal momento che questa si caratterizza in modo
paradossale: per l’assenza, invece che per la presenza, di ciò che la
dovrebbe caratterizzare, vale a dire della prole.
Il punto fondante di questa paradossalità non è tanto, però,
nella rarefazione (qualitativa e quantitativa) in sé dei rapporti con i
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figli, quanto -soprattutto- nel fatto che tale rarefazione è una regola
imposta attraverso una sentenza.
Nella nostra esperienza, infatti, genitori separati che vivono
una simile rarefazione, ma condivisa con l’ex partner per loro scelta,
non avvertono in realtà alcuna spoliazione della propria
genitorialità e la esercitano, sia pur con dispiacere, senza
prospettive o problematica persecutorie.
Per quanto riguarda la parte dell’insieme che si forma dopo la
separazione, vale a dire il “Polo familiare monogenitoriale”, abbiamo che
la strutturazione delle sue “regole” e delle sue costanti per così dire
“operative” (come, cioè, mono-genitore e figli/o interagiscono tra
sé stessi e con l’ambiente sociale) avviene con modalità e finalità
opposte a quella che si struttura per il “nucleo” composta da quello
che abbiamo definito genitore de-figliato: mentre quest’ultimo vive in
una vita de-figliata (spesso strutturando scadenze, oneri, impegni,
spese in funzione dell’incontro con i figli e degli obblighi economici
che ha), abbiamo che il “Polo familiare monogenitoriale” si assesta su
modalità di vita basate proprio su questa presenza. Ciò fa sì che
ogni tentativo dell’altro genitore di entrare in contratto con i figli al
di fuori di regole strettamente programmate, tende a turbare gli
asset di vita della famiglia mono-genitore.
Si struttura così, potenzialmente (il passaggio decisivo è la
comparsa del contenzioso giudiziario) quella che è la “Sindrome del
Nido Clonato”, per la quale il genitore rimasto a convivere con i figli
tende a vedere nell’altro un intruso che turba ogni equilibrio e
sottrae il minore per compiti che non sembrano più spettargli,
mentre il genitore de-figliato, proprio per questo percepisce anch’egli
l’altro esattamente come un intruso.
Quello che avviene è dunque una sorta di “clonazione del nido”,
per cui si formano due potenziali siti di accudimento della prole, in
ognuno dei quali valgono regole opposte, come opposta è l’aspetto
operativo, che ha, nei due nuclei, il ruolo di genitore. Ciò fa sì che
quello che per uno dei due “nidi” è “genitore”, nell’altro nido
diventa un intruso, e viceversa, così come le assenze presenti in uno
sono responsabilità dell’altro e viceversa. Fatalmente, queste
“assenze” diventano molto facilmente “torti” e la percezione delle
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cause di esse oscilla fra le “responsabilità” e i “torti”, ovviamente
anche gravi.
Si struttura cioè, per così dire, un “se – allora” che attribuisce
alla persona dell’altro in quanto ormai “intruso/estraneo” quanto
invece discende dalla situazione di separati legati da una sentenza e
non da un accordo.
Come detto precedentemente, il punto di svolta avviene infatti
con l’ingresso del contenzioso giudiziario nella storia della coppia
genitoriale.
Se non vi è questo “passaggio”, e se la coppia comunque
genitoriale rimane autoreferenziale a sé stessa, quella che
chiamiamo “Sindrome del Nido Clonato” rimane solo potenziale.
In altri termini, è la autoreferenzialità della coppia ad essere il
punto critico del problema.
Sino a che la coppia è in grado di definire da sé le proprie
regole e le proprie operatività, sia pure nel conflitto più o meno
acuto ma non distruttivo della coesione di metaregole di
comportamenti, la coppia non si scinde in due “Cloni del Nido”, il
cui funzionamento non può che essere paradossale in quanto per i
due genitori ci sono -percettivamente, anche se non sempre ciò è
consapevolizzato coscientemente- due nidi, ma il figlio e comunque
la prole sempre una è.
Ovviamente è qui che la Mediazione assume un senso e,
soprattutto, è qui che risulta valido il pensiero di Carlo Arturo
Jemolo, per cui il Diritto si deve limitare a lambire quell’isola che è
la famiglia. (Jemolo, 1954)
Da questo momento in poi, se il contenzioso giudiziario
diventa il modo per dare alla coppia genitoriale nuove regole, la
situazione tenderò a divenire sempre più incandescente, proprio
perché tale ingresso tenderà a rinforzare in ognuno dei due genitori
la percezione che l’altro è un intruso che gli sta portando via la
prole.
Abbiamo dunque il secondo punto che concorre a formare in
entrambi i genitori la percezione che l’altro sia un intruso: vale a
dire l’intervento del sistema giudiziario.
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II. L’intervento del sistema giudiziario.
Non si può sostenere che tutte le conflittualità genitoriali
esplodono per l’intervento del sistema giudiziario, o che è per colpa
di esso che divengono inarrestabili e ricorsivamente ingraverscenti:
sicuramente vi sono conflittualità che esplodono in assenza di ogni
ricorso al Giudice e, semmai, entrano in aula di giustizia con
conflittualità già incandescenti.
Sicuramente però nella maggior parte dei casi, se non in tutti, la
comparsa del contenzioso giudiziario stabilizza cronicamente la
conflittualità genitoriale e, soprattutto, la rende ricorsiva e sempre
più esasperata: ciò è dovuto alle caratteristiche del Diritto, che offre
come soluzione al conflitto della coppia un conflitto di livello
ancora più elevato.
Il tentativo di stabilizzare questo contesto attraverso un ricorso
al contenzioso giudiziario -contenzioso che può avere anche natura
“consensuale” ma non necessariamente sarà per questo privo di
tensioni- innalza di molto il rischio di un grave esacerbarsi della
conflittualità e di un suo stabilizzarsi come tale, divenendo sempre
più ricorsiva.
Come già detto, abbiamo definito questo passaggio “Sindrome
del Nido Clonato”, e -anche se un po’ pittoresco- consideriamo
questo termine un utile strumento operativo, perché -come detto
precedentemente- chiarisce come il mobbing genitoriale (e cioè la
percezione che l’altro genitore sia un intruso e vada allontanato con
rimedi drastici) intervenga allorché:
1) la scissione del nucleo familiare si stabilizza nella creazione
di un sistema (o un metasistema?) dalle dinamiche potenzialmente
paradossali, composto com’è da una “famiglia monogenitoriale” e da un
“polo genitoriale de-figliato”, che fa da polo di inevitabile attrazione e
tensione verso una parte della famiglia monogenitoriale cui è
affettivamente legato;
2) fra i due nuclei si stabilisce una dinamica definibile “a bolla di
sapone”, generata dal fatto che -come in una molecola di sapone
(nella quale la parte idrofoba e quella idrofila creano una gran
tensione superficiale nel momento in cui entrano a contatto con
acqua e grassi) – ciò che unisce i due poli del sistema è anche ciò
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che reciprocamente li divide;
3) l’intervento di un sistema erogatore di regole qual è il
Diritto, che con la propria caratteristica modalità di gestione
lineare ed antagonistica dei diritti dei singoli, giunga a sovrapporre
la propria linearità alle regole circolari delle relazioni genitori-figli,
di fatto tendendo a stravolgerne le regole.
In sostanza, dunque, il mobbing genitoriale al momento della
separazione della coppia è potenziale, e consta semmai di una serie
di comunicazioni che non strutturano ancora un contesto a
transazione mobbizzante, trattandosi di una naturale evoluzione di
una coppia in scissione, che va verso un tentativo di assestamento
dei propri compiti di accudimento genitoriale.
Fino a questo momento, in sostanza, la transazione
mobbizzante può esser ricomposta perché la coppia è ancora
autoreferenziale a sé stessa, e può ancora dotarsi di regole proprie.
Il vero problema nasce dunque allorché la coppia genitoriale
comincia a strutturare un contesto nel quale la regola chiave è che
ogni comunicazione viene interpretata come secondaria e
strumentale al tentativo di estromettere l’altro genitore dalla
gestione di un soggetto -il figlio- che in realtà è indivisibile,
inalienabile, ed in comune.
E questo avviene allorché entrambi i genitori “percepiscono”
l’altro come un intruso, il quale sta tentando di estromettere il
proprio ex partner dall’accudimento del figlio attraverso il ricorso
ad un insieme di regole che potrebbero non lasciargli più spazio di
autonomia e decisione.
E’ chiaro che questa “percezione” dell’altro come intruso è un
costrutto in sé non vero e non falso: in accordo con la logica
costruttivistica su cui si basa il presente scritto, tale percezione è un
“significato” dato dai soggetti in questione alle proprie esperienze
con l’altro. Ciò implica che, ad un altro livello, tra i due partner che
si definiscono vicendevolmente un “intruso”, vi deve essere una
sorta di accordo paradossale, che li porta a potersi percepire
reciprocamente come “intruso” e convalidarsi di fatto, l’uno con
l’altro la stessa percezione.
Vogliamo qui sottolineare un altro punto, a nostro avviso
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fondamentale circa tale “percezione” dell’altro come “intruso”: essa
emerge in gran parte allorché “l’altro” si rivolge al percorso
giudiziario (o a un suo rappresentante significativo, come un legale,
con una scelta che all’altro sembra implicare un percorso di “non
ritorno”).
In una tipica logica circolare, non bisogna però dimenticare che
“l’altro” si rivolge al contenzioso giudiziario allorché percepisce l’ex
partner come un “intruso”. In sintesi, e per spiegarla con una
metafora, l’”intruso” crea il “percorso giudiziario” quanto il
“percorso giudiziario” crea il l’”intruso”, come in un classico
dipinto di Escher.
Molto probabilmente, allora, il vero punto di svolta si ha per un
crollo comunicazionale nella coppia, cui partecipano non pochi
fattori esterni ed interni alla stessa (come, ad esempio e last but not
least, molte tematiche psicopatologiche personali).
Tale crollo comunicazionale, in assenza di prospettive sociali e
istituzionali esplicitamente e assertivamente volte a superare, trova
il suo unico e obbligato sbocco nel percorso conflittivo del
procedimento giudiziario. A questo punto, il
procedimento
giudiziario diventa però il definitivo punto di innesco (con capacità
anche anticipatoria) di una rottura della coppia e della sua capacità
metacomunicativa, che va a dissolversi nel “parlarsi tra avvocati” e
“sentenza del Giudice”
Resta qui da chiedersi se l’obbligo di un percorso mediativo,
svolto come serietà ed efficace prima di adire il Giudice, non possa
migliorare davvero, e grandemente, la prognosi di queste
conflittualità.
La risposta è, come spesso accade, nelle premesse con cui si
affronta il problema.
2.2. Il rapporto tra il contenzioso giudiziario e la
transazione mobbizzante [torna su]
Nel nostro contesto socioculturale il procedimento giudiziario
è deputato a gestire la conflittualità tra soggetti (intesi come
individui o come istituzioni) e non tra relazioni.
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Per quanto tenda a facilitare l’accordo e la mediazione (come la
recente introduzione di questa come prassi giudiziaria, propedeutica
a un contenzioso dimostra), il Diritto vede, per così dire, il mondo
attraverso i singoli soggetti, individui, società, o gruppi che siano,
ignorando le relazioni in quanto tali.
Ciò implica che nel momento in cui si pone a gestire la
conflittualità genitoriale irrisolta, lo fa comparando diritti,
attitudini, caratteristiche dei singoli, cioè dei due partner.
In sostanza non è prevista o pensata alcuna attenzione alla
relazione genitoriale in quanto tale, in quanto cioè “sistema” di
relazioni e non “somma” dei comportamenti di due monadi.
Solo con la recente introduzione del concetto di “affido
condiviso”, il Diritto ha cercato di spostare verso la “coppia” in
quanto tale il proprio “focus” operativo. La sua applicazione, però,
e dunque la trasformazione in tal senso del Diritto, appare lenta e
perigliosa, perché per sua natura il procedimento giudiziario poggia
su metaregole che tendono sempre a dividere e quasi mai -e solo su
richiesta (una richiesta che è paradossale attendersi in un
conflitto!)- a unire.
2.3. Diritto vs. autopoieticita’ della coppia [torna su]
Il punto focale, a nostro avviso, è dunque nell’irruzione che il
codice operativo del Diritto -con i suoi valori e riferimenti- fa nella
coppia genitoriale, un codice che, rispetto alla autopoieticità della
coppia, ha due caratteristiche fondamentali in grado di ledere
irrimediabilmente l’autopoieticità della coppia genitoriale.
La prima è che il codice operativo del Diritto è, come abbiamo
già detto, teso a dividere i singoli, contrapponendone i diritti e
negando così, nel concreto, l’esistenza di un diritto della “relazione”
a esistere come tale (laddove per relazione non si intende quella
matrimoniale o di convivenza, ma – nel caso specifico – quella
genitoriale, che non può cessare nemmeno con il divorzio).
La seconda, last but not least, è che quello del Diritto è un
codice operativamente più determinante rispetto a quelli generati
dalla coppia, perché socialmente più prescrittivo (e comunque più
limitativo) dell’esercizio della genitorialità (ed è questo il motivo per
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cui si sente sempre dire, in questi casi: “te lo faccio dire dal giudice
cosa puoi fare con nostro figlio!”, frase che implica che l’altro dovrà
darsi da fare per esser lui a estromettere chi parla dalla gestione
della vita del figlio).
Questo implica di fatto che il Diritto entrerà a distruggere la
autopoieticità della coppia e che tale distruzione determinerà in
entrambi i partner la percezione che l’altro è un intruso da
combattere.
2.4. Il diritto come autostrada preferenziale per la gestione
del conflitto di coppia [torna su]
Questa “irruzione” del Diritto è un’irruzione che usualmente
viena letta – da noi “osservatori” del problema, che erroneamente
ce ne percepiamo estranei – come “causata” dalla scelta della coppia di
rivolgersi “al giudice”.
A nostro avviso questo nesso causale è funzione della
definizione e dei limiti che vengono data al contesto, o sistema,
entro cui individuare la “causa”.
A parer nostro questa lettura può forse essere funzionale in
alcuni casi, ma è del tutto arbitraria, e può portare a gravi errori di
valutazione della condotta altrui e, per un altro verso, a momenti di
continua irresponsabilità riguardo alle soluzioni adottate.
L’esempio che usualmente facciamo per spiegare tale punto di
vista è quello relativo alla velocità di un’auto: a parere di chiunque,
la stessa appare dovuta ai comportamenti del pilota che la guida e,
al massimo, alle caratteristiche del motore.
Quello che viene occultato e s-considerato, da tale prospettiva,
che noi definiamo “elementare” e (e perché) “aritmetica”- è che la
“velocità”, in realtà, è una funzione: molto riduttivamente, e detto
con una semplificazione notevole, è una funzione della relazione tra
le caratteristiche del “sistema-auto” (incluso il pilota), e le
caratteristiche della “strada”: essa dunque appartiene al dominio
della sua interazione con l’ambiente nel quale è immersa: se invece
del fondo stradale vi fossero sabbie profonde, e/o più o meno
mobili, il pilota tutto otterrebbe ma non quel “comportamento”
dell’auto che noi definiamo come “correre in strada”.
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Una descrizione del genere appare sempre banale, ma solo
dopo che è stata espressa: dapprima è sempre elusa e ignorata.
Ma, soprattutto, è difficile che funga da stimolo per ulteriori
riflessioni. Il che è importante per situazioni analoghe.
E dal nostro punto di vista, il procedimento giudiziario
conflittivo e collusivo sta alla coppia e ai singoli partner che la
compongono, come il movimento dell’auto sta a chi la guida: il
problema è osservare anche quale, per così dire, fondo stradale – e
dunque quale soluzione socioculturale e istituzionale – viene offerta
alla coppia in separazione.
E’ infatti evidente che lo sdegno suscitato da tanta conflittualità
genitoriale, che identifica nei partner in litigio dei genitori abusanti
dei figli, dovrebbe mediarsi nella consapevolezza che qualcuno
costruisce percorsi di (apparente) facilitazione a molti conflitti
genitoriali, percorsi cioè che propongono il conflitto giudiziario
accanito e ad oltranza quale soluzione al conflitto genitoriale, il che
implica la genesi di sistemi di ricorsività del conflitto.
In questo senso, noi utilizziamo una metafora che ci sembra
particolarmente efficace: la “macchina-coppia” crede di prendere
un’autostrada veloce allorché si ritrova a gestire la propria
conflittualità, e invece finisce impantanata nelle sabbie mobili dei
procedimenti giudiziari, da cui ognuno dei due crede di poter uscire
pigiando sempre più sull’acceleratore.
In realtà, e qui sta il punto fondamentale, il ricorso al Diritto è
– nelle situazioni di conflittualità media, o spesso anche modesta –
un evento di fatto inevitabile, sia perché di fatto obbligato per
esprimere socialmente e giuridicamente l’avvenuta separazione , sia
perché in caso di incapacità della coppia a dirimere mediante regole
proprie la propria conflittualità, l’unico spazio che appare fondante
e dirimente è proprio quello del procedimento giudiziario.
Occorre infatti considerare un punto fondamentale: la
condizione psicologica dei partner di una coppia in via di
separarazione, e le prospettive e aspettative che ritengono di avere
davanti a sé. Quale strada, in sostanza, o autostrada (o sabbie
mobili, per restare nella metafora della velocità come nesso di
relazione), percepisccono si stia snodando verso il loro futuro.
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Il punto è che i partner di una coppia in dissoluzione rischiano
di essere metaforicamente nella stessa situazione psicologica dei
personaggi del “dilemma dei prigionieri”, e dunque incapaci di
sviluppare strategie di reciproca fiducia, strategie che possano
prospettarsi come premianti per entrambi.
Il vero punto di innesco è dunque nell’esistenza di uno
strumento di gestione sociale della conflittualità genitoriale,
operativamente molto fondante come il Diritto (in grado cioè di
imporre le proprie regole a due individui che non sanno più
stabilire le regole della propria relazione), e che per definizione è
uno strumento che esaspera -invece di elaborarla- la situazione da
“dilemma dei prigionieri” in cui versano due genitori che non si
fidano più l’uno dell’altro, e che non riescono a metacomunicare
sulle proprie regole.
La scelta di “andare dal Giudice” appare dunque, ai due coniugi
ormai incapaci di comunicare e stabilire regole e metaregole
condivise, come l’unica possibile o, quanto meno, come quella più
in grado di regalare certezze.
Richiamandoci infatti a ciò che dice Luhman, occorre ricordare
che il Diritto è un sistema sociale destinato a ridurre la complessità
delle nostre possibilità di essere nel mondo; è quindi un rimedio
generalizzato verso le aspettative: tende infatti a ridurre
considerevolmente il rischio implicito nelle relazioni umane e la sua
funzione risiede nella sua efficienza selettiva, dunque nella sua
capacità di selezionare aspettative comportamentali generalizzabili a
tutte le relazioni umane. In sintesi, appare garante di certezze molto
più forti di quelle che i singoli possono aspettarsi da un semplice
loro reciproco accordo.
In altri termini, una società in cui la soluzione ai conflitti di due
genitori circa l’accudimento della prole è in una scelta tra un
contenzioso personale e un contenzioso giudiziario, il percorso
giudiziario è quello che i due partner percepiranno di gran lunga
come quello che più li tutelerà da rischi e instabilità legati al
comportamento dell’altro: il procedimento giudiziario sarà cioè
considerato l’autostrada preferenziale da utilizzare per difendersi
dalle predazioni dell’ex partner, ormai divenuto, per quanto sopra
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descritto, un intruso da mobbizzare.
A questo punto, tale irruzione del Diritto distruggerà
irrimediabilmente, la capacità della coppia di gestire sé stessa a
partire da sé stessa, legittimando in ciascuno dei due genitori la
percezione che il proprio “nido” è quello più adeguato per la prole, e
che l’altro è un intruso da estromettere quanto più possibile dalla
vita del figlio.
2.5. Dal caos nel sistema-coppia ai processi di
subottimizzazione [torna su]
Ne emerge un caos di regole e comportamenti non più
comprensibile a nessuno dei due genitori in conflitto, caos nel quale
ogni mossa dell’altro è percepita come una conferma del suo essere
un intruso pericoloso alla vita del proprio figlio. Come la nostra (e
l’altrui) esperienza clinica dimostra, non è affatto impossibile che
ciò purtroppo trasformi davvero -grazie ad esempio al meccanismo
delle “profezie che si autoavverano”- dei genitori in un pericolo, a
volte mortale, per i propri figli.
Di tale “istintuale” e, metaforicamente, “biologica” violenza,
fanno a nostro avviso fede proprio quelle gravissime “cattiverie”
che si vedono -contrapposte o meno- nelle coppie gravemente
conflittuali, “cattiverie” che in realtà sembrano più unire che
dividere i partner: come noto e come osservabile a chiunque, vi è in
molte coppie una irrimediabile incapacità a gestire quelli che a noi
appaiono come “acting out” nevrotici e che, come noto, possono
arrivare al suicidio e/o all’omicidio di stampo stragista.
A nostro avviso comportamenti del genere hanno una
spiegazione ben precisa: l’irruzione del codice del Diritto nella
autopoieticità della coppia distrugge la capacità della stessa di
creare le proprie regole e convalidarsele, anche se ciò avveniva in
maniera più o meno conflittuale.
La “forza” del Diritto di generare certezze ed esenzioni del
rischio ottiene nella coppia effetti opposti, nei casi di grave
conflittualità, perché riesce a generare in entrambi i partner una
sola certezza, di fondo: che non ci sarà condivisione della
genitorialità e che un altro soggetto sta cominciando a dettare le
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regole di gestione della propria prole. Ciò attiva quell’innato, e
biologicamente violento, istinto di tutela della prole, un istinto che
non viene mediato e gestito da nessuna istanza (o istituzione) di
trasformazione sociale, e che tanto meno ottiene risposte, tanto più
diventa ricorsivo.
D’altra parte, il Diritto non riesce ad essere prescrittivo quanto
dovrebbe, perché nel quotidiano i partner di una coppia possono
ancora decidere tutto quello che vogliono, senza che vi sia una
qualsiasi entità a poterlo realmente impedire. In sostanza, il Diritto,
quando entra in una coppia conflittuale, distrugge definitivamente
-perché sicuramente le lesioni esistevano da prima- l’unica
dimensione veramente prescrittiva di una coppia, vale a dire la sua
possibilità di fondare regole percepite come esclusivamente proprie.
Per usare una metafora, il Diritto -e soprattutto il conflitto
giudiziario- rendono la coppia da sistema globale, cioè da “totale”
di relazioni -quale deve essere per poter funzionare- a somma di
due estranei.
Ciò impone l’attivarsi di quei comportamenti etologicamente
programmati che noi – quali osservatori solo apparentemente
estranei al problema – leggiamo come “conflittualità della coppia”, e
che sono invece programmi comportamentali posti da sempre a
tutela della prole.
L’emergere di tali comportamenti è di fatto dovuto alla
necessità dei due frammenti di nucleo residuo (vale a dire, le due
diadi genitore-figlio) di ritrovare regole e metaregole di
rifondazione della propria unicità di nucleo in un contesto nel quale
le precedenti regole di condivisione, e i tentativi per gestire il
cambiamento (ricorso al Diritto) sembrano costituire un pericolo di
predazione della prole da parte di un soggetto divenuto estraneo,
perché antagonista in un dominio di esistenza (il contenzioso
giuridico) più efficace del precedente (le regole della coppia) di
imporre, se evocato, comportamenti prescrittivi e/o limitativi della
genitorialità.
In assenza dunque di interventi sociali atti a favorire il
riassestamento su nuove regole create e percepite come
autopoietiche (e, soprattutto, di una vera cultura dell’interesse del
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minore) e in presenza del codice giudiziario, che impone
prospettive di divisione e lotta a somma per così dire zero (ci
rimandiamo qui al c.d. “dilemma dei prigionieri”), e che,
soprattutto, può modificare con meccanismi impositivi il proprio
rapporto con i figli, per ciascuno dei genitori separati si rende
necessario ricorrerete alla tutela della prole utilizzando modelli di
comportamento più immediatamente disponibili, anche se
etologicamente più lontani da quelli del quotidiano convivere civile,
come i comportamenti mobbizzanti della genitorialità altrui.
2.6. Il mobbing genitoriale come problema di “diritti
sbagliati” [torna su]
In altri termini, i genitori separati, lasciati soli a combattersi
l’uno contro l’altro nel conflitto giudiziario (percepito tanto come
miglior garanzia possibili dai rischi del convivere in assenza di
reciproca fiducia, quanto, però, come in grado di ledere
irreparabilmente la genitorialità in caso di sconfitta), devono
attingere a modelli di comportamenti nei quali prevalgono – più o
meno animalescamente – l’aggressività e l’attacco come regole di
gestione dell’integrità del proprio nucleo familiare, ora individuato –
da entrambi i genitori – nella propria esclusiva diade “genitore-
figlio”.
A tutto ciò sembra quindi, irrimediabilmente possiamo dire, far
eco la famosa (ripetuta quanto ignorata) frase di Carlo Jemolo: “La
famiglia è un’isola che il Diritto deve limitarsi a lambire”.
D’altra parte, “Non tutte le relazioni umane, infatti, sono secondo
questa studiosa [la WOLGAST, vedasi: E.H. WOLGAST, La
grammatica delle giustizia, trad. it., Roma, 1991, p. 12 N.d.R]
giuridicizzabili in termini di diritti. Quando ci si ostina a far entrare nello
stampo del diritto individuale una relazione in cui le parti non perseguono (o
non dovrebbero perseguire) il loro esclusivo interesse personale, una relazione
in cui «le persone si assumono la responsabilità e la cura di altre», avvenga ciò
nei «rapporti familiari, professionali, o semplicemente di benevolenza», si
otterrebbero allora «diritti sbagliati». Diritti che non realizzano il bene delle
persone coinvolte, ma producono un effetto diverso, che è quello di sollevare
dalla responsabilità un soggetto in posizione di forza e di controllo.” (Dieni,
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Se poi pensiamo che anche il Diritto è considerato un sistema
autoreferenziale e autopoietico perché definisce da sé i propri
limiti, dal momento che tutta la sua catena operativa si configura
nello stesso codice ricorsivo (la distinzione fra “diritto” e “non-
diritto”) e che la sua funzione è – come già detto – quella di essere
garanzia e conferma delle aspettative di ottenere diritto
(Campilongo C.F., 1997; De Giorgi R., 1995; Neuenschwander
Magalhães J., 1997) ed esenzione dal rischio (Luhman, 1984) non
possiamo non ipotizzare, anche, che la possibilità di ricorrere al
Diritto in caso di conflittualità genitoriale, implica uno scontro
terribile e senza soluzione fra due “poteri” (quello del Diritto,
appunto, e quello della autopoieticità della coppia genitoriale) tra
loro incompatibili e che l’unico esito possibile, in ogni singolo caso,
sarà solo la distruzione: apparentemente di uno dei due codici (il
Diritto o la autopieticità della genitorialità), in realtà di entrambi.
Il che – ce lo si lasci dire – è esattamente quel che avviene
proprio nei casi di più accanita conflittualità: nei quali o le sentenze
non vengono quasi per nulla osservate, e le relative denunce per
elusione delle statuizioni e dei dispositivi del giudice non vengono
mai presi in considerazione nemmeno dall’A.G. (nullificazione del
codice operativo del Diritto), o uno dei due genitori cessa di
esistere dalla vita del figlio (nullificazione del codice di genitorialità,
il che, se si considerano sotto quest’ultima dizione i casi di figli che
vedono il genitore non affidatario solo sporadicamente e senza che
lui abbia più un ruolo genitoriale, è quel che avviene di norma).
Se si va poi a calare il discorso sino ad ora svolto all’interno di
casi già inveterati di mobbing genitoriale, casi cioè nei quali ormai
da tempo vi è una conflittualità cronica, inveterata, che si estrinseca
ormai da tempo in frequenti e gravi violazione delle norme di
frequentazione, del codice di “bi-genitorialità” e della possibilità
per entrambi i genitori di essere ugualmente significativi nella vita
dei figli, abbiamo, in realtà, che il vero problema è che l’intervento
della giustizia è sempre tardivo e, ben che vada, molto traumatico e
poco efficace.
Una delle classiche e più dirette dimostrazioni di tale
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distruttività è nella scarsissima partecipazione di cui gode la
Mediazione come strumento di gestione della conflittualità
genitoriale, che nella maggior parte dei casi viene percepita come
un percorso inutile e frustrante, ovviamente in una logica nella
quale prevale una prospettiva per così dire di “subottimizzazione”,
dal momento che il Diritto (indicato come il più fondante e sicuro
erogatore di certezze, nella nostra cultura), è pensato per tutelare
soprattutto, se non esclusivamente, i diritti dei singoli, e non quelli
delle relazioni in quanto tali.
E’ dunque un sistema che tende ad avviare – in caso di contese
legate ad un “bene” comune e in assenza di meccanismi correttivi –
essenzialmente processi di “subottimizzazione” (tipici della nostra
civiltà e cultura), destinati ad ingigantirsi, esattamente come una
valanga, ogni giorno di più.
Come noto, il “principio della subottimizzazione”, si può
riassumere nella frase: “ottimizzare i risultati di un sottosistema può
non ottimizzare i risultati del sistema nella sua interezza.” (Mariano
Tomatis Antoniono, 2004, http://www.marianotomatis.it ).
Per quanto riguarda la conflittualità genitoriale, nei “contesti a
transazione mobizzante” si ha che ogni genitore – una volta avviatosi il
processo di dissoluzione della coppia – è più o meno convinto che i
suoi diritti siano identificabili con quelli del figlio, e che le sue
aspettative relative alla gestione del minore siano quelle che
garantiscono al minore il miglior sviluppo.
2.7. La subottimizzzazione come risultato dell’esazione
sbagliata di diritti sbagliati [torna su]
In
questo
momento,
comincia
un
processo
di
subottimizzazione del sistema “genitori-figlio”, perché entrambi i
genitori – separati e in conflitto – ritengono che l’affermazione dei
propri diritti combaci con l’affermazione dei diritti del figlio.
Per ciascuno dei due genitori, dunque, ciò implica che
combattere per l’affermazione dei propri diritti significa combattere
per l’ottimizzazione dei diritti del figlio.
In questa prospettiva, occorre constatare come la gestione della
conflittualità genitoriale attraverso il Diritto sia principalmente
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basata su un sistema che non solo permette l’affermazione di tale
prospettiva di “subottimizzazione” , ma che anzi la pone come la
regola premiante e stabilizzante nei conflitti separativi.
Ciò avviene perché il sistema sociogiudiziario come detto
propone, quale soluzione al conflitto, un altro conflitto, la cui
posta in palio è però una vittoria nella quale le ragioni e i diritti
dello sconfitto tendono ad essere appiattiti dalle ragioni e dai diritti
del vincitore: evento, questo, che nel contenzioso divorzile e
separativo è non solo particolarmente sottolineato (e sottolineabile
dal “vincitore”), ma anche particolarmente premiante: di fatto, chi
ottiene l’affido del figlio, o -seguendo la terminologia dell’affido
condiviso- la sua collocazione nella casa familiare, ottiene di fatto
(se vuole), non solo la piena gestione della vita dello stesso, ma
anche un remunerativo premio in denaro, percepito sotto forma di
mantenimento (che raramente è, anche nelle sentenze di “affido
condiviso”, esclusivamente o in gran parte sotto forma di
mantenimento diretto).
Da ciò ne consegue che il Diritto si trasforma, da sistema di
certezze e stabilità, a vero e proprio sistema distruttivo della
ottimizzazione dei bisogni del minore coinvolto nel contesto
genitoriale in separazione, il quale diventa, di fatto, un orfano, non
biologico ma – per così dire – cognitivo e affettivo (e per il quale
abbiamo coniato l’espressione di “orfani di genitore vivo”).
Il percorso paradossale che si apre infatti nella sua vita è che la
stessa sarà più stabile ed equilibrata in presenza di un genitore solo,
perché il procedimento giudiziario ha trasformato i sue genitori da
coppia in nemici o, ben che vada, in una diade genitoriale nella
quale c’è n’è uno assolutamente prevalente da una parte ed uno del
tutto secondario dall’altra.
In una logica di questo tipo, nel quale diventa fondante il
paradosso secondo cui la tutela degli interessi di una parte diventa
più stabilizzante della tutela degli interessi del tutto (con un
percorso che potremmo definire di “contro-ottimizzazione”), non
può non aversi che gli strumenti di gestione del conflitto, vale a dire
del cosiddetto “mobbing genitoriale” e della conflittualità
genitoriale in generale, sono quanto mai ridotti, inefficaci, inutili,
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dovendocisi arrendere al dato che la coppia che può essere
“mediata” (per lo meno a come si pensa oggi alla “Mediazione”), o
la coppia il cui conflitto può essere gestito, è solamente quella
coppia che già di suo, e -si potrebbe dire, per qualche miracolo-
vuole andare in qualche modo d’accordo.
Se si pensa poi che fine dell’intervento del giudice dovrebbe
essere la tutela del minore e delle sue relazioni con i genitori, se ne
deve solo dedurre che ad esser distrutti saranno sia il Diritto, sia la
genitorialità.
Possiamo dunque chiudere questa disamina con un una sintesi
abbastanza precisa:
essendo il procedimento giudiziario un
percorso conflittivo, di fatto ordinato secondo una logica “a somma
zero” (nel quale ci sono dunque uno “sconfitto” ed un “vincitore”),
l’applicarlo come soluzione ad un conflitto implica di necessità il
prodursi di un conflitto a livello ancora più elevato, dato che una
soluzione applicata a sé stessa può generare solo sé stessa.
Il paradosso di una conflittualità sempre più autoelicitantesi è
dunque una delle chiavi per comprendere l’irrimediabilità del
conflitto separativo e il perché un momento che viene ritenuto “di
giustizia”, divenga in realtà un momento di irrimediabile frattura
della coppia.
2.8. Diritti sbagliati e dis-qualita’ emergente dal
“sistemaseparazioni”: il “family chopping”. [torna su]
Come noto, uno dei risultati più drammatici del “mobbing
genitoriale” è appunto la drastica limitazione dei contatti tra un
genitore ed i figli, o la scomparsa definitiva dalla vita dei minori.
Già da tempo avevamo espresso come questa realtà fosse una
“qualità” (meglio: una dis-qualità) caratteristicamente emergente
dalla relazione tra la coppia in via di separazione e il
“SistemaSeparazioni”, inteso come quell’insieme di persone,
professioni, istituzioni, che si interfaccia con la coppia in
separazione, al fine di gestirne la conflittualità.
Avevamo definito tale dis-qualità con il termine di “Family
Chopping” (Eurispes, 2003) dal momento che il risultato
dell’intervento del “SistemaSeparazioni” è sempre un affettamento
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delle relazioni genitore-figli.
Uno dei punti caratteristici del “Family Chopping” -un punto
altrettanto
caratteristicamente non esaminato dalla letteratura,
come se cioè non fosse una parte del problema, ma solamente un
accidente che capita sempre per caso- è che tale amputazione 5
riguardano costantemente e massimamente la figura del padre.
E’ infatti notorio che le percentuali di affidamento alla madre
sono sempre state preponderanti rispetto agli affidi al genitore
maschile, ed essendo altrettanto notorio che, anche se la
promulgazione del c.d. “Affido Condiviso” ha modificato in teoria
la situazione, la perdita di contatti significativi tra figli e padre (oggi
definito “non collocatario”, ma con frequentazioni con i figli
fortemente sbilanciate in negativo rispetto al genitore materno)
resta di fatto la stessa di prima della legge n.54.
Come noto, però, la condizione di genitore privato
conflittualmente del contatto con i figli è ad altissimo rischio per
quanto riguarda il prodursi di violenze anche gravi (spesso si arriva
all’evento omicidario e suicidario, o stragista) (Ubaldi, Nestola, Abo
Loha, 2010), fino ad ora ignorate come risultato appunto di tali
privazioni.
E’ poi altrettanto notorio di come la perdita dei rapporti con
un genitore sia garanzia pressoché assoluta di psicopatologia futura,
e questo per costante letteratura internazionale
(Giordano-
D’angelo 2006).
Il “Family Chopping” rimane dunque un dato allarmante e
stranamente ignorato, foriero com’è di conseguenze patologiche
gravi, lunghe, e spesso mortali. In realtà, la statistica in proposito,
esaminata da Nestola e coll., sancisce il dato più importante: se si
estrapola il numero di eventi suicidiari e omicidiari dal totale, e si
calcolano quanti sono avvenuti in costanza di “interruzione
giuridica del progetto genitoriale”, i dati in proposito sono
5
Come detto in apertura di articolo, il termine di “amputazione genitoriale” -espressione straordinariamente
efficace per definire cosa accade veramente ad un bambino “alienato” dal suo genitore, è stato per primo
utilizzato da Benedetti, che così si esprime:
“Sindrome da alienazione genitoriale: una patologia della famiglia separata.
Io preferisco chiamarla “di amputazione genitoriale”, perchè dà meglio l’idea di che cosa sia, mi sembra. Si
sta discutendo fra gli estensori della prossima edizione del DSM, se riconoscere ‘ufficialmente’ questa
sindrome fra i disturbi mentali, di cui il DSM appunto si occupa …” (Benedetti G. 2011)
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allarmanti, e tanto più allarmante diventa il fatto che nessuno abbia
mai considerato il problema da questo punto di vista.
2.9. La serialità decisionale della giustizia in tema di affidi
e l’eliminazione della figura del padre: ipotesi per una lettura
socio-antropologica [torna su]
Come detto precedentemente, il contenzioso familiare vede la
prevalenza di “vittorie” della madre nei contenziosi per
l’affidamento dei minori. Anche in regime di affido condiviso,
infatti, il regime di incontri tra padre e figli tende a rimanere quello
che si ha in regime di affido esclusivo: un week end ogni quindici
giorni e uno o due pomeriggi a settimana, più qualche periodo
alternato durante le feste, è una forma di affido che recide
comunque il legame genitore-figlio, a prescindere dal termine
utilizzato in sentenza).
La situazione in questione è talmente radicata che, usualmente,
una madre il cui ex partner ottiene di star con il figlio per più giorni
a settimana, percepisce questa come una “sconfitta”
E’ evidente allora un dato.
Se i contenziosi del lavoro, o i contenziosi amministrativi,
mostrassero da decenni percentuali di vittoria del 90%-95% in una
delle due parti, poniamo i datori di lavoro nei contenziosi
giuslavoristici, sarebbe normale che qualcuno si chiedesse, se la
magistratura non avesse predilezioni per i datori di lavoro rispetto
ai dipendenti. Lo stesso avverrebbe se i contenziosi amministrativi
fossero vinti nel 90%-95% dei casi dalle amministrazioni statali o
se nelle cause tra assicurati e società di assicurazioni vincessero
queste nel 90%-95% dei casi.
Nel contenzioso divorzile vi sono percentuali altissime (90%-
95% appunto) di vittorie del ruolo materno come genitore
“affidatario” o “collocatario” (laddove con “collocatario” si
identifica un genitore con tempi di frequentazione assolutamente
sbilanciati tra padre e madre). Ma ciò non suscita alcuna domanda o
perplessità (non certo sulla adeguatezza della magistratura o la sua
trasparenza!): e questo anche se, come noto, cifre del genere si
accompagnano a profondissime ripercussioni sociologiche,
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psicologiche, colelttive ed individuali.
A nostro avviso vi è dunque una elusione riguardo al significato
di tale dato, e degli altri indicati (quello, ad esempio, per cui il
risultato del contenzioso giudiziario rischia di essere sempre quello
di un “Family Chopping”) e questa elusione secondo noi va
colmata.
Considerando come la figura frequentemente più amputata
fosse di gran lunga quella del padre, che è il genitore che nella
stragrande maggioranza dei casi perde il contatto con i figli, ci
siamo chiesti se ci fosse una spiegazione al fatto che i contenziosi
divorzili fossero quasi sempre appannaggio di una figura
genitoriale, e perché questa figura fosse quella materna.
In sintesi, possiamo dire che il sistema giudiziario dovrebbe
garantire un pari trattamento alle parti che vi ricorrono, ma nel caso
dei contenziosi per l’affido dei minori tale aspettativa di giustizia
viene completamente disattesa.
Il dato non è mai stato oggetto però di alcuna riflessione o
ricerca, né in campo giuridico, né in campo psicologico clinico, né
in campo psichiatrico (o psicologico) -forense, ed è stato dunque
trattato come un dato di cronaca privo di rilevanza scientifica o
sociale, quando invece è un dato che sicuramente esce fuori dalla
norma e dalla normalità, sia per quanto riguarda le aspettative di
giustizia, sia per quanto riguarda la sua accettabilità da un punto di
vista psicologico-clinico (che lo sbilanciamento delle frequentazioni
crei gravi problemi psicologici e affettivi, è dato acclarato, in
letteratura scientifica), sia per quanto riguarda le distorsioni sociali
che ha provocato e provoca (i padri separati come nuovi poveri), sia
per quanto riguarda le problematiche criminologiche che tende a
generare (il fallimento del progetto genitoriale è, come detto,
correlato ad un numero elevato e significativo di eventi suicidiari e
omicidiari).
Siamo dunque in presenza di un esprimersi paradossale del
Diritto e della Psicologia (nonché della Psicologia e Psichiatria
Forense), che sembrano arrendersi ad eludere (e a colludere con) un
dato incontrovertibile: la Giustizia familiare non riesce ad usare le
regole della Giustizia, le scienze psicologiche correlate al Diritto
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non sembrano interessate a modificare il dato, le branche cliniche
vogliono ignorare il fenomeno.
Per quanto riguarda il Diritto, però, sembra inequivocabile
considerare come l’attitudine monogenitoriale della Giustizia
rappresenti, a nostro avviso, l’ammissione, da parte della Giustizia,
che nessun procedimento giudiziario potrà mai appurare qual è
veramente il genitore migliore e più adeguato cui affidare un
minore. Altrimenti, le prove, le relazioni dei Servizi Sociali, le CTU,
i dibattimenti e le “conclusionali”, darebbero ogni volta un risultato
diverso e dunque statistiche meno unilaterali.
D’altra parte, anche ammettendo che lo strumento giudiziario
ha la capacità di cogliere le realtà della relazione genitoriale e
prescrivere le statuizioni più utili affinché questa meglio possa
esprimersi per il minore, e che questa adeguatezza si esprima
puntualmente e con esattezza negli affidi o nelle collocazioni alla
madre, non si vede perché per raggiungere un risultato così ripetuto
nelle statistiche, sia necessario un percorso così inutilmente lungo e,
soprattutto, conflittivo, qual è di fatto quello giudiziario, dal
momento che tale intervento esita alla fine -se i dati son veritieri-
sempre con gli stessi risultati.
Detto in altri termini, dunque, sia che questo 90%-95% di affidi
o collocamenti (con modalità di affido esclusivo) presso la madre
siano frutto di accertamenti veritieri, che esprimono concretamente
le realtà dei singoli casi, sia che queste cifre esprimano il dato che il
Giudice vede nell’affido alla madre l’unica soluzione realmente
praticabile nei casi specifici, non se ne possono dedurre che due
alternativa.
Entrambi però basate sull’assunto che il percorso giudiziario è
inutile e controproducente. Queste due alternative sono:
I) l’affido alla madre dovrebbe essere la soluzione praticata per
legge, salvo che particolari, ben definite (con idonei dispositivi
legislativi), e altrettanto ben dimostrate, situazioni dimostrino il
contrario;
II) bisogna ripensare tutto l’insieme di soluzion i che il nostro
contesto socioculturale offre al problema della conflittualità
genitor iale, individuandolo come problema e soluzioni di natura
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non giuridica e non giudiziaria .
È infatti facilmente dimostrabile come proprio queste
statistiche dei procedimenti giudiziari costituiscano una sorta di
regola paradossale che viola la premessa del diritto e della sua
applicazione, secondo la quale tutti ci aspettiamo di essere uguali di
fronte alla legge, e come questa regola paradossale generi in realtà
una situazione schizofrenizzante o, quanto meno, induttrice di gravi
frustrazioni.
L’aspetto paradossale di tutto ciò si esplicita infatti da diversi
punti:
a) tutta la letteratura scientifica è concorde nell’affermare che
l’accordo tra genitori è la sola via maestra di tutela del minore
coinvolto nella separazione, ma per contro abbiamo una legislatura
(e dunque una cultura) che, a tutela del minore, pone un conflitto
tra i suoi genitori;
b) il Diritto pone come propria premessa l’assunto che tutti
sono uguali di fronte alla legge, ma un genitore che inizia un
percorso giudiziario volto a risolvere il suo contenzioso genitoriale
e/o coniugale, sa che se padre ha il 90%-95% di possibilità di
perdere il procedimento e se madre di vincere;
c) il percorso giudiziario per tutelare il minore nasce come
garanzia di equità del Diritto, ma tutti gli strumenti giudiziari
utilizzati nel procedimento di separazione della coppia e di affido
minori (ascolto dei testimoni, valutazione delle prove, CTU,
incarico di valutazione della adeguatezza genitoriale ai Servizi
Sociali, ecc.) portano di fatto sempre alla stessa conclusione: lunghi,
tormentati, estremamente dispendiosi, periodi di grave
conflittualità, per ottenere risultati assolutamente prevedibili e, in
quanto tali, percepiti necessariamente come iniqui.
Quello che infatti si attiva in casi del genere è un meccanismo
perverso, per il quale il genitore che adisce il giudice avendo dal
90% al 95% di possibilità di perdere una causa definita “equa” nelle
aspettative con cui percorrerla, è che non può che aver sbagliato lui
ad intraprendere quel percorso.
Alla percezione di “ingiustizia attesa”, presentata però -sin dalla
sua attesa- come giustizia, si aggiunge allora la percezione che la
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“colpa” è stata proprio quella di aver cercato una “giustizia” di cui
si conoscevano con largo anticipo i i probabilissimi esiti.
Ciò implica però che nel passaggio dal macrosistema al
microsistema (la coppia che si separa) viene trasmessa una
informazione (e dunque un meccanismo) di impari opportunità, che
diventano poi operative nelle regole del microsistema: “Adesso vado
io dal giudice e ti faccio togliere casa e figli!” è una frase che non pochi
padri si sono sentiti rivolgere -con non poca attendibilità- dalle
proprie partner, e questo anche se nessuno (e ciò è un punto
elusivo che acquista valore di mistificazione) ha mai preso in seria
considerazione come tale riflesso del macrosistema influisse poi
sulla conflittualità della coppia.
Abbiamo tentato di ipotizzare se vi fosse un motivo al perché
proprio il padre fosse -statistiche alla mano- il genitore negletto da
una giustizia che -come detto precedentemente- se operasse con
pari opportunità (ma in terreni nei quali la presenza del contenzioso
giudiziario ha un senso!) dovrebbe di necessità esitare allora in altre
statistiche.
Sicuramente la modificata percezione del ruolo del padre
-percepito sempre come un possibile “padre-padrone”- quale si è
avuta a partire dagli anni Sessanta, ha giocato un ruolo
fondamentale in questo indirizzo giurisprudenziale. L’altro
elemento che vi ha concorso deve essere stato di sicuro la
sotterranea consapevolezza -magari elusa da dibattiti e vere e
proprie prese di coscienza, che il procedimento giudiziario non
potesse di sicuro stabilire, attraverso una dinamica così conflittiva,
quale potesse essere il genitore veramente più adeguato o quello che
meglio era ed è definibile come “collocatario” (utilizzando la
termionologia della legge 54/2006, ma considerando che tale
termine nella maggior parte dei casi non ha modificato i rapporti
assolutamente sbilanciati tra frequentazioni con la madre e
frequentazioni con il padre)
Infine, a nostro avviso deve avere giocato un ruolo
fondamentale una nuova prospettiva che il Diritto si è voluto
assegnare nella cultura e nei costumi contemporanei, un nuovo
indirizzo che possiamo intravedere anche in altri settori sociali
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(come ad esempio la politica).
Ovviamente, questa è una lettura assolutamente personale della
situazione, e come tale viene proposta, in assenza di qualsiasi
dimostrazione sia pure solo argomentativa.
Ci sembra però che il Diritto e la Giustizia siano “sistemi
sociali” che nella gestione dei problemi familiari abbiano utilizzato
una condotta a forbice, e che tale condotta a forbice abbia finito
per generare appunto quella dis-qualità del “SistemaSeparazioni” che
definiamo “Family Chopping”.
Da una parte sono sistemi che si sono ritenuti idonei a gestire
regole di relazioni -quelle familiari, appunto- nelle quali fino a
mezzo secolo fa (sino all’introduzione del nuovo Diritto di famiglia)
nelle quali fino a quel momento la presenza del Diritto era
assolutamente limitata (entrando comunque altri sistemi sociali,
come la religione e, se vogliamo, la morale, a regolare i rapporti).
Dall’altra parte, la consapevolezza che tale gestione di regole
affettive e personalissime, dagli equilibri ancor più personali, non
poteva essere gestita attraverso un sistema di regole codificate a
priori, incapace di cogliere la natura di funzioni quali quelle
emergenti dalle realtà affettive, ha generato una serialità decisionale
che è quella mostrata (e secondo noi, dimostrata), dalle statistiche
di affido monogenitoriale.
Questa serialità decisionale si è poi orientata a preferire
l’eliminazione o l’emarginazione del padre dalla vita dei figli (perché
di fatto tale è il risultato degli affidi monogenitoriali alla madre, per
coloro che seguono rigidamente le consuete statuizioni sulla
frequentazione padre-figli) in virtù -sempre nella nostra opinione –
di un secolare -o forse millenario- conflitto psico-socio-
antropologico tra la figura del “Padre” e quella del “Giudice”,
laddove quest’ultimo – proprio in virtù della autopoieticità del
Diritto, che non tollera territori e ruoli esclusi alle proprie regole- si
volesse definitivamente liberare di una figura -quella del padre,
appunto- che da secoli limitava la sua possibilità di decidere cosa
fosse giusto e cosa no, una volta superata la soglia di casa del “pater
familias” (Giordano, 2008).
L’ipotesi socio-antropologica in questione vagliava l’ipotesi che
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se fino ai secoli passati “società” e “famiglia” erano stati territori
divisi con regole forse simili e sicuramente “trasversali”, ma
orientate, applicate, modificate da autorità diverse, col crollo della
“famiglia” avvenuto dopo la prima metà del secolo passato
(all’incirca agli inizi degli anni ’70), il “Diritto” aveva iniziato a
impossessarsi delle relazioni familiari e il “Giudice”,
conseguentemente, aveva cominciato a vedere nel “Padre” non più
un omologo di un microcosmo parallelo al suo cosmo, ma un
nemico che ne contrastava l’autorità.
Per fare un esempio, e a prescindere dalla tutela che ciò implica
per i soggetti coinvolti, si pensi al “nuovo” reato di stalking
applicato anche a fidanzati, amanti, mogli e mariti, così come alle
ipotesi di cui al 282 bis c.p.p. (che la Cassazione ha ritenuto potersi
ravvisare anche in situazioni di separazione e/o di sopravvenuta
interruzione della convivenza.
Non sfugge qui, poi, che il ruolo del Pater è creare regole e
applicarle, staccando il cordone ombelicale del figlio dalla
fusionalità materna, e immetterlo alla luce del mondo. La figura di
un Padre che -nella famiglia- “crea” e “impone” regole a suo
arbitrio e comunque in nome del potere del Pater Familias e non
del Diritto, contrasta, da un punto di vista antropologico e sociale,
con quella del magistrato, che si ritiene interprete di un sistema -il
Diritto- che non solo definisce le proprie regole, ma che definisce
da sé anche dove queste regole vanno ad operare.
Inoltre, se è il Padre a dettare regole di socializzazione, è
evidente che tale figura primeggia su quella del Giudice, che solo in
seconda istanza diventa istanza di riferimento.
Molto probabilmente proprio intuendo questo confrontarsi dei
due sistemi (“società”, “famiglia” fino a sfiorare lo scontro, Jemolo
utilizzò il termine “lambire” rispetto al rapporto che il Diritto
doveva avere con la famiglia).
La Madre, che invece incarna la dimensione affettiva e
relazionale che tutti accomuna e com/prende, e che
conseguentemente considera “tutti uguali” i propri figli, può esser
vista, in questa logica, come colei che -dal punto di vista del
Giudice- ha il ruolo più affidabile per recepirne le decisioni, dal
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momento che non è nel suo ruolo definire regole non legate al
codice operativo del Diritto e che mettono in discussione sia la
autoreferenzialità del Diritto che l’autorità del Giudice.
Da questo punto di vista, si può anche rintracciare una
dimensione archetipicamente “edipica” nel Giudice (sempre come
ruolo, ovviamente), (Giordano, 2008) dal momento che appare
regola pressoché costante che il “padre” venga “allontanato dalla
casa materna”, e il suo rapporto con i figli imbrigliato in regole e
orari, mentre la “madre” venga lasciata libera di strutturare un
rapporto molto più libero e complesso con la prole, e, in definitiva,
diventare l’esercente di una famiglia monogentoriale nella quale
l’influenza del padre è praticamente nulla o comunque gravemente
ridotta.
A conferma di tale prospettiva vi potrebbe essere poi anche il
dato che mentre i padri sono tendenzialmente condannati
comunque al versamento dell’affido allorché non eseguono, e di
fatto non importa nulla se tali dispositivi hanno in realtà creato
estese sacche di povertà e di deprivazione sociale (i “padri separati”
che mangiano alla Caritas, dormono alla stazione ma se ne parla
solo nei film di comici intelligenti) (Verdone, 2011), così come sono
condannati al risarcimento per non aver avuto con i figli rapporti
significativi, a rovescio non esistono o quasi risarcimenti a carico di
madri che abbiano impedito -e il numero è elevatissimo- la presenza
del padre nella vita dei figli. Quello che appare con una certa
frequenza, detto in altri termini, è che l’allontanamento del padre
dalla casa materna, e la sua condanna sono una norma, mentre
norma opposta è che alla madre sia lasciato il potere sui figli, quasi
che il Giudice (sempre inteso come ruolo) veda in lei una partner
che non ne metta in discussione il potere di applicare regole,
mentre identifica nel Padre, e proprio per il suo ruolo di genitore
che avvia alle regole della socializzazione,un contraltare da
eliminare.
L’aspetto interessante di questo punto di vista è nel fatto che
sembra esistere un atteggiamento speculare nel “Padre Separato”,
una figura che comincia ad avere una identità sociale abbastanza
definita.
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Tale atteggiamento speculare è descrivibile con la figura del
“Padre Separato” che individua nel “Giudice” il proprio nemico, e
lotta per contrastarne, limitarne, piegarne il volere.
Tale atteggiamento speculare è rintracciabile, ad esempio,
proprio nella nascita della legge sull’Affido Condiviso, che, come
tutti sanno, è stata di fatto sponsorizzata da una associazione nata
da un padre separato, il quale ha intessuto forti rapporti con gruppi
politici al fine di vedersi approvata la legge che aveva provveduto a
stilare (probabilmente con l’aiuto di qualche consulente).
Questa associazione di padri separati (poi divenuta aperta
anche alle madri, che però non sono mai state granché
rappresentate) non ha mai accettato di condividere con le tantissime
altre associazioni di padri separati il progetto di legge che si cercava
di far approvare.
Il fondatore di questa associazione è da sempre il Presidente
della stessa, e non risulta che ci sia mai stato un ricambio in tal
senso. Non ha alcuna competenza specifica in materie giuridiche e,
a quanto si sa, ha stilato il testo della legge da solo, probabilmente
ricorrendo solo dopo che aveva finito a qualche correzione da parte
di consulenti legali.
La presenza di professionisti del “SistemaSeparazioni” era anzi,
soprattutto nei primi anni, del tutto ostracizzata da questo
“Presidente”.
Le innumerevoli altre associazioni di padri separati hanno
seguito percorsi analoghi: nascono sempre per iniziativa di un padre
separato che ha da poco iniziato ad avere problemi di contatto con i
minori. L’esordio può essere con l’iscrizione ad una associazione già
esistente o con la fondazione di una nuova ad hoc, evento più raro
del precedente.
Di solito, nel primo caso, dopo un periodo di frequentazione si
avvia una scissione e si forma una nuova associazione. Le
associazioni così sorte proliferano di fatto sempre più e sembrano
più delle famiglie strettamente patriarcali e con regole ferree, i cui
soci / figli
hanno come unica possibilità per
esprimere
validamente un loro orientamento, quella di andarsene. Anche se
tutte hanno uno statuto che prevede elezioni a scadenza periodica,
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su un centinaio e più di associazioni che nel corso di venti anni si
sono avvicendate nel campo dei padri separati, una sola ha
cambiato, una volta, il Presidente. In tutti gli altri casi il Presidente
è lo stesso che ha fondato l’associazione e non cambia mai.
(Giordano, 2004).
Quasi tutte le associazioni di genitori separati si sono schierate
col condiviso e hanno condotto una battaglia di supporto alla
associazione che proponeva il “condiviso”, lottando affinché la
legge fosse imposta.
In sostanza, le associazioni di padre separati sembrano delle
“nuove famiglie” nelle quali il “Presidente” ritrova il ruolo di “Padre”
e tende a contrapporsi al “Giudice” con iniziative destinate a gestire
le regole che il giudice deve utilizzare per gestire i problemi della
famiglia.
La lotta per il “Condiviso” ha, da questo punto di vista, un
aspetto molto interessante, che supporta la lettura che diamo del
conflitto attuale tra il ruolo sociale del “Giudice” (che tende ad
intromettersi nelle relazioni private per fissarne le regole,
esautorando il padre come figura che abbia una qualche importanza
nella vita dei figli), e quella del “Padre”, che tende, specularmente,
a imporre al Giudice le regole che dovrà utilizzare nel proprio
lavoro per gestire i problemi familiari.
L’aspetto di cui diciamo è che la “lotta” portata avanti per il
“condiviso” dalle associazioni di genitori separati sembra essere
davvero una lotta speculare al ruolo del giudice, di cui si cerca di
limitare l’invadenza imponendogli le regole gradite ai padri separati,
in questo senso quasi esprimendo una vera e propria competizione
col giudice (competizione che, come dall’articolo già citato, si
osserva -nelle associazioni di genitori separati- anche ad altri livelli
e verso quasi tutte le figure professionali che intervengono nei
procedimenti giudiziari). L’aspetto curioso di tale lotta per il
condiviso è che queste associazioni hanno solo cercato di
“imporre” al Giudice una legge che dicesse al giudice cosa fare in tutti i
casi, o quasi, di separazione, ma non hanno mai cercato né di
potenziare una cultura della Mediazione (prospettando ad esempio
percorsi mediativi prima dell’ingresso in Tribunale, ipotesi in studio
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solo adesso), né favorire una degiuridicizzazione del contenzioso
separativo (che potrebbe essere pensato anche come percorso
gestito, in caso di conflitto, nello studio dello psichiatra o dello
psicoterapeuta), né concretizzare (al di là di molti interventi fatti in
sedi diverse ma inidonee a produrre cambiamenti) una cultura della
tutela delle relazioni affettive.
In sostanza, stiamo dicendo che i padri separati -riconosciutisi
e riconosciuti in un gruppo sociale in qualche modo omogeneo-
hanno tentato di contrapporsi simmetricamente alla figura del
“Giudice”, propugnando una legge che costringesse il “Giudice” ad
utilizzare le loro regole, ma non hanno mai tentato di sviluppare
percorsi culturali estranei alla stanza del “Giudice” ed al suo ruolo.
Il che implica che la prospettiva di fondo che ha orientato il
comportamento collettivo è una visione speculare e simmetrica
prossima ad un contrapporsi (e dunque ad un conflitto), che non un
tentativo di superare le alternative che portano a quel conflitto
(come ad esempio sarebbe accaduto sviluppando la prospettiva di
degiuridicizzare del tutto il percorso di separazione, almeno fino al
momento della presa d’atto da parte di un giudice -o anche di un
notaio- delle condizioni di separazione).
In sintesi, possiamo descrivere tale situazione -tanto per restare
in tema- proprio come una forma di mobbing reciproco, nel quale:
– Il “Giudice” (come ruolo socio-antropologico) tenta di
estromettere il “Padre” (o, anche, il “Genitore”) dalla gestione della
sua “prole”; mentre invece, a sua volta:
– il “Padre” (o, anche, il “Genitore”) tenta di estromettere il
“Giudice” dalla gestione del suo “lavoro”, condizionandolo nel come
operare attraverso le proprie “sentenze”.
Ciò implica -nella nostra lettura- un dato abbastanza
interessante quanto importante: nella dinamica in questione si
ritrova una transazione mobbizzante come strumento di difesa e
gestione da interferenze terza del frutto del proprio operare nel
mondo. In definitiva, i due ruoli sociali (il “Padre” ed il “Giudice” )
lottano per escludersi a vicenda dalla gestione di regole
fondamentali per l’esistere di entrambi.
A nostro avviso, comunque, il risultato che ci si doveva
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aspettare da un simile contrapporsi è esattamente quello arrivato: la
legge è passata, ma non è stata applicata.
Invece di una soluzione del problema, si è cioè generato solo
un nuovo problema, che altro non è che una ulteriore evoluzione
del vecchio conflitto fra le figure del “Giudice” (che non applica la
legge imposta dai padri separati), e quella del “Padre” (che non
riconosce al Giudice l’autorità per dettar regole alle relazioni padre-
figlio).
Da questo punto di vista, si potrebbe addirittura sostenere che
si tratta del conflitto tra due figure autoritarie e maschili che lottano
edipicamente per il possesso della “Madre” o, se la si vuol vedere
da un altro punto di vista, per poter imporre ciascuno il proprio
potere all’altro proprio in tema di rapporti con i figli.
A sostegno di questa ipotesi abbiamo due dati, a nostro avviso
abbastanza dirimenti: la pressocchè totale assenza di punibilità dei
casi di “mobbing genitoriale”, e il fatto che l’elusione degli obblighi
di frequentazione genitore-figli stabiliti dal giudici non sono
considerati atti lesivi della integrità psicofisica del minore -come la
letteratura scientifica di fatto li ritiene- ma elusione alle disposizioni
del giudice e punite solo se dolose.
Al momento, la legge non.54/2006 prevede effettivamente una
possibilità di risarcimento del minore o dell’altro genitore in caso di
inadempienze rispetto alle statuizioni giudiziarie, così come prevede
una “sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un
massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende”, ma tali
provvedimenti risultano scarsamente applicati e comunque è
sempre difficile dimostrare la sussistenza degli estremi per la loro
applicazione.
Come noto, poi, e come diversi casi di cronaca dimostrano, la
applicazione di un dispositivo giudiziario relativo alle
frequentazioni genitore-figli è di fatto inapplicabile in caso di
rifiuto del minore, quale che sia la motivazione di tale rifiuto.
Il tentativo di eseguire con la sentenza l’aiuto della Forza
Pubblica è percepito come violazione di diritti fondamentali del
minore (come recenti casi di cronaca dimostrano), mentre la
Cassazione ha recentemente espresso la convinzione che la
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cosiddetta Sindrome di Alienazione Genitoriale non debba essere
utilizzata per dirimere problemi di interruzione di frequentazioni e
contatti genitore-figli, dal momento che genitorialità si tratta di
una patologia non ancora accettata dal consesso scientifico.
Discuteremo oltre tale problematica, passando ora ad
esaminare il dato più rilevante a illustrazione e -a nostro avviso-
confermadi quanto sino ad ora espresso. Tale dato è quello relativo
alla punibilità del genitore che impedisce all’altro genitore di avere
col proprio figlio i contatti stabiliti dal giudice.
Il profilo penale relativo a tali comportamenti è quello della
mancata esecuzione dolosa delle disposizioni di un Giudice:
Articolo 388. Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del
giudice. Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti
da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi
l’Autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o
fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito,
qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la
reclusione fino a tre anni o con la multa da lire duecentomila a due milioni.
E’ allora evidente che il bene tutelato non sono né la
genitorialità né il diritto di un minore ad avere stabili e significative
relazioni con entrambi i propri genitori, ma è l’autorità del
magistrato, autorità che evidentemente sovrasta per importanza i
diritti dei genitori e quelli dei figli ad avere stabilità e continuità di
rapporti.
Per quanto ci riguarda, è qui una delle dimostrazioni che la
tendenza del Diritto e quella della Giustizia, in tema di famiglia e
rapporti genitoriali, è quella di sostituire figure, ruoli, e regole
della famiglia con le proprie figure, i propri ruoli, le proprie regole.
Se così non fosse, infatti, impedire ad un figlio di aveva normali
contatti con il proprio padre o la propria madre verrebbe
considerato una lesione ai suoi diritti (e a quelli dei suoi genitori) e
non certo all’autorità del Giudice che ha disposto le regole. E’ qui,
in sostanza, che vi è la prova di come il “Giudice” nella nostra
cultura stia cercando di diventare anche “capo-famiglia” e non
semplice arbitro e garante di controversie individuali.
Far rientrare i comportamenti di ostacolo alle frequentazioni
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genitore-figli nella fattispecie della mancata esecuzione dolosa delle
disposizioni di un Giudice, indica con grande chiarezza che per il
Diritto e la Giustizia l’autorità dei genitori, i loro diritti, i diritti dei
figli ad avere regolari relazioni con i propri genitori e dunque una
crescita stabile nell’ambito di relazioni stabili e significative, hanno
solo un’importanza secondaria
e, comunque, al cospetto
dell’autorità del Giudice, devono oscurarsi.
Conseguentemente, come vedremo nel paragrafo seguente, si
ha l’emergere di uno dei problemi più significativi e importanti
relativo ai sistemi para-familiari a transazione mobbizzante: il
mobbing genitoriale non viene punito che molto raramente. Il che
implica però un dato molto significativo: il Diritto e la Giustizia,
dopo aver voluto “occupare” la famiglia con le proprie regole e le
proprie figure (giudici, consulenti, assistenti sociali, ecc.), non
riescono a gestire un’“isola” così lontana dalla propria realtà, e
riescono solo a creare contesti che tendono ad implodere con
regole e modalità tutte paradossali.
Una delle chiavi operative più importanti della transazione
mobbizzante nei sistemi para-familiari che germinano in seguito
all’immersione di una coppia in separazione nella conflittualità
giudiziaria, è infatti l’uso della Giustizia per impedire alla Giustizia
di gestire la famiglia.
Da questo punto di vista, è infatti abbastanza interessante
notare come una delle tattiche più frequenti di mobbizzazione è
proprio il ricorso fraudolento, o comunque eminentemente
vendicativo e ritorsivo, quando non calunnioso,allo strumento
giudiziario -potendosi arrivare a quello che è stato con efficacia
definito “stalking giudiziario”- il quale paralizza o devia del tutto
l’esecuzione dei dispositivi giudiziari già espressi dal Tribunale.
Il c.d. “stalking giudiziario” appare dunque essere una strategia
assolutamente perversamente paradossale, e, da questo punto di
vista, quasi una rilettura “diabolica” di alcune strategie terapeutiche
fondate sul paradosso di esasperare il sintomo anziché
contrapporcisi.
2.10. Il Mobbing genitoriale e la Giustizia Italiana
[torna
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su]
avv. Massimiliano Fiorin
Nonostante la frequenza con la quale si riscontrano casi del
genere, la giurisprudenza italiana si è finora mostrata indisponibile a
riconoscere l’applicabilità del concetto di mobbing all’ambito dei
rapporti familiari e genitoriali.
Gli unici precedenti che si conoscono, infatti, riguardano casi
in cui la condotta mobbizzante è comunque stata perpetrata
nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente, in situazioni
particolari nelle quali è stato ritenuto ravvisabile anche un rapporto
di tipo para-familiare tra le parti.
In questi casi, si è astrattamente ritenuto configurabile il reato
di maltrattamenti in famiglia, anche se il più delle volte la Corte di
Cassazione ha annullato le condanne comminate dai giudici di
merito (v. al riguardo Cass., Sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685; 6
febbraio 2009, n. 26594; 25 novembre 2010, n. 44803, e più di
recente Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2011 n. 43100 e 11 aprile 2012, n.
16094).
Queste sentenze della Suprema Corte hanno precisato che le
pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente, e
finalizzate alla sua emarginazione, possono integrare il delitto di
maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto con il
datore di lavoro assuma, per l’appunto, natura para-familiare, in
quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da
consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei
confronti dell’altra, e dalla fiducia riposta dal soggetto più debole
del rapporto verso colui che ricopre la posizione di supremazia.
E’ evidente che si tratta di una elaborazione giurisprudenziale
tesa a rafforzare la tutela dei lavoratori dipendenti in caso di
mobbing lavorativo, dal momento che in Italia manca tuttora una
legislazione specifica al riguardo.
Tuttavia, quando si tratta di una persecuzione limitata
all’ambito familiare, e ancor più genitoriale, senza rapporti di
subordinazione lavorativa, la giurisprudenza continua a non
riconoscere il fenomeno del mobbing in quanto tale. Ciò avviene
probabilmente in quanto si è finora ritenuto necessario, per
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tipizzare il fenomeno, che sussistano strutture di gruppo di tipo
aziendale che si coalizzano contro il soggetto mobbizzato (v. al
riguardo gli studi di Harald Ege: Mobbing: che cos’è il terrorismo
psicologico sul posto di lavoro. Pitagora Ed., Bologna, 1996; Il Mobbing
in Italia. Pitagora Ed., Bologna, 1997; l’autore per l’appunto è solito
dare questa spiegazione, per l’esclusione dell’applicabilità del
concetto al di fuori dei contesti di lavoro).
Tant’è che l’unico precedente giurisprudenziale italiano dove si
parla espressamente di mobbing nei rapporti familiari è una sentenza
della Corte d’Appello di Torino (21 febbraio 2000, pubblicata in
Foro Italiano, 2000, I, 1555, con nota di De Angelis e in Famiglia e
diritto, 2000, 475 con nota di Delconte), dove comunque non sono
stati disposti risarcimenti pecuniari.
In quel caso, il marito era stato ritenuto meritevole
dell’addebito della separazione – senza altri provvedimenti – in
quanto sarebbe stato solito assumere in pubblico atteggiamenti
qualificati di mobbing nei confronti della moglie, dal momento che la
ingiuriava e denigrava di continuo, offendendola sul piano estetico,
svalutandola come moglie e come madre.
Per il resto, la casistica ormai ampia di sentenze della
magistratura in cui si è ritenuto sussistente il cosiddetto danno
endofamiliare, cioè un comportamento lesivo dei diritti della
personalità di un coniuge, convivente o figlio, al punto di
pronunciare una condanna al risarcimento dei danni, riguarda
sempre situazioni ben diverse da quelle di mobbing genitoriale in
quanto tale.
Si tratta infatti di casi in cui la violazione verso la prole è
consistita nell’averle fatto mancare l’assistenza materiale e morale.
Cioè, casi in cui uno dei genitori (sempre il padre, in tutti i
precedenti pubblicati) è venuto meno a quel diritto-dovere di cura e
di educazione, che pure è ritenuto unanimemente come rientrante
tra diritti fondamentali della persona umana, collocati al vertice
della gerarchia dei diritti costituzionalmente garantiti. A volte sono
stati disposti pesanti risarcimenti pecuniari anche per avere rifiutato
il riconoscimento di paternità di un figlio naturale molti anni
addietro, indipendentemente dalla fondatezza dei dubbi.
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Questo tipo di violazioni devono essere risarcite, anche
secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, quali lesioni in sé,
indipendentemente dai loro profili patrimoniali, non come danno
morale, ma come «danno esistenziale» (al proposito citiamo la
prima storica sentenza di questo tipo: Cass., 7 giugno 2000, n. 7713,
pubblicata in Famiglia e Diritto, 2001, p. 159, con nota di Dogliotti,
alla quale hanno fatto seguito numerose altre pronunce, nonostante
che, più di recente, le Sezioni Unite della stessa Cassazione abbiano
ridotto la casistica dei diritti costituzionalmente tutelati nella quale
il cosiddetto danno esistenziale può essere ravvisato).
In altri casi, la violazione dei diritti “esistenziali” del coniuge e
del convivente è stata ravvisata per gravi violazioni della sua
dignità, in casi estremi di adulterio sfacciato o di umiliazioni
pubbliche, o anche in situazioni di protratto abbandono, e di rifiuto
plateale di corrispondere i mezzi di assistenza materiale e morale.
Mai, tuttavia, fino a oggi la giurisprudenza italiana ha ritenuto
sussistente un danno alla persona dell’altro genitore, derivante da
condotte ostative al mantenimento dei normali rapporti con i
propri figli, prima o dopo l’evento della separazione.
Per sensibilizzare la magistratura sul problema, il legislatore che
con la legge 8 febbraio 2006, n. 54 ha introdotto l’affidamento
condiviso, ha pure aggiunto al codice di procedura civile l’art. 709
ter, in virtù del quale “in caso di gravi inadempienze o di atti che
comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto
svolgimento delle modalità dell’affidamento”, il giudice della
separazione può adottare provvedimenti anche risarcitori, a favore
del figlio o anche del genitore leso.
La giurisprudenza di merito, tuttavia, finora ha applicato con
estrema parsimonia il nuovo strumento, che oltretutto è limitato dal
fatto di essere applicabile solo nei casi in cui esiste una violazione
di provvedimenti giudiziari preesistenti, e non in tutte le ipotesi di
mobbing.
Le prime applicazioni giurisprudenziali del nuovo art. 709 ter
hanno espressamente precisato che per l’adozione di misure
risarcitorie devono sussistere i presupposti tipici delle stesse, e cioè
la sussistenza di un concreto pregiudizio, e il nesso di causalità tra
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la condotta illecita e il pregiudizio stesso. Vale a dire che il genitore
che si ritiene leso dalla condotta mobbizzante dell’affidatario dei
figli potrà sperare in un risarcimento soltanto nel caso –
estremamente arduo, nella pratica – in cui riesca a provare un danno
materiale, o un danno permanente alla salute, che vada oltre le
semplici sofferenze e le umiliazioni, per quanto acute, che le
condotte ostative arrecano al suo equilibrio.
Diversamente, un determinato comportamento lesivo del
genitore affidatario potrà essere sanzionato dal giudice solo
attraverso i rimedi dell’ammonizione e della sanzione pecuniaria,
che pure risultano applicate dai giudici con grandissima parsimonia.
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3.
LE
CARATTERISTICHE
GENITORIALE
DEL
MOBBING
3.1.Definizione di mobbing genitoriale [torna su]
Il “mobbing genitoriale” consta dell’adozione da parte di un
genitore, separato o in via di separazione, di comportamenti
preordinati o comunque finalizzati ad estromettere l’altro genitore
dalla vita dei figli, impedendogli l’esercizio della genitorialità.
Quando gli atti mobbizzanti tendono a diventare una catena
ininterrotta e ricorsiva di azioni mobbizzanti, il più delle volte
reciproche, e si determina un clima conflittuale continuo e privo di
possibili soluzioni, parliamo di un sistema a transazione
mobbizzante.
Come espresso precedentemente, questo sistema è un gruppo
-meglio: un insieme, per quanto a nostro avviso andrebbe più
logicamente configurato come un “insieme di insiemi” – un sistema
familiare, dicevamo, cui la scissione in due nuclei, e la conflittualità
genitoriale agita a livello giudiziario, hanno dato caratteristiche
peculiari.
Per meglio descrivere queste caratteristiche, abbiamo optato
per la creazione di nuove terminologie, che rendano atto delle
mutate caratteristiche di queste famiglie e delle relazioni e tensioni
in atto.
Abbiamo così chiamato il nuovo “gruppo” familiare “Insieme
Bi-Genitoriale da Separazione”, e lo abbiamo disegnato come un
sistema figuratamente “a più poli” in attrazione paradossale tra loro,
con i due poli cioè in continua tensione fra loro perché uniti da ciò
che li divide e divisi da ciò che li unisce, cioè la prole (meglio:
l’accudimento della prole) e la necessità di garantirsela
estromettendone gli intrusi.
Tale estromissione avverrà attraverso “set” comportamentali
(molti dei quali agiti con la partecipazione di terze figure) tesi alla
distruzione di due aspetti fondamentali della genitorialità.
Noi li disegneremo qui separati e scomposti, ma è ovvio che,
essendo relativi a comportamenti e comunque a una dimensione (o
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transazione) mobbizzante, sono quanto mai commisti e fusi fra
loro al momento del loro esprimersi. Quelli dunque che qui
descriveremo cone due “aspetti” della transazione, sono in realtà
tendenze e, soprattutto, finalità.
I due aspetti di cui si compone la transazione mobbizzante
sono dunque tesi a colpire:
1) l’affettività che lega figlio e il genitore, cioè il legame tra il
primo e il secondo; in genere, l’azione è volta a distruggere stima e
affetti che il piccolo nutre verso l’altro;
2) la possibilità dell’altro genitore di esprimere in famiglia, ma
anche socialmente e legalmente, il proprio ruolo genitoriale.
In altre parole, il genitore mobbizzante mira a far scomparire
l’altro genitore dalla vita e dagli affetti del figlio, e da tutto ciò che
ne sia l’espressione e la legittimazione sociale, culturale, legale.
3.2. Le aree target della mobbizzazione e le tattiche per
portarla avanti [torna su]
Come abbiamo detto, il genitore mobbizzante persegue la
distruzione di due aspetti della genitorialità:
– di ciò che lega il bambino all’altro genitore, vale a dire del
legame affettivo che vi è fra genitore e figlio;
– di ciò che è l’espressione sociale, culturale, legale di questo
legame.
Per ottenere ciò, il genitore mobbizzante ricorre a tattiche
precise, più o meno consapevolizzate come tali.
Tali tattiche mirano a distruggere la relazione tra il genitore
mobbizzato e suo figlio, intervenendo a due livelli: ostacolo alle
frequentazioni, e svilimento dell’altro genitore agli occhi del figlio:
A) Tattiche di ostacolo rivolte contro l’esprimersi del legame,
cioè contro la possibilità di viverlo concretamente, e che
chiameremo “tattiche di ostacolo e distruzione del legame genitore-figli”.
Con l’utilizzo di queste tattiche, la figura dell’altro genitore può
essere sabotata e mobbizzata a due livelli:
– tentando di ostacolare e distruggere le frequentazioni e le
comunicazioni genitore-figli ;
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– tentando di ostacolare e distruggere l’esprimersi sociale e
legale della genitorialità
B) Tattiche di distruzione della validità della figura genitoriale:
l’altro genitore viene svilito direttamente o indirettamente e fatto
oggetto di commenti e connotazioni mirate a farle perdere valore e
importanza agli occhi del figlio.
3.2.1. Le tattiche di ostacolo e distruzione del legame
genitore-figlio
3.2.1.1. Gli ostacoli alle frequentazioni e alle
comunicazioni [torna su]
Gli ostacoli posti alle frequentazioni e alle comunicazioni
possono essere i più vari e articolati.
Dal momento che il fine del genitore mobbizzante è, in questi
casi, l’alterazione, la sospensione, l’interruzione sia di singoli
incontri, sia di tutti gli incontri fra il minore e l’altro genitore, sia di
un set particolare o specifico di incontri (ad esempio, tutti quelli del
“martedì”, ovvero quelli dei mesi estivi, oppure un singolo e
specifico giorno, nel quale il genitore collocatario o affidatario non
gradisce i contatti con l’altro) si assiste in questi casi all’utilizzo di
un ventaglio estremamente ampio di modalità volte a garantire al
genitore mobbizzante l’assenza di contatti tra il minore e il genitore
mobbizzato.
Si va dunque dall’utilizzo di scuse, a volte anche banali, che
impediscano al bambino di uscire, a motivazioni abbastanza
articolate e che prevedono l’utilizzo di documentazione di
supporto, come ad esempio un certificato medico che attesti la
malattia del minore (anche se, al riguardo, bisognerebbe considerare
come la riferita patologia che impedisce al bambino di incontrare il
genitore, dovrebbe esser tale da rendere il piccolo non trasportabile
al di fuori di casa, e come potrebbe essere invece da discutere
l’ipotesi che, essendo l’abitazione ove vive non solo il domicilio del
genitore, ma anche anche il suo, il genitore impossibilitato a vederlo
fuori di casa potrebbe avere diritto di incontrare il piccolo
-impossibilitato ad uscire – entrando nel suo domicilio, domicilio
che non può essere considerato in assoluto solo ed esclusivamente
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del genitore collocatario o affidatario: se si pensa poi a casi terribili
di piccoli affetti da patologie serie e invalidanti, tale problema
acquista una sua drammatica importanza).
Le modalità per impedire gli incontri tra il proprio figlio
dell’altro genitore si allargano in diversi casi ad una intera serie di
frequentazioni, e abbiamo così le evenienze nelle quali, ad esempio,
il bambino si trova puntualmente impegnato tutti i giorni in cui
deve incontrare il genitore non convivente o non affidatario. Nella
maggior parte dei casi abbiamo l’utilizzo di motivazioni legate ad
impegni extrascolastici e sociali del minore, che sono anche quelle
che permettono più difficilmente di essere definiti e dimostrati
come “mobbizzanti”: iscrizioni a palestre, a pratiche sportive
(classico quello a sport magari invisi al bambino ma praticati in
giorni strategici nella per la mobbizzazione degli incontri con
l’altro), corsi di qualunque tipo ma anche frequentazioni di
amichetti, feste, parenti (sempre di una sola area familiare) e via di
seguito.
In definitiva è impossibile trattare in modo adeguato un elenco
di modalità utilizzate per impedire gli incontri tra un genitore ed il
proprio figlio: e proprio tale impossibilità è -alla fine- una delle
dimostrazioni di quanto il terreno del mobbing genitoriale sia un
terreno nel quale l’indefinibilità e la non falsificabilità delle prassi
mobbizzanti siano una parte determinante del fenomeno e
dimostrino che quello del mobbing genitoriale è un contesto
comunque a somma diversa da zero.
Vi sono due aspetti molto grave di questi impedimenti alle
frequentazioni con l’altro genitore, e sono nella svalutazione che sia
l’altro genitore, sia il bambino subiscono.
La svalutazione in cui incorre il genitore è evidente:
frequentarlo ha meno senso che andare in palestra o fare tennis.
A questo si deve aggiungere che la pratica sportiva o
l’occasione sociale utilizzata per impedire gli incontri, raramente è
quella che realmente il minore ama: in molti casi, infatti, si tratta di
altri sport, scelti solo per occupare strategicamente i giorni delle
frequentazioni. Questo implica un grave aspetto svalutativo e
mistificatorio dei desideri del bambino, che non solo si vede privato
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di un genitore e dell’importanza che va data all’esprimersi del
legame con lui, ma che viene mistificato anche nei suoi
orientamenti personali, ritenuti inesistenti ed ininfluenti.
Discorsi simili si possono poi fare per tutte le scusanti scelte
per impedire gli incontri genitore-figlio: il mondo del bambino
mobbizzato è un mondo di segnali, valori, apprezzamenti, tutti
distorti.
Accanto poi agli episodi di tipico ostacolo alle frequentazioni,
vi sono quelli nei quali al genitore è consentito incontrare il
bambino, ma in ambienti degradanti o in presenza di persone che
ne svalutino la presenza o il significato. Appartengono a questo
genere di mobbizzazioni (che si collocano a cavallo tra le modalità
ostative e quelle svalutative), il consentire gli incontri solo in
presenza di persone che in quel contesto sminuiscono
l’autorevolezza e l’importanza del genitore in quanto tale: una “baby
sitter” che deve controllare che l’altro o l’altra si “comporti
adeguatamente”, il padre di un altro bambino che assume la
responsabilità dell’incontro, il nuovo partner addirittura che deve
vigilare che “non accada nulla” al piccolo in presenza del non
affidatario o non collocatario.
A questa categoria di ostacoli appartiene la richiesta di
“incontri protetti” presso i Servizi Sociali” di zona, allorché la
richiesta, totalmente immotivata, è finalizzata appunto a dimostrare
al piccolo la pericolosità del padre o della madre cui è mirata la
“protezione”.
Nel
P.M.I.
–
Parental
Mobbing
Inventory
– griglia degli indicatori di contesto (individuato da Dimitri e
Giordano nel marzo 2006, descritto al Convegno AILAS del 2006 e
pubblicato nel 2007), sono indicati quali segnali di mobbizzazione
relativi al sabotaggio degli incontri, i seguenti punti:
– Il figlio non viene consegnato all’altro genitore con scuse
banali, senza spiegazioni o mentendo sullo stato di salute del
minore: è ammalato, è andato da un amichetto e non vuol venire, si
trova da un parente del genitore, non vuole scendere, deve andare
da altri;
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– Il genitore affidatario assume per il figlio impegni
extrascolastici, altri svaghi o momenti di vacanza in coincidenza
con i periodi di frequentazione con l’altro genitore;
– Uno dei genitori deve incontrare il figlio in situazioni
degradanti o umilianti alla presenza di parenti dell’altro genitore o
di persone illecitamente incaricate di sorvegliarlo, o in un clima di
tensione.
– Uno dei genitori impedisce che i figli passino dei periodi di
vacanza con l’altro genitore, con le scuse più svariate: ha prenotato
prima quel periodo, non è giusto che lui rimanga a lungo senza il
bambino, quel particolare luogo implica meno spese ma è
disponibile solo in quel periodo, e via di seguito;
– Uno dei genitori impedisce che i figli dorma o frequenti
l’abitazione dell’altro genitore;
– Uno dei genitori si attiene rigidamente alle disposizioni
giudiziarie anche in occasioni emotivamente significative come in
caso di malattia, comunioni, feste di compleanno, ecc.
– Vi è Relocation (“blitzkrieg”):Uno dei genitori trasferisce il
bambino, senza alcun accordo con l’altro, e senza che venga decise
misure sostitutive per le frequentazioni, in una città o in una
nazione dove gli incontri con l’altro sono difficoltosi o impossibili;
– Il genitore affidatario non accetta alcuna proposta di modifica
del regime di frequentazione finalizzata a garantire il per stere di
adeguati contatti con i figli. Il genitore non affidatario è costretto a
ricorrere al giudizio della Corte competente con un aggravio di
tempi, costi e stress;
– Uno dei genitori, forte della convivenza con il figlio, tende ad
impedire all’altro di continuare a poter esercitare un ruolo
decisionale importante nella vita del figlio.
– Ad un genitore viene impedito -quando sarebbe legittimo- di
incontrare il/i figlio/figli in contesti extrafamiliari ingiungendo ad
insegnanti, bidelli, baby-sitter, familiari di non farlo avvicinare al/ai
figlio/i;
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– Un genitore impedisce all’altro di contattare telefonicamente
il figlio, e/o di parlargli con discrezione e tranquillità, senza
interferenze;
– Il genitore affidatario di sua iniziativa e senza adeguato
preavviso sposta le date dei periodi (pomeriggi infrasettimanali,
week-end, vacanze pasquali, estive, invernali, ecc.) spettanti al
genitore non affidatario;
– Il genitore affidatario ostacola le modalità di incontro e
l’impiego del tempo destinato al piccolo collocando il bambino
lontano dal domicilio ove il genitore non affidatario è tenuto a
prenderlo, allontanato da scuola e/o facendolo uscire prima del
tempo per impedire al altro genitore di prenderlo.
Come in molti altri aspetti del mobbing genitoriale, il vero
“punto mobbizzante”, non è invero nell’evento in sé, ma nel
contesto conflittivo che lo precede e, soprattutto, che lo segue.
In questi casi, infatti, è molto semplice per il genitore
mobbizzante invocare spiegazioni, motivi, cause di forza maggiore
e, soprattutto, spiegazioni che garantiscono come quelle prese siano
tutte decisioni che hanno come obiettivo l’interesse del minore: in
realtà ogni tentativo di recuperare gli incontri persi, di modificare le
occasioni di incontro con il bambino in modo che l’altro genitore
non perda i contatti, si rivelano sempre inutili.
Come in tanti altri momenti e aspetti del mobbing genitoriale,
in ostacoli alla frequentazione di questo tipo, sono presenti più
momenti destabilizzanti, in un sinergismo distruttivo fra vari aspetti
della situazione.
Oltre alla impossibilità a incontrare il minore, infatti, che già di
per sé crea enorme tensione nell’altro genitore, vi è la valenza
mistificatoria delle spiegazioni adottate dal genitore mobbizzante, il
quale rivendica sempre e comunque di operare nell’interesse del
minore.
Obiettando poi, spesso o sempre, che in realtà solo la malafede
o la protervia del genitore mobbizzato (in questi casi indicato come
colui che non intende “rinunciare a niente” pur di far valere i propri
diritti), impedisce al bambino di star veramente bene anche se
incontra meno l’altro genitore. Effettivamente, la valenza distruttiva
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di questa situazione non è nel fatto in sé, e nemmeno nella
spiegazione che ne dà il genitore mobbizzante (può benissimo
essere che un minore si diverta di più se rimane a giocare con
l’amichetto invece di andare con il padre o la madre), ma nella
assenza di accordo con l’altro, e nella dimensione ostativa e
svalutativa che l’evento assumerà in tutto il contesto (il che, ad
esempio, emergerà solo nel momento in cui l’altro non potrà
recuperare o modificare alcunché degli incontri persi).
Una simile situazione, portata nell’unica sede ove possa trovare
un ascolto e una ipotesi di gestione, vale a dire un’aula di giustizia,
diventa ancora più esplosiva se pensiamo ai tempi del conflitto
giudiziario, alle possibilità che quel genitore avrà di dimostrare le
sue “verità”, ai modi e ai consti con cui riuscirà a farlo, alle
soluzioni che il Giudice gli darà.
Se si pensa poi che le stesse problematiche, sensibilmente e
gravemente molto più esasperate, si hanno in quelle terribili
esperienze che sono le c.d. “false accuse”, si può intuire come il
“mobbing genitoriale” sia in definitiva un grilletto sempre pronto a
scattare nel nostro contesto sociale.
3.2.1.2. Le tattiche di distruzione dell’espressione sociale e
legale della figura genitoriale [torna su]
La distruzione dell’espressione sociale e legale della
genitorialità avviene attraverso tattiche di ostacolo e denigrazione
sociale, e, soprattutto, di utilizzo fraudolento, e sostanzialmente
calunnioso, delle tattiche giudiziarie.
Ciò premesso, ecco cosa può dirsi circa tali tattiche
mobbizzanti.
Sostanzialmente, se ne distinguono due tipi:
– extra-giudiziarie;
– giudiziarie.
3.2.1.2.1. Le tattiche extra-giudiziarie [torna su]
Per quanto attiene alle tattiche extra-giudiziarie, va detto che
constano di tutte quelle prassi che limitano l’esercizio sociale della
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genitorialità. Si tratta di strategie che si focalizzano ed emergono
nei contesti di socializzazione del minore, nei quali sono o possono
essere coinvolti i suoi genitori.
Di norma, le mobbizzazioni di questo tipo si manifestano
dunque principalmente nella scuola e nei contesti extra-scolastici
ove si svolgono attività di rilievo, soprattutto quelle che per il
minore hanno una certa importanza: parliamo dunque di palestre,
piscine, squadre sportive, o anche la parrocchia.
Al genitore mobbizzato viene così impedito, con tattiche e
strategie di vario tipo, di occuparsi della scuola e dell’educazione del
figlio attraverso una denigrazione sociale che può prevedere diverse
modalità.
Una tattica abbastanza seguita, ad esempio, è il convincere
insegnanti e dirigenti scolastici che l’altro genitore è persona
inaffidabile e pericolosa, e che per tale motivo non deve avere
contatti con il bambino né ricevere informazioni al riguardo.
Vi sono dunque genitori che, causa queste forme di
mobbizzazione apprendono solo all’ultimo mese di scuola che i figli
non frequentano da tempo la classe, che sono assenti o gravemente
carenti nel rendimento, o che hanno cambiato scuola. Sono tutti
genitori a cui, sino a quel momento, sono state negate notizie
relative ai propri figli, e a cui insegnanti e docenti hanno nascosto le
informazioni (convinte che vi era un solo genitore con la patria
potestà, ad esempio, e che solo a questi potessero essere date
informazioni).
Situazioni del genere possono anche sfociare in momenti di
tensione fra insegnanti e genitori mobbizzati, o anche a richieste di
intervento dell’A.G., interpellata per far sì che gli insegnanti
relazionino a entrambi i genitori sul rendimento scolastico dei figli.
Altri meccanismi di delegittimazione sociale si possono poi
avere in altri ambienti frequentati dal minore e, ovviamente, le
strategie mobbizzanti si modificano relativamente di poco, perché
l’obiettivo è sempre quello, a prescindere dal contesto ove avviene
la mobbizzazione, di impedire al genitore di occuparsi del figlio in
uno specifico contesto sociale frequentato dal minore.
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Abbiamo così istruttori di nuoto o allenatori di calcio convinti
dal padre o dalla madre di turno che l’altro genitore è persona
inaffidabile e pericolosa per il bambino, e a volte anche per i suoi
amichetti (nella nostra esperienza c’è anche la madre che convinse
un allenatore di calcio a “n lasciare solo mio figlio nello spogliatoio
con il padre”, facendo presente che le stesse cautele era meglio
adottarle -il messaggio implicito era che vi fossero rischi di abuso-
anche verso gli altri bambini. Vi sono anche casi di genitori che, in
occasione della Prima Comunione del bambino hanno tentato di
convincere il parroco a non far partecipare l’altro genitore alla
preparazione del bambino, così come ce ne sono stati altri che
hanno cercato di spacciare il nuovo convivente della la madre per il
padre del neonato da battezzare. Quel che si èuò dunque annotare è
che anche nel mobbing genitoriale, come in altri tipi di mobbing, il
vero limite alle prassi mobbizzanti è nella fantasia dei mobbizzatori.
3.2.1.2.2. Le tattiche giudiziarie [torna su]
Per quanto riguarda le tattiche che utilizzano lo strumento
giudiziario, si può intanto dire che possono utilizzare profili
civilistici, o penalistici. Alcuni, poi, definiscono “stalking
giudiziario” -termine cui abbiamo accennato poc’anzi- un
particolare comportamento tenuto da un ex coniuge nei confronti
dell’altro: tale comportamento è basato sulla produzione di una
smisurata quantità di atti giudiziari, che vanno dalla querela al
procedimento civile di ogni tipo. Com’è comprensibile, lo “stalking
giudiziario” ha lo scopo di far vivere l’altro in un perenne clima di
apprensione e timore e in costante aggravio economico. Non è
affatto infrequente incontrare persone che, vittime di un
trattamento del genere (che molto raramente viene sanzionato),
hanno sviluppato un vero e proprio Disturbo Post Traumatico da
Stress, che li porta a vere e proprie crisi di angoscia all’idea di
essere di nuovo oggetti di una azione giudiziaria o, anche, al
cospetto di un qualsivoglia “segnacontesto” che ricordi loro il mondo
degli atti giudiziari, delle udienze in Tribunale, degli appuntamenti
con l’avvocato. Nell’esperienza di chi scrive esistono soggetti che
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-dopo anni e anni- ancora tremano all’idea di dover andare a ritirare
alla Posta una Raccomandata inevasa.
3.2.1.2.2.1. – La mobbizzazione attraverso l’utilizzo di
profili civilistici. [torna su]
La mobbizzazione attraverso l’uso fraudolento e calunnioso di
profili civilistici avviene di solito attraverso richieste ex legge 4
aprile 2001, numero 154 con i suoi meccanismi di tutela dagli abusi
familiari, delle quali parleremo oltre, e le richieste di sospensione o
decadenza della potestà genitoriale (rispettivamente art. 333 e 330
del Codice Civile).
Secondo una notazione da ricerca empirica, le richieste ex 330 e
333 C.C. sono al momento meno utilizzate di quanto non lo fossero
cinque o dieci anni fa. A nostro avviso, questo ridotto utilizzo
dipende dal fatto che al momento le procedure ablative o
sospensive della potestà genitoriale sembrano superate dall’utilizzo
di nuove metodiche, che garantiscono un effetto più immediato
(come, ad esempio, le false accuse di abuso sessuale). I tempi per
ottenere un pronunciamento ablativo o sospensivo della potestà
genitoriale sono in effetti lunghi e, come vedremo, abbisognano di
tempi lunghi ed in genere di procedure specifiche (ad es., la CTU), e
il relativo pronunciamento può arrivare dopo un paio di anni, salvo
casi conclamati e dimostrati di pericoli per il minore. Per quanto
riguarda la possibilità di utilizzo calunnioso o in malafede, o anche
esasperatamente persecutorio, di tali percorsi, è necessario dire che
i percorsi ablativi e sospensivi della potestà genitoriale sembrano
implicare -paradossalmente- la necessità di contributi di prova più
solidi di quelli necessari -invece- a far sì che le richieste di tutela in
caso di abusi sessuali, ma anche di violenza domestica, abbiano
l’efficacia per i quali sono utilizzati in corso di mobbing genitoriale.
Il punto fondamentale del discorso, infatti, è che al genitore
mobbizzante -spinto da attitudine calunniosa, da spunti
interpretativi paranoidei, da consapevolezze borderline tra i due
precedenti punti- interessa sostanzialmente l’allontanamento del
figlio dall’altro genitore. Con i procedimenti relativi ai sospetti
abusi sessuali, o anche ex legge sulla violenza in famiglia, tali
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provvedimenti sono immediati. Viene infatti sempre privilegiata la
tutela del minore, che viene realizzato con una certa celerità,
mentre l’accertamento dei fatti è -nei fatti- sempre successivo alle
disposizioni di tutela. Nei procedimenti ex articoli 330 e 333,
invece, l’eventuale allontanamento dell’altro genitore dalla vita del
figlio segue sempre di un congruo numero di mesi o anni la
richiesta, e, come detto, abbisogna di procedure comunque non
immediate (CTU, intervento dei Servizi Sociali e monitoraggio,
ecc.).
Chiaro dunque il perché il genitore mobbizzante prediliga
adesso altri percorsi giudiziari rispetto a quelli inerenti la potestà
genitoriale: per quei paradossi tipici della applicazione del Diritto
alle problematiche dei conflitti genitoriali quello che emerge a tutela
del minore diventa poi (nella logica algebrica e a “tutto o niente”
del Diritto applicata al mondo delle relazioni) uno strumento
distruttivo, fatto che nella prassi del Diritto Minorile e Familiare
accade molto spesso. I percorsi di sospensione e ablazione della
potestà genitoriale possono essere -per chi vuole eliminare un
genitore dalla vita di un figlio- molto meno rapidi ed efficaci
(nonché più complicati e dispendiosi) di quelli relativi a denunce
per abuso e violenze domestiche, che, se attivati in modi
efficacemente calunniosi, permettono con facilità l’immediata
eliminazione di un genitore dalla vita di un figlio.
Vediamo ora su cosa si basano, in genere, le richieste di
applicazione dell’art. 330 e dell’art. 333.
Usualmente, si fondano sull’attribuzione all’ex coniuge di
pretesi stati di abbandono, incurie, maltrattamenti e abusi (fisici ma
anche emozionali), rispetto alla prole, e possono essere relativi
anche a procedimenti già pendenti in campo penale o civile (specie
per quanto riguarda abusi di tipo sessuale o per violenze in
famiglia). L’altro genitore viene descritto dunque come violento e
prevaricatore, ovvero trascurante o, anche, teso a strumentalizzare e
“alienare” i figli nella lotta contro l’altro, coinvolgendolo in modo
“lesivo” all’interno della conflittualità genitoriale.
Proprio da questo punto di vista vi è qui, a nostro avviso, un
aspetto che facilmente diventa paradossale, e che, in tal caso,
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emerge dalla logica tipicamente contrappositiva e antagonistica del
Diritto.
Non è infrequente, infatti, che un genitore chieda la decadenza
o la sospensione della potestà genitoriale dell’altro accusandolo di
strumentalizzare i figli nel conflitto coniugale, o di esporli allo
stesso in termini abusanti, ovviamente al fine di vincere la propria
battaglia contro l’altro.
In realtà, a ben vedere la richiesta in sé realizza esattamente ciò
che pone alla base di sé stessa, quale come motivo della propria
applicazione, vale a dire la distruttività che un genitore esercita sul
minore coinvolgendolo nel conflitto genitoriale.
Una richiesta di sospensione (o decadenza) della potestà
genitoriale, infatti, è di per sé un modo con cui un genitore
coinvolge i figli nel conflitto contro l’altro, per poter eliminare
l’altro dalla vita dei figli; un tale tipo di procedimento, poi, espone
comunque i minori al trauma del procedimento giudiziario e –di
più- li espone al trauma della perdita di un genitore.
Sicuramente non si è in presenza di un abuso per violenza
assistita, ma la valenza traumatica che può avere per i minori il
partecipare alle fasi del giudizio, alla CTU, e via di seguito, non è
molto minore di quella posseduta dall’assistere a conflitti domestici.
Rispetto ai procedimenti che discendono da procedure relative
a profili penali, la richiesta di decadenza o quella di sospensione
della potestà genitoriale rivolta ex novo al Tribunale dei Minori,
implica più facilmente descrizioni variegate e spesso anche
pittoresche di inadeguatezze genitoriali, che possono essere più o
meno esagerate per ottenere credito.
Come detto precedentemente, le inadempienze che possono
essere tratteggiate sono molte, e in molti casi, sempre a nostro
avviso, non giustificano in realtà una richiesta così grave come la
sospensione o la decadenza della potestà genitoriale. Andiamo
dunque, come detto, dal genitore violento e possessivo, che tenta di
strumentalizzare i figli contro l’altro, che non rispetta mai le
statuizioni del giudice e, a dire dell’altro, li riporta e li riprende
seguendo sempre i propri voleri, al genitore assente o noncurante,
che anche se li prende con sé li lascia a parenti o genitori per fare i
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fatti propri, a quello che li coinvolge troppo facilmente nelle sue
nuove relazioni affettive, all’ipocondriaco che esagera con cure e
preoccupazioni, al soggetto che usa sostanze stupefacenti e non si
perita di esibirsi nel loro uso anche in presenza dei minori, ovvero
che li trascura per indulgere al relativo consumo.
Uno dei primi interrogativi che sorgono scorrendo le
argomentazioni che motivano tali richieste, è il fatto che tanti
terribili difetti emergono solo dopo anni di convivenza.
Il dato dovrebbe avere una sua importanza anamnestica, perché
di per sé potrebbe essere indicativo della personalità del genitore
che pone la richiesta di decadenza, ma di norma viene
completamente trascurato.
L’altro dato che colpisce -in genere- in casi come questi esposti,
è che di per sé non sembrano quasi mai giustificare una vera e
propria interruzione dei rapporti figli-genitori, ma piuttosto un
intervento clinico e psicoterapico volto a stimolare cambiamenti
positivi nei rapporti tra il genitore contestato ed i figli. In altri casi,
sembra abbastanza evidente che le descrizioni rese del genitore di
cui si chiede l’interruzione, o non sono veritiere, o sono in larga
parte frutto della conflittualità genitoriale.
Da questo punto di vista si può sostenere che questo tipo di
prassi, in molti casi almeno, sembra comprovare come l’ingresso del
Diritto nella gestione della conflittualità genitoriale sia funzionale
non solo (o non tanto) alla reale tutela del minore (il quale, ben che
vada, viene comunque esposto ad un evento traumatico), quanto,
soprattutto, alla affermazione del Diritto a gestire le relazioni
familiari.
A nostro avviso si tratta qui di un aspetto lesivo delle relazioni
familiari presente nella prassi giudiziaria, la quale -in realtà-
diverrebbe molto meno intrusiva e traumatizzante se fosse
preceduta da un intervento psicodiagnostico e psicoterapico
adeguato e concretamente posto in essere e volto ad appurare
quanto di vero, e quanto di definitivo e non trasformabile c’è nelle
descrizioni che i coniugi danno l’uno dell’altro.
Questo rapporto tra Diritto e assenza di interventi terapeutici
volti a trasformare i contesti critici in contesti adeguati crea è una
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caratteristica del sistema sociogiudiziario quando si occupa delle
conflittualità genitoriali e definisce in realtà quanto tale materia sia,
nella nostra cultura, percepita come territorio di confine: ledere la
stabilità psicofisica di un minore è un evento di cui debba occuparsi
la Giustizia o la Scienza. La risposta potrebbe essere limitata a
individuare una di queste alternative, ovvero andare ad individuare
un tertium non datur: perché non abbiamo rimedi giuridico-
terapeutici in grado di gestire queste conflittualità.
Un’altra modalità di mobbizzazione attraverso profili civilistici
è l’utilizzo fraudolente delle norme previste dalla legge 4 aprile
2001, numero 154, che ha introdotto misure di protezione contro
gli abusi familiari, e che cagionino grave pregiudizio all’integrità
fisica o morale o alla libertà della persona.
Bisogna qui ricordare che le previsioni di cui a questa legge,
sono di fatto identiche a quelle che sono previste dal 282 bis del
Codice di Procedura Penale. Il legislatore, rispondendo infatti ad
una sentita esigenza del momento culturale che viviamo, quella di
contrastare fermamente la violenza domestica (un contrastare che
però, a nostro avviso, può anche nutrirsi di pericolosi stereotipi,
come vedremo) ha pensato bene di creare un doppio binario di
tutela -civilistico e penalistico- cui si può ricorrere dunque sia in
sede civile che penale e, addirittura, senza l’ausilio di un legale:
“In modo particolare, a livello penale, il legislatore ha previsto, con
l’articolo 282 bis codice di procedura penale, una nuova misura cautelare
-l’allontanamento dalla casa familiare- e altri due provvedimenti accessori alla
misura cautelare disposta; tali provvedimenti sono rappresentati dalla
possibilità per il giudice, una volta ordinato l’allontanamento dalla casa
familiare, di prescrivere, la persona colpita dal provvedimento, di non
avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa
e di giungere il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone
conviventi, che per effetto della misura cautelare disposta rimangono prive di
mezzi adeguati. Non vi sono stati interventi, comunque, nell’ambito del diritto
penale sostanziale, 20 legislatore, ritenuto le diverse fattispecie già esistenti
idonee a sanzionare i casi di violenza domestica.
In campo civile è, invece, l’articolo due della legge numero 154 del 2001
ha inserito nel codice civile agli articoli 342 bis e 342 ter c.c.. In particolare,
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all’articolo 342 bis prevede che quando comportamento del coniuge o di un
altro conviventi sia causa di un grave pregiudizio all’integrità fisica o morale
ovvero alla libertà dell’altro coniuge convivente, il giudice può adottare, su
istanza di parte, con decreto, gli “ordini di protezione previsti” dell’articolo
342 ter, quest’ultima norma prescrive che il giudice può ordinare al coniuge o
dal convivente che ha tenuto una condotta pregiudizievole per il familiare di
interromperla e disporre l’allontanamento dalla casa familiare di quest’ultimo,
prescrivendogli, altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente
frequentati dall’istante (in particolare il luogo di lavoro il domicilio della
famiglia di origine alle rosse con tutte le altre persone e di luoghi di istruzione
dei figli della coppia).
Il giudice, inoltre, può disporre l’intervento dei servizi sociali del
territorio (o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che
abbiano come fine il sostegno dell’accoglienza di donne minori di altri soggetti
vittime di abusi di maltrattamenti) ed il pagamento periodico di assegni a
favore delle persone conviventi che, per effetto dell’allontanamento, rimangano
prive di mezzi adeguati. Il giudice stabilisce anche la durata degli ordini
protezione che in ogni caso non può essere superiore a sei mesi e può essere
pregherò prorogata, su istanza di parte soltanto se ricorrono gravi motivi per il
tempo strettamente necessario.
È evidente la sostanziale coincidenza tra le misure cautelari previste
dall’articolo 282 bis del codice di procedura penale e gli ordini di protezione di
cui all’articolo 342 bis del codice civile. Il legislatore, infatti, ha voluto creare
una sorta di doppio binario di protezione al fine di impedire il protrarsi di
comportamenti violenti in ambito familiare. Si consideri, comunque, che nella
formulazione originaria dell’articolo 342 bis del codice civile escludeva il
potere di disporre gli ordini di protezione in caso di reato perseguibile d’ufficio
così che si poteva verificare un vuoto di tutela nell’ipotesi di reati perseguibili
d’ufficio, per i quali tuttavia i limiti di età di pena non consentissero in
concreto di assumere i provvedimenti previsti dall’articolo 282 bis del codice di
procedura penale con la legge del 6 novembre 2003 la numero 304, invece, il
legislatore ha eliminato il riferimento ai reati perseguibili d’ufficio consentendo
così alla vittima di abuso maltrattamenti di beneficiare di una tutela più
efficace, sia penale ove ne ricorrano i presupposti normativi sia azionabile
davanti al giudice civile.” (Facci G., 2009).
“Lungi dall’introdurre nuovi reati la legge 154, nella prospettiva di
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repressione degli abusi familiari, ha introdotto nel codice di procedura penale
una specifica misura cautelare di tipo coercitivo che nella previsione della
misura principale e di quella accessoria sembra aver stigmatizzato una prassi
già esistente. Ed infatti, in passato, alle esigenze sottese alla nuova misura si
faceva fronte ricorrendo alle misure coercitive del divieto e dell’obbligo di
dimora di cui all’art. 283 del codice di procedura penale. Va detto, tuttavia,
che l’esigenza cautelare e di esecuzione della nuova misura sono senz’altro più
adeguate a raggiungere lo scopo rispetto alla misura dell’art. 283 c.p.p. 7 .
Importanti novità sono invece state apportate, dalla legge 154, sia
all’interno del codice civile che in quello di procedura civile: è infatti previsto
che il giudice civile possa adottare misure cautelari provvisorie a tutela delle
vittime di violenze familiari.
L’art. 2 della legge 154/2001 ha introdotto, nel libro I del Codice
Civile, il Titolo IX-bis rubricato “Ordini di protezione contro gli abusi
familiari” e contenente i nuovi artt. 342-bis e 342-ter.
Tali articoli prevedono che qualora la condotta del coniuge o di altro
convivente sia gravemente pregiudizievole all’integrità fisica o morale ovvero
alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice ordinario, su istanza di
parte10 , qualora il fatto non costituisce reato perseguibile d’ufficio, con decreto
può: ordinare la cessazione della condotta antigiuridica; disporre
l’allontanamento dalla casa coniugale del coniuge o convivente che abbiano
tenuto le condotte lesive, prescrivendo di nonavvicinarsi ai luoghi frequentati
dall’istante; disporre l’intervento dei servizi sociali o di enti privati che
abbiano finalità statutarie adatte allo scopo; disporre un’ingiunzione di
mantenimento, mediante corresponsione periodica di una somma di denaro, in
favore dei componenti del nucleo familiare che rimangano sprovvisti di mezzi
adeguati.
La norma prevede quindi una molteplicità di espressioni della violenza
familiare (fisica, morale, psicologica, economica, sessuale). Ai fini
dell’adozione delle misure di cui all’art. 342 ter c.c. il giudice dovrà, quindi,
accertare in via preliminare se la condotta pregiudizievole abbia comportato la
lesione di un diritto della personalità, della salute, dell’onore, della
reputazione o della libertà personale, valutando, altresì, la gravità del
pregiudizio in relazione sia alla gravità e pericolosità della condotta tenuta sia
dell’eventuale comportamento reiterato11 .
L’ordine di cessazione della condotta antigiuridica è il contenuto minimo
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e necessario degli ordini di protezione; tutte le altre misure sono soltanto
eventuali. La misura patrimoniale è condizionata allo stato di indigenza
economica conseguente all’estromissione dell’autore della condotta antigiuridica
dall’abitazione familiare.
I soggetti attivi e passivi della condotta pregiudizievole sono il coniuge o il
convivente oppure, secondo l’art. 5 della legge 154, “altro componente del
nucleo familiare diverso dal coniuge e dal convivente”. Sulla base di tale
ultima statuizione, quindi, è possibile considerare quale soggetto attivo o
passivo della condotta lesiva anche il minore. In ordine a quest’ultimo, però,
sussistono non pochi problemi interpretativi sia in riferimento alla sua
legittimazione attiva sia a quella passiva.
Ed invero.
Per quanto riguarda la legittimazione attiva – benché la disciplina
processuale, regolata dall’art.736 bis c.p.c., prevede che l’istanza possa essere
proposta anche dalla parte personalmente – non sembra si possa invocare una
legittimazione attiva diretta del minore né tanto meno si ritiene possibile
nominare un commissario ad acta, in quanto contrastante con il carattere
d’urgenza proprio del provvedimento in esame. Altrettanto indefinita appare,
altresì, la legittimazione passiva del minore qualora questi sia responsabile
della condotta pregiudizievole nei confronti di altri membri della famiglia.
Non è ancora chiaro, infatti se il genitore o l’avo possano adire il Tribunale
ordinario per chiedere che il giudice emetta un ordine di protezione nei
confronti di un minore violento.
Oltre alla durata delle misure in esame (che non può essere superiore a
sei mesi) il giudice stabilisce, altresì, le modalità di attuazione delle stesse e,
ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, provvede con
decreto a emanare i provvedimenti più opportuni per l’attuazione, ivi compreso
l’ausilio della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.
Dal punto di vista processuale, l’istanza – che, come già detto, può essere
proposta dalla parte personalmente e, quindi, senza l’assistenza del difensore
-deve avere la forma del ricorso e deve essere depositata presso il Tribunale del
luogo diresidenza o del domicilio dell’istante; il Tribunale decide in camera di
consiglio in composizione monocratica.
Il giudice cui, a seguito di designazione del Presidente del Tribunale, è
affidata la trattazione del ricorso, sente le parti e procede nel modo che ritiene
più opportuno agli atti di istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche
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per mezzo della polizia tributaria, indagini sui redditi, sul tenore di vita e sul
patrimonio personale e comune delle parti, e provvedendo, infine, con decreto
motivato immediatamente esecutivo.
Nei casi di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie
informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione inaudita
altera parte fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro
un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un
termine non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del
decreto. All’udienza il giudice ai sensi dell’art. 736-bis comma 3 può
confermare, modificare o revocare l’ordine di protezione.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine di protezione o rigetta
il ricorso, ai sensi del secondo comma, ovvero conferma, modifica o revoca
l’ordine di protezione precedentemente adottato nel caso di cui al terzo comma,
è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal secondo comma
dell’articolo 739 c.p.c.. Il reclamo non sospende l’esecutività dell’ordine di
protezione e sullo stesso provvede il tribunale in camera di consiglio, in
composizione collegiale , sentite le parti, con decreto motivato non impugnabile.
Le misure introdotte dagli articoli 2 e 3 della legge 154 non si applicano
allorquando la condotta pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o
nei confronti del quale è stata proposta domanda di separazione personale
ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio se nel
relativo procedimento si è svolta l’udienza di comparizione dei coniugi davanti
al presidente prevista dall’articolo 706 del codice di procedura civile ovvero,
rispettivamente, dall’articolo 4 della legge 1o dicembre 1970, n. 898, e
successive modificazioni. In tal caso si applicano le disposizioni contenute,
rispettivamente, negli articoli 706 e seguenti del codice di procedura civile e
nella legge 1o dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, e nei relativi
procedimenti possono essere assunti provvedimenti previsti in via ordinaria per
i procedimenti di separazione e di divorzio .
Gli ordini di protezione, pertanto, potranno essere chiesti ed emessi anche
durante il tempo intercorrente tra il deposito del ricorso per separazione o
divorzio e l’udienza presidenziale: essi, però, una volta adottati i
provvedimenti presidenziali, sono destinati a perdere automaticamente
efficacia.
L’art. 8 della legge n. 154/2001 prevede, tuttavia, che gli ordini di
protezione possano essere assunti anche nel corso dei procedimenti di
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separazione o di divorzio. Pertanto, al giudice istruttore, durante il giudizio di
separazione o divorzio, potrà essere richiesta l’adozione di un ordine di
protezione.
L’art. 6 della legge 154 prevede infine l’applicabilità di una sanzione
penale per chiunqueeluda l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342 ter
del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel
procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
In conclusione, può dirsi dunque che la ratio legis degli ordini di
protezione introdotti dalla legge 154 è quella di offrire forme di intervento
articolate ed incisive in tutte quelle situazioni patologiche di conflitto o di
sopruso familiare che non hanno trovato una loro composizione in un
procedimento di separazione personale o di divorzio. Con tali misure, infatti,
il legislatore ha inteso tutelare quei soggetti che, per non ricorrere a misure
estreme ed a volte eccessivamente penalizzanti (come la separazione o la
denuncia penale) preferivano il silenzio; ora, invece, con la previsione di queste
misure, si può approntare una provvisoria soluzione della situazione di
emergenza, restando libero il soggetto, in un momento successivo, di scegliere se
proseguire il rapporto familiare ovvero chiedere la separazione o avviare un
procedimento penale.
Va tuttavia precisato che, stante la natura temporanea di tale misura, la
stessa non può dirsi curativa del fenomeno, ma è utile in quanto si pone come
un monito da parte dell’autorità giudiziaria ad interrompere la violenza. Per
far questo però è necessario che accanto all’autorità giudiziaria e alla vittima
si crei un sistema di forze sociali capaci di monitorare e bloccare
definitivamente il fenomeno. La legge n. 154/2001, pur avendo inserito dei
riferimenti ai centri di mediazione familiare o ai centri antiviolenza, non ha
però munito di sufficiente obbligatorietà questa indicazione: questo è forse uno
dei punti di maggiore debolezza della legge. Dovendo agire all’interno di un
ambito così delicato come la famiglia, è auspicabile, dunque, che venga creato
un sistema di supporto intorno alla vittima, a spese dello Stato, per
accompagnarla nelle fasi successive all’irrogazione della misura, per seguire le
sue decisioni e sostenerla dal punto di vista psicologico, materiale e di
assistenza legale. (Conforti R., 2008)
Misure del genere -che in realtà possono essere richieste anche
da genitori bisognosi di tutela dai figli violenti- di non orma viene
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invocata dichiarando una storia di violenze o minacce, rivolte all’ex
partner o ai figli, che vengono tutelati da detta norma anche in caso
di violenza assistita.
In un clima qual è quello che usualmente si ha in una
separazione coniugale, non è invero difficile trovare spunti per
richiedere l’applicazione di un disposto del genere, così come non è
difficile essere credibili, specie per quanto riguarda le partner
femminili (abbiamo descritto altrove come in tema di “violenza
domestica” vi sia un pregiudizio di genere -il maschio è sempre
violento, la donna è vittima- e di come il raffronto fra statistiche
diverse modifichi di molto proprio questo stereotipo) (Giordano,
Vezzetti, 2010).
Il punto in questione è molto importante, perché la presenza di
uno stereotipo interpretativo può condizionare di molto
l’interpretazione del singolo caso. In realtà, ricerche scientifiche di
assoluta precisione dimostrano come, nella maggior parte dei casi,
la violenza sia una modalità utilizzata da entrami i partner: secondo
una meta-analisi compiuta da Fiebert su 247 lavori accademici,
infatti, le donne sono altrettanto aggressive, o più aggressive, degli
uomini nelle loro relazioni con i mariti o comunque con i partner
maschi. La dimensione aggregata del campione negli studi recensiti
supera il numero di 240.200 (Fiebert, 2004).
In una ricerca ISTAT del 2003, poi, circa l’80% delle donne
dichiara di avere lo stesso potere decisionale degli uomini,
all’interno della coppia.
Studi del genere tendono a dimostrare, a nostro avviso, che la
violenza nella coppia molto raramente è un evento lineare (vale a
dire, da “A” a “B”), ma è circolare, e transattivo, e, purtroppo,
esprime una modalità delle coppie di oggi nelle quali la violenza
non è finalizzata ad avere un potere decisionale all’interno della
coppia, ma a veicolare il proprio dissenso.
Una lettura lineare del fenomeno, quando relativo ad una
coppia ben specifica di cui uno solo dei partner denuncia la
violenza (come fa spesso la donna), diventa dunque una lettura che
tende a veicolare prospettive (e relative decisioni) quanto meno non
appropriate al contesto in esame, contesto circa il quale due punti
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sono indecidibili: se veramente uno solo dei due partner utilizza la
violenza come metodo di sopraffazione, o se il gesto violento è
divenuto un momento transattivo da entrambi reciprocamento e
largamente di fatto accettato, quanto criticato (nell’altro) in modo
proiettivo e rivendicatorio (un atteggiamento che abbiamo definito
un “meta acting out”, perché agisce proiettivamente il rifiuto di un
agito personale individuandolo come colpa solo nell’altro e
ignorandone la modalità condivisa).
A fianco comunque di situazioni di reale violenza domestica,
nelle quali un partner è realmente vittima dell’altro realmente
violento, si hanno allora in realtà numerosi casi nei quali misure del
suddetto tipo (allontanamento dalla casa familiare, divieto di
avvicinamento ai luoghi frequentati dall’altro, ecc.) hanno forse una
loro ragione d’essere, ma ai quali sarebbe di fatto di gran lunga
preferibile una soluzione mediativa e concordata, quando non
francamente e definitivamente psicoterapica, vista l’innegabile
patologia della coppia (considerando anche che una prescrizione in
tal senso sarebbe di giovamento anche per la “vittima” della coppia,
che comunque tenderebbe a reiterare tale ruolo anche in future
relazioni.
E’ qui evidente come, in assenza di precisi e puntuali
accertamenti, il rischio sia quello di favorire il genitore
mobbizzante, dal momento che è quello che con più disinvoltura e
competenza calunniante utilizzerà questo dispositivo giudiziario.
3.2.1.2.2.2. La mobbizzazione attraverso l’utilizzo di profili
penali [torna su]
La mobbizzazione attraverso l’utilizzo fraudolento e calunnioso
(o comunque non veritiero) di percorsi giudiziari di tipo penale,
può avere effetti devastanti sull’esercizio della genitorialità.
Quando i profili utilizzati sono relativi a reati relativamente
minori, si può assistere a uno stillicidio di denunce che assume i
chiari contorni dello stalking.
Quando invece la mobbizzazione tende ad avvenire attraverso
reati gravi o gravissimi -come l’abuso sessuale, o anche lo stalking-
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si sviluppa un effetto di definitiva eradicazione dell’altro genitore, e
questo in virtù:
– degli automatismi giudiziari che si attivano in presenza di
procedure del genere
– dei tempi con cui opera la giustizia italiana;
– delle possibilità di fatto offerte al genitore mobbizzante di
interferire comunque nella applicazione di rimedi a suo sfavore.
Chiariamo subito che indicare l’esistenza di comportamenti
calunniosi a fini di mobbing, non implica certo affermare che nelle
situazioni di conflittualità genitoriale non si commettano mai reati.
Anzi: è proprio la constatazione che nel corso dei contenziosi
genitoriali vengano commessi spesso diversi reati, che permette i
comportamenti calunniosi.
Le tattiche di utilizzo dei profili penali possono essere relativi a
reati in qualche modo “minori” (percosse, lesioni, mancata dolosa
esecuzione degli ordini di un giudice), o più gravi (violenza privata,
ma anche furto, sottrazione di corrispondenza, stalking, ecc.), o
gravissimi (abusi sessuali).
A quest’ultimo tipo di tattiche (false denunce per abusi mai
commessi) sembra sia stato dato il nome di “pallottole d’argento”
(Oliverio Ferraris, 2012) per l’efficacia che hanno a colpire, ottenere
l’effetto voluto, costringere l’Autorità Giudiziaria ad ignorarne la
terribile forza distruttiva in presenza di un profilo calunnioso.
E’ possibile, e per qualcuno probabile, che vi siano
professionisti che utilizzino con una certa frequenza un tal genere
di strategie, vuoi per motivi meramente professionali vuoi perché, a
dire di qualcuno, ispirati da rivendicazioni ideologiche.
Le conseguenze giudiziarie di queste tattiche sono comunque
nella maggior parte dei casi, devastanti, grazie anche (e forse
soprattutto) alle disastrose condizioni del sistema giudiziario
italiano.
Per dare un’idea di cosa può significare essere colpiti oggi da
una falsa accusa di “abusi sessuali” su un figlio, basta considerare
come dal momento dell’accusa al momento del recupero dei
rapporti col figlio estraniato (con assoluzione), possono passare
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otto o dieci anni. Il meccanismo perverso che si innesta, infatti,
prevede non solo (e, in teoria, forse anche giustamente) che il
genitore accusato debba essere ritenuto innocente prima che possa
avere contatti liberi con il figlio, ma che questi “contatti liberi”
arrivino solo dopo che sia stato osservato un periodo di “recupero
delle frequentazioni”, gestito dai Servizi Sociali o da specialisti
ASL.
Nella realtà quotidiana di queste vicende familiari e giudiziarie
gravissime, intervengono però, due dati assolutamente indicativi,
che non si possono non citare.
Il primo dato è relativo al fatto che la gestione del caso non è
considerata, dall’istituzione che interviene (ASL, Servizi Sociali,
ecc.) una vera e propria emergenza psicoterapica, qual è in fondo
un evento del genere (un bambino che cresce con un padre
tenutogli lontano perché falso abusante, è un minore a rischio ogni
giorno che passa, soprattutto considerando come l’ambiente in cui
vive gli connota questo padre).
Di norma, questi casi sono invece come se fossero eventi di
natura burocratica, fatto che a nostro avviso meriterebbe ampie
sanzioni per malpratica costituita da negligenza e colpa gravi.
Alla lunghezza da burocrazia bisogna poi aggiungere che non
raramente tali pratiche di recupero sono ostacolate comunque dal
genitore mobbizzante, non ancora domo e che comunque non va
incontro ad alcuna sanzione né per l’eventuale atteggiamento
calunnioso precedentemente tenuto con le sue eventuali denunce (o
segnalazioni di vario tipo all’A.G. o a chi di dovere), né -tanto
meno- per le nuove condotte mobbizzanti.
Può quindi anche capitare, come avvenuto alla nostra
osservazione, che un padre di una bambina di tre anni, accusato
falsamente di abuso sulla piccola e assolto perché il fatto non
sussiste, abbia rivisto la piccola solo al compimento del
diciottesimo anno di età.
Per quanto riguarda le strategie di delegittimazione giudiziaria
della genitorialità, abbiamo diverse strade utilizzate, che non
prevedono tutte la denuncia vera e propria all’A.G.
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Al riguardo, bisogna sottolineare due punti, che concorrono
non poco a definire il problema.
Il primo è relativo alla già riferita lunghezza dei procedimenti
giudiziari, dovuta nella maggior parte dei casi al sovraffollamento di
pratiche giudiziarie. Questo a nostro avviso produce in realtà
-almeno per quanto riguarda il campo del contenzioso divorzile e i
suoi aspetti penali- un ulteriore sovraffollamento. Una querela per
reati “minori” (percosse, lesioni, mancato versamento dell’assegno
di mantenimento, elusione dolosa dei provvedimenti di un giudice),
difficilmente ottiene grandi effetti concreti. Nella stragrande
maggioranza dei casi passano anni prima che vi sia un rinvio a
giudizio o una richiesta di archiviazione, a parte casi -peraltro non
rarissimi- nei quali dell’atto giudiziario non si sa più nulla.
Ciò comporta un dato paradossale: non è difficile che i
contenziosi separativi più conflittuali siano accompagnati da tre,
quattro, e anche più querele (si arriva a volte anche a cifre che
realmente lasciano perplessi: quindici / venti querele per parte). La
facilità con cui si può sperare di infastidire l’altro con una querela,
la relativa facilità di sporgerla, e la relativa assenza di conseguenze
per chi la pone anche falsamente, ne fanno uno strumento molto
utilizzato, stante anche la possibilità di rimettere la querela sino al
giorno della prima udienza: di fatto, l’unico limite concreto è in
realtà il costo della parcella dell’avvocato
Da questo punto di vista, le querele più utilizzate sono relative
a lesioni personali o altri tipi di violenze lievi, ovvero, come detto, a
elusioni delle disposizioni del Giudice, o mancato versamento
dell’assegno di mantenimento. In casi del genere, vi sono sempre
certificati medici più o meno indicativi della approssimatezza del
danno lamentato: quattro o cinque giorni di malattia per contusioni
“da riferite percosse dell’ex coniuge”, arrossamenti, lievi contusioni
ai polsi “da riferito strattonamento da parte del coniuge”, eccetera.
A volte si hanno segni di lesività più importanti, come ad esempio
graffi o ecchimosi sul collo, ma in casi del genere si è ovviamente in
presenza di episodi comunque gravi, che dimostrano l’esistenza di
tensioni ormai tendenzialmente fuori di controllo.
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Il secondo punto è che nel sistema italiano una falsa denuncia
difficilmente comporta conseguenze penali serie, in virtù della
interpretazione che viene data del reato di “calunnia”.
Tale figura criminosa prevede infatti una precisa e consapevole
volontà di ostacolare il corso della Giustizia. Ma nella maggior
parte dei casi si ipotizza la buona fede del genitore separato, vuoi in
virtù del clima conflittivo, vuoi in virtù dello stato di alterazione
emotiva dovuto al difficile momento, e si ipotizza con una certa
-per alcuni eccessiva- facilità che questi non utilizzerebbe la
denuncia contro l’ex coniuge quale strumento ritorsivo ma perché,
spinto dalle ansie e dalle tensioni della situazione, tenderebbe a
fraintendere e sovradimensionare quanto accaduto o vede.
Il dato della tendenza ad interpretare in modo eccessivo ed
eccessivamente persecutorio quanto gli avviene è in effetti tipico
del genitore separato, ma ciò non implica certo che tutte le
denunce non veritiere siano in buona fede, e non dovrebbe dunque
essere di ostacolo ad un maggior approfondimento investigativo
circa la consapevolezza a calunniare da parte di chi ha posto la
denuncia rilevatasi infondata. Il più delle volte, infatti, è evidente la
dimensione ritorsiva e vendicativa (quando non estorsiva) delle
querele, e ciò implica che la consapevolezza del fine calunnioso non
può non essere presente.
Delle denunce che spesso sono presentate per coartare o
elidere l’esercizio della genitorialità, quelle che più probabilmente
vengono presentate con una certa, frequente, consapevolezza della
loro calunniosità, sono le denunce definite, come detto, “pallottole
d’argento”. Lo scenario tipico di tali strategie è stato peraltro così
descritto:
“La maggior parte delle accuse di falso abuso sessuale provengono dalle
madri (secondo le statistiche tra l’85 e il 95% delle denunce), ci sono però
anche dei padri che denunciano il compagno o marito della ex moglie (si veda il
caso riportato nel box) o un parente dì lei.
Una caratteristica dei falsi abusi è la loro costruzione progressiva. Ecco
uno scenario tipico. Il bambino mostra un disagio che sembra aumentare prima
e dopo le visite dal padre. Come spiega Yves-Hiram Haesevoets (1999), la
madre è convinta che questo malessere sia la conseguenza di approcci malsani e
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comunica un sentimento di allarme al figlio (o figlia), senza considerare che il
malessere può essere causato dalla separazione dei genitori e non da motivi
ulteriori. Parlando con il figlio, o di fronte a lui, la madre insinua dubbi su
certi comportamenti “inadeguati” del padre e il bambino viene man mano
contagiato dalle domande che lei gli pone dopo le visite, dalle reazioni di lei,
dalla maniera in cui lei lo guarda, cosicché, alla fine, può arrivare a dire ciò
che lei si attende da lui. Le affermazioni del bambino potranno sembrare
spontanee a chi in seguito dovrà interrogano, in realtà lui (lei) dirà a sua
insaputa ciò che la madre, con i suoi atteggiamenti e le sue ansie, ha insinuato
nella sua mente. In questo progredire graduale, un passaggio critico si verifica
quando la mamma, nel fargli il bagno, nota un rossore nelle parti genitali:
invece di pensare ad una attività auto manipolatoria, il pensiero di lei va
subito ad un contatto malsano. Nelle domande che seguono evoca il padre e il
bambino segue questa suggestione sia perché l’idea non gli dispiace, sia perché
non vuole deludere sua madre, sia perché vuole tenere nascosta l’attiva
autoerotica, sia perché associa il fatto ad altri eventi anodini che nulla hanno
a che vedere con quella parte anatomica. Il pediatra, infine, se non è
sufficientemente avveduto, può spiegare alla mamma, che cerca una conferma,
che quel rossore non è incompatibile con una manipolazione sessuale.
LE CONSEGUENZE PER I FIGLI
La denuncia di falso abuso sessuale è generalmente l’arma estrema usata
da un genitore nei confronti dell’altro, ma l’aspetto più inquietante di queste
vicende giudiziarie è che la prova è tutta a carico del figlio, il quale diventa
l’accusatore e il potenziale distruttore del proprio genitore, pur senza averne
una chiara consapevolezza. Una volta che il genitore è stato distrutto o
allontanato, il figlio si trova a far coppia con l’altro, il che può dar luogo, a
seconda dei casi e degli esiti, a un sentimento di trionfo oppure a sensi di colpa
e di angoscia. In più, durante gli interrogatori di rito, il figlio è costretto a
parlare di argomenti scabrosi e a confrontarsi con una terminologia sino ad
allora sconosciuta, il che ha l’effetto di indurre attitudini e preoccupazioni
intorno alla sessualità che prima non aveva. Ma quei che è peggio è che
qualcuno può interpretare queste nuove attitudini e preoccupazioni come la
“prova” dell’abuso sessuale.
Anche quando la vicenda si risolve a favore del genitore ingiustamente
accusato di pedofilia, la lunga procedura giudiziaria, le tensioni domestiche, le
spiegazioni fornite nel corso dell’iter giudiziario, e confidenze improprie dei
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genitore accusante, le sue angosce, lasciano un segno nei figli, per i quali non è
facile cancellare, di punto in bianco, un percorso lungo e drammatico in cui si
sono schierati con un genitore contro l’altro e in cui si sono abituati a
considerare l’uno ‘buono” e l’altro “cattivo”. È utile sapere che gli studi e le
ricerche che hanno messo a confronto gruppi di bambini vittime di reali abusi
sessuali in ambito familiare con altri al centro di denunce infondate hanno
evidenziato che, concluso l’iter giudiziario, i sintomi e i problemi psicologici
sono simili in entrambi i gruppi (Fonagy e Sand 2002). Al termine di una
ricerca condotta su 70 bambini italiani, 50% vittime di abuso sessuale e 50%
coinvolti in denunce di falso abuso sessuale (Carnerini, Berto, Rossi e Zanoti,
2010), gli autori hanno concluso: «I procedimenti penali sono in grado di
incrementare i fattori di stress dovuti al rapporto con il sistema giudiziario e
con i servizi sociosanitarì in entrambi i gruppi; nel gruppo delle denunce
infondate aumenta significativamente la probabilità di sviluppare veri e propri
sintomi psicopatologici nei bambini coinvolti». Comprendere il motivo ditale
esito non è difficile: se nel caso di abuso reale il bambino ha degli elementi
concreti a cui fare riferimento, nel caso di falso abuso vengono a mancare i
riferimenti fattuali, e quando i bambini si trovano a dover fornire delle
spiegazioni cercano di integrare con la fantasia, di attenersi alle
interpretazioni degli adulti, di fornire le risposte “giuste”, che possano
soddisfare l’adulto che hanno di fronte. Tutto ciò è all’origine di confusione
spaesamento e anche, a volte, di un progressivo distacco del minore dalle
proprie
percezioni
e
sensazioni.
«Non dimentichiamoci», scriveva Yves-Hiram Haesevoets, «che i bambini che
seguono un lungo cammino giudiziario a seguito di una falsa accusa di abuso
sessuale non ne escono mai indenni. Nella situazioni dove il padre è
falsamente incriminato, bisogna chiedersi come restaurare la sua funzione
parentale. Messa a dura prova, la funzione paterna ne emerge offuscata agli
occhi dei bambini e difficilmente recuperabile. Il genitore falsamente accusato
viene in un certo senso distrutto dal bambino stesso». Dopo essere stato
l’accusatore del proprio padre, il figlio dovrà riprendere il suo posto di
bambino, cosa non facile dopo aver sperimentato una posizione di superiorità,
di giudice e anche di onnipotenza nei confronti della figura paterna.
È importante che questi esiti dissestanti siano noti a tutti, in particolare
a quei genitori che, per vendicarsi dell’ex partner o per ricattarlo sul piano
economico, non esitano a spingere i figli su un terreno molto pericoloso per il
loro equilibrio psicologico e a loro salute mentale.” (Oliverio Ferraris,
Gaetano GIORDANO – Le patologie degli insiemi familiari da separazione: nuovi spunti clinici e
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2012)
Data la particolare dinamica con cui spesso sono però
presentate le denunce di abuso sessuale, si può definire il
meccanismo utilizzato con il termine da noi utilizzato di “filiera
calunniante” (Giordano, 2011).
Con tale termine, indichiamo la procedura messa in moto per
segnalare un possibile abuso sessuale su un bambino, e che però si
basa sull’utilizzo concatenato, e concatenato più o meno
consapevolmente, di più interventi e presenze professionali.
Chi conosce bene i meccanismi di tutela dei minori attraverso
l’intervento dei Servizi Sociali e dei Tribunale dei Minori, sa che
non è sempre necessario segnalare alla Procura della Repubblica un
caso di abuso, denunciandolo come tale. Quello che una furba, ma a
volte accorta e criminale, regia può fare, è di mettere in moto un
meccanismo di intervento che porta alla interruzione drastica e
totale dei rapporti tra un genitore ed un figlio senza che ci sia mai
stata una vera e propria e propria denuncia.
E’ evidente che lo stesso meccanismo può essere messo in
moto da un genitore perfettamente in buona fede, o da qualcuno
che realmente ritiene di dover tutelare un minore da un possibile
abuso.
Dal momento che il sistema sociogiudiziario è governato da
regole che si attivano di fronte ad ogni potenziale abuso, per
tutelare comunque la possibile vittima nell’immediatezza della
segnalazione (precauzione ovvia in caso di vero abuso), ne discende
che lo stesso meccanismo può essere messo in moto sia da una
persona in perfetta buonafede, sia da qualcuno che ha realmente
scoperto un caso di abuso ai danni di un minore, sia, però, da chi
ha una lucida intenzione calunniante, sia da chi -per così dire-
naviga in quel mare agitato di percezioni e preoccupazioni che non
sono ancora “calunniose” (perché frutto di preoccupazioni in
qualche modo vere e sentite) ma che non sono più in piena
buonafede (perché una disamina serena lascia spazio a risentimenti
e forzature della realtà).
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E’ in realtà molto probabile che vi siano professionisti con
atteggiamenti calunniosi ben consapevoli, i quali accontentano il
cliente costruendo “filiere calunnianti” di questo tipo.
Per casi del genere, abbiamo coniato il termine di “criminalità
sistemica” dal momento che il singolo professionista è in grado di
manipolare a fini calunniosi e per il tornaconto del proprio cliente
questa “filiera” che si attiva e le cui regole di “sistema”
garantiscono appunto una perfetta impunità a chiunque,
“preoccupato” per un minore segnala un potenziale abuso ad un
sanitario.
Probabilmente, vero è anche che i casi più riusciti di “filiera
calunniante”, prevedono la consapevolezza della possibile
dimensione calunniante in più operatori, ovvero che il
professionista (o il genitore!) che dà avvio alla “filiera calunniante”,
contino sulla inerzia degli operatori che interverrano dopo la prima
segnalazione, e sulla loro difficoltà, o tendenza psicologica, di non
assumersi la responsabilità di mandare avanti denunce e
accertamenti per un proprio quieto vivere mentale.
La “filiera calunniante” di cui sopra nella maggior parte dei casi
attiva i propri automatismi sistemici e inarrestabili già al primo
“passaggio”, e -molto probabilmente- nella maggior parte dei casi,
non si ferma più sino al primo grado di giudizio penale.
Il suddetto primo passaggio implica il coinvolgimento -da parte
di un genitore preoccupato- di un professionista del settore
pediatrico o dedito alla psicologia infantile.
Nel primo caso può trattarsi anche di un Pronto Soccorso, o di
un medico con ambulatorio privato. In casi del genere, viene
segnalata una storia abbastanza classica: il bambino ha detto o fatto
qualcosa che fa pensare che gli incontri con l’altro genitore non
siano tranquilli, lo lascino agitato, e che lui ritorna dagli stessi come
se in realtà soffrisse molto.
In alcuni casi il minore può essere portato a visita con il
sospetto di lesioni strane, sempre aspecifiche (in caso, ovviamente,
di falsi abusi: ma anche la lesività degli abusi può non essere
specifica), quali arrossamenti o eritemi, specie in zone genitali o
anali. Occorre qui tener conto di come non sia in realtà
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semplicissimo per un medico di Pronto Soccorso, o anche per un
pediatra di base, stabilire se la lesione in questione esista davvero o
no.
Ed è su questa indeterminatezza della semeiotica dell’abuso che
si fonda tutto l’inizio della “filiera” calunniante e, in qualche modo,
spesso anche tutto il suo prosieguo (come si sa, è tipico problema
psichiatrico-forense quello della “consulenza d’ufficio” volta ad
accertare la presenza di segni specifici di abuso sessuale, segni che
la letteratura scientifica nega esistere come tale (salvo alcune lesioni
specifiche, ben riconoscibili, ma l’assenza delle quali non esclude,
ovviamente, di per sé l’abuso).
Una volta dunque che si affaccia una situazione del genere -vale
a dire la storia di un bambino che forse torna agitato e traumatizzato
dagli incontri, forse racconta di qualcosa di strano avvenuto negli
incontri con il padre o con la madre, forse disegna qualcosa di
strano, e che forse presenta delle lesioni che non si sanno
interpretare, non si può non ipotizzare che la situazione vada
approfondita. Lo stesso dicasi se -in luogo delle possibili lesioni- vi
sono altri segni -ambigui- di possibile abuso: comportamenti strani
del bambino, linguaggio sessualizzato apparentemente anomalo per
l’età, disegni interpretabili come provvisti di “riferimenti” sessuali.
Da questo momento in poi, si incatena una serie di interventi,
soprattutto se il genitore o chi per lui è intenzionato (in buona o in
malafede che sia!) ad andare a fondo, che portano alla interruzione
dei rapporti fra l’altro genitore ed il figlio, e alla probabile richiesta
di rinvio a giudizio.
Di norma, il percorso su indicato varia di pochissimo, e il
risultato è praticamente sempre lo stesso.
Bisogna allora considerare come in una ricerca del 2007 su
cinquantatre casi di separazioni conflittuali, nei quali erano stati
presentati una denuncia di abuso sessuale (bambini coinvolti:
sessantadue) la denuncia è stata seguita da una condanna
dell’imputato in soli 3 casi.
Negli altri quarantanove casi la denuncia era infondata.
La percentuale di false denunce, nel campione in esame, è stata
dunque del 92,4%.. E su quarantotto casi il denunciato era stato il
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padre. (Cesi et al., 2007)
Il risultato di queste false accuse è stato studiato su un gruppo
di minori coinvolti in procedimenti penali per falsi abusi: “In un
campione di 70 bambini (46% maschi e 54% femmine)di età
compresa tra i 4 e i 12 anni coinvolti in procedimenti legali relativi
ad abuso sessuale ed esitati in sentenza di colpevolezza nel 50% dei
casi (gruppo CSA) e di proscioglimento o di assoluzione nel
restante 50% (gruppo non-CSA) è stata ricercata la correlazione tra
i fattori di stress ed i sintomi clinici osservati prime e dopo l’inizio
del procedimento penale. Nel campione le denunce infondate di
abuso sessuale risultano maggiormente presenti nei casi intra e peri-
familiari piuttosto che extrafamiliari; questo rilievo si lega all’elevata
quantità di denunce scaturite da conflittualità all’interno della
coppia genitoriale nel corso della vicenda separativa. Non sono
emerse differenze significative fra i due gruppi per quanto riguarda
la presenza di sintomi/problemi precedenti l’inizio del
procedimento penale; non è stato rilevato un diretto collegamento
tra aspetti psicocomportamentali specifici ed esperienze di
vittimizzazione sessuale.
I dati mostrano che i procedimenti penali sono in grado di
incrementare i fattori di stress dovuti al rapporto con il sistema
giudiziario e con i servizi sociosanitari in entrambi i gruppi; nel
gruppo non-CSA aumenta significativamente la probabilità di
sviluppare veri e propri sintomi psicopatologici nei bambini
coinvolti (presenza di disturbi dell’asse I del DSM IV TR nel 65%
dei casi).” (Camerini, 2010)
Per discernere i casi di vero abuso dai casi di bambini alienati
che accusano il proprio genitore in virtù di tale alienazione, vi sono
autori che hanno proposto cinque criteri di differenziazione
(D’agostino, 2007).
Occorre comunque sottolineare che tra le pratiche di
mobbizzazione genitoriale attraverso l’agito legale, questa della
denuncia per abusi sessuali sui figli appare forse la più praticata da
tempo: uno dei primissimi articoli sul tema, difatti, è del 1997, e già
segnalava la gravità del sempre più frequente ricorrere a questo tipo
di denuncia come strategia legale: “Bisogna poi tenere presente che spesso
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gli adulti, e in particolare i genitori denunciati, possono compiere degli errori,
fraintendere alcuni fatti o distorcere la realtà più o meno consapevolmente. Può
essere che questo avvenga anche per un inconscio tentativo di colpevolizzare
l’ex compagno o di giustificare la propria condotta, o, infine, di ottenere
l’affidamento del bambino stesso.
La letteratura scientifica ha osservato che le donne separate che accusano
gli ex mariti di incesto, hanno comportamenti normalmente iperapprensivi e
aggressivi e la tendenza a chiedere all’autorità giudiziaria di procedere in
modo veloce e urgente: non vogliono che i loro figli siano interrogati da soli, li
correggono durante l’interrogatorio e spronano loro stesse i figli a testimoniare
contro l’altro coniuge.
In particolare esiste il rischio dell’errata lettura di alcuni indicatori di
abuso sessule, e il pericolo di scambiare, per sintomi di abuso, comportamenti
che invece possono essere collegati con la fase di dissoluzione del legale
matrimoniale.
I bambini risentono in maniera molto forte delle continue tensioni causate
dal processo di separazione o divorzio, presentando disturbi comportamentali
che non dovrebbero quindi, di per se, condurre alla presunta diagnosi di abuso
(o meglio l’ipotesi di un abuso dovrebbe essere solo una delle molte che possono
essere prese in considerazione).
Oltre ai fraintendimenti dei genitori, bisogna anche dire che gli stessi
specialisti scambiano sovente per sintomi di abuso, i sintomi da separazione
anche perché, come insegnano i più accreditati manuali di psichiatria, spesso
tali sintomi coincidono (ansia, stress, crisi di pianto, paura, insonnia,
irascibilità, sensi di colpa, aumento dell’attività autoerotica).
Pertanto, essendo le accuse di abuso di bambini piccoli molto spesso
collegate alla separazione, tali indicatori da stress non devono necessariamente
considerarsi dati diagnostici, essendo preferibile considerare anche il rischio che
le denuce di abuso sessuale, presentate in concomitanza con una causa di
separazione giudiziale, abbiano carattere strumentale.
E’ quindi inquietante l’eccessiva facilità con qui in questi casi ci si
convince che di abuso si tratta solo perchè di abuso si è cominciato a parlare,
sopratutto quando la denuncia di abuso diventa un vezzo di avvocati senza
scrupoli, trasformandosi talvolta adirittura in una vera e propria strategia
legale.
Avviare un procedimento penale per un presunto abuso sessuale, può
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anche diventare una trappola infernale, un errore fatale che mette in serio
pericolo le vittime presunte.” (Bernardini – De Pace 1997).
Il punto è che la falsa denuncia per violenze o abusi
intrafamiliari, è
grandemente utilizzate perché i meccanismi
giudiziari che mette in moto (moralmente e politicamente
giustificati sempre con la necessità di far emergere il “sommerso” di
cui sopra) offre e soffre della possibilità di automatismi procedurali
o simil-procedurali che “garantiscono” al denunciante una certa
sicurezza di successo circa la possibilità di allontanare dalla propria
vita l’ex partner attraverso di esse.
Tra queste misure, spicca l’allontanamento dalla casa coniugale,
il divieto di avvicinarsi ad essa, l’invio ad incontri protetti a cura dei
servizi sociali, l’impossibilità di incontrare i propri figli e, financo,
di saperne residenza e ogni informazione. Spesso il dubbio è che si
sia in presenza di quella che è stata chiamata “La vittimizzazione
secondaria”, per la quale “è pur vero che ormai assistiamo anche al
fenomeno opposto, di operatori che esagerano in prudenza, mettendo in atto
misure di protezione sproporzionate al danno effettivo patito dai minori,
compromettendo il progetto di presa in carico, che dovrebbe mirare a
ripristinare ogni qual volta sia possibile una relazione sufficientemente buona
tra il bambino e i suoi genitori.” (Cirillo, 2008).
Al proposito alcuni autori hanno così parlato di “Sindrome di
Stoccolma per procura”: “Chi è chiamato a giudicare viene condizionato
da quella che personalmente chiamo “Sindrome di Stoccolma per procura”,
secondo la quale, in presenza di prassi devianti, si preferisce evitare un trauma
psicologico alle vittime presunte causandone uno altrettante grave che consiste
nel ritenere aprioristicamente verosimile l’accusa, emettendo ordini di
protezione dalla persona falsamente accusata. Le ideologie sacrificano nel loro
nome il diritto alla difesa. Si attribuisce a chi denuncia un credito
riconducibile al pregiudizio, sacrificando integralmente il diritto di difesa degli
indagati a causa della non riconosciuta necessità di rispettare, specie nella fase
iniziale delle indagini, canoni scientifici, linee guida e protocolli riconosciuti a
livello nazionale ed internazionale.
L’abuso dell’abuso/maltrattamento rappresenta una prassi dalla quale è
molto difficile difendersi. ” (Ubaldi, 2009)
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Nestola e Abo Loha hanno a loro volta prodotto, in un ottimo
articolo, una bella “Analisi quali/quantitativa del fenomeno [delle false
accuse in generale N.d.R]
Come accade
Principalmente attraverso la costruzione di documentazione probatoria da
poter utilizzare in Tribunale. Valida documentazione probatoria, anche se
inconsistente per quanto attiene alla gravità di diagnosi e prognosi, è il referto
medico ospedaliero:
referti medici risibili, terapie nulle
Valutazioni diagnostiche e prognostiche irrilevanti (es: “riferisce dolore
alla digitopressione”) ai fini del riconoscimento del danno da presunta
percossa.
referti medici costruiti, anche con atti di autolesionismo
Lesioni superficiali, edemi ed ematomi causati da eventi accidentali,
vengono dichiarati come conseguenza di percosse; in altri casi si ricorre a lievi
forme di autolesionismo (es: un morso sulle labbra) dichiarandosi vittima
dell’ex-coniuge;
ricorsi immotivati a cure ospedaliere
Malesseri banali dei bambini, di gravità blanda o nulla – classificati in
pronto soccorso come codice bianco – per i quali non esiste alcuna necessità di
cure specifiche ed urgenti somministrabili solo in ospedale, divengono occasione
per costruire un allarme in realtà inesistente e denunciare l’incuria dell’altro
genitore.
Tibunale di Tivoli – un referto per “mal di pancia” del figlio al rientro
dal weekend con l’ex coniuge, viene utilizzato per chiedere l’affidamento
esclusivo;
Tribunale di Lecce – un referto per “ponfo di zanzara” viene utilizzato
per sostenere l’incuria genitoriale e chiedere l’ablazione della potestà, art. 330
cp.
In entrambi i casi un malessere banale, normalmente risolvibile con cure
domestiche da qualsiasi famiglia in costanza di matrimonio, nella famiglia
separata diventa motivo di allarme ed urgente corsa in ospedale.
Si tratta quindi di una preoccupazione genuina, poiché solo una struttura
ospedaliera è in grado di risolvere punture di insetti e disturbi addominali?
Oppure il ricorso all’ospedale serve ad accumulare documentazione da
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utilizzare altrove, per scopi diversi da un concreto allarme per la salute della
prole?
testimonianze de relato (86%)
Accade raramente (14%) che vi siano testimoni oculari degli episodi
violenti.
In prevalenza si narra il fatto a terzi affinché possano avvalorare la
versione del querelante, oppure il genitore riferisce quanto appreso dai figli:
“mio figlio mi ha detto che …”.
stalking indotto
Il reato di stalking (atti persecutori, art. 612 bis) è stato introdotto nel
codice penale nel 2009 per sanzionare condotte reiterate nel tempo, che
generano nella vittima stati di ansia e paura, la modifica delle abitudini di
vita, etc.. La strumentalizzazione di questo reato ha trovato terreno fertile
nelle separazioni e nelle cessazioni di convivenza.
L’abituale telefonata ai figli da parte del genitore non convivente, può
diventare una trappola, ad esempio:
1) Il genitore non convivente contatta telefonicamente l’ex coniuge,
chiedendo di parlare con la figlia.
Chi risponde dice che la bambina sta mangiando, ed invita cortesemente a
richiamare più tardi
2) Nuova telefonata, nuova richiesta di poter parlare con la figlia
La bambina ha terminato di pranzare, ma ora sta facendo il sonnellino
pomeridiano, nuovo invito a richiamare più tardi.
3) Ulteriore telefonata, ma la bambina neanche in questa occasione può
venire al telefono in quanto si è svegliata, ma è scesa in cortile con la nonna.
La strategia può essere ripetuta più volte nell’arco della stessa giornata:
la bimba non può rispondere perché sta riposando, facendo i compiti, giocando
con un’amica, etc.
Ove esistano buonafede e spirito collaborativo, sarebbe cura del genitore
convivente con la prole prendere l’iniziativa di far telefonare la stessa al
genitore che ha cercato più volte il contatto. Dove invece l’obiettivo è – come già
visto per i referti di p.s. – costruire documentazione probatoria da spendere
altrove, si ripete l’invito a chiamare di nuovo
Dopo qualche tempo, infatti, a carico del genitore non convivente risulterà
una denuncia per atti persecutori.
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Il genitore accusato di stalking ignora l’uso strumentale delle risposte che
gli sono state date, risulta estremamente difficile dimostrare l’innocenza del
presunto reo.
Dai tabulati telefonici, infatti, risultano le chiamate in uscita dall’utenza
A verso l’utenza B; è inoltre possibile ricostruire la durata delle
conversazioni, ma non i contenuti.
Quindi è impossibile dimostrare:
– Che le brevi e ripetute telefonate non contengono toni aggressivi,
minacce, insulti
o altre forme di persecuzione.
– Che è lo stesso presunto perseguitato ad invitare il presunto persecutore
a richiamare più volte nella stessa giornata.” (Nestola, Abo Loha, 2013)
Come ormai chiaro da quanto detto fino ad ora, dunque,
diverse sono le ipotesi penali, attraverso cui si cerca di eliminare
dalla vita di un figlio il genitore (il più delle volte, come detto,
quello non convivente).
Tutte però, hanno, a nostro avviso, alcune caratteristiche in
comune: sono un fenomeno di cui si parla molto nei giornali o in
politica, destano allarme sociale perché rivolte a “soggetti deboli”
come le donne e i bambini, si fondano sullo stereotipo che la
violenza nella coppia è solo maschile.
Tra le modalità di mobbizzazione penale, oltre alla denuncia
per violenze intrafamiliari, vi sono molto rappresentate quelle per
stalking e quelle (ultimamente un po’ in decrescita) per abusi
sessuali sui minori.
Per quanto riguarda lo stalking, termine che “descrive quel
comportamento intrusivo, assillante e persistente che un individuo (stalker)
mette in atto nei confronti di un’altra persona (vittima), provocando in
quest’ultima un significativo vissuto di soffocamento, intrusività e paura per la
propria incolumità” (Siracusano, 2009) e che sicuramente è una
modalità di relazione al momento abbastanza frequente, vi sono
non poche evidenze sul fatto che non può esser letto come un
fenomeno “lineare”, cioè come un comportamento posto in essere
da un determinato individuo verso un altro (concezione peraltro
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ormai largamente superata da tutta la psichiatria che si occupa di
problemi familiari).
Di norma lo stalking, anche in articoli scientifici, è considerato
una modalità pressoché esclusivamente maschile di molestia all’ex
partner, e questo ignorando che nel 30% dei casi denunciati (ma la
possibilità di eventi non denunciati è altissima) lo stalker è un ex
partner femminile , come episodi di cronaca ben denunciano
(Rassegna Stampa sito “Violenza donne”).
Al momento, vi sono comunque studi identificano ormai lo
stalking come un “gioco di coppia”, nel quale le dinamiche agite
dalla vittima e dallo stalker creano ruoli complementari e loop
ricorsivi: “Stalker e victim stalker sarebbero, così, intrappolati in una
complementarietà rigida espressa attraverso un gioco reciproco e ricorsivo.” ,
che rappresenterebbe la risultante dell’interazione fra le
problematiche dello stalker e quelle della vittima (che tenderebbe ad
avere ben precise caratteristiche personologiche).
A prescindere dai casi di stalking nei quali si può descrivere un
vero comportamento di stalking, occorre però denunciare che la
denuncia per stalking, grazie alle caratteristiche del fenomeno
stesso, può esser spesso artatamente creata, e rappresentare così un
classico esempio di comportamento mobbizzante, a sua volta in
grado di creare un contesto sempre più ricorsivamente
mobbizzante, proprio perché capace di innescare fenomeni
incontrollabili e a catena.
Una delle modalità più utilizzate, nei giochi di separazione, per
creare una denuncia di stalking, ad esempio, è far in modo che l’ex
partner sia impedito nel legittimo diritto di visita o in quel che
concerne l’esercizio della potestà genitoriale, magari attraverso
l’impedimento a sapere, circa la vita dei figli, informazioni essenziali
o comunque ad alto significato emotivo (la salute, ad esempio).
Ciò porta a far sì che il genitore in questione debba chiamare
ripetutamente per poter aver notizie dei figli e del perché non possa
vederli o incontrare secondo le modalità pattuite, o esser a
conoscenza delle loro condizioni di salute.
Quando tali comunicazioni, accompagnate da quelle scritte
evocate o provocate dalla situazione, da sms, da tentativi di
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incontrare i figli e dunque presentandosi a casa dell’ex
presumibilmente in stato di agitazione, raggiungono una soglia
critica, si arriva alla denuncia per stalking, e al conseguente
impedimento ad avvicinarsi alla abitazione dell’ex partner, che però
coincide con quella dei figli.
La conseguenza è una sempre maggior difficoltà ad incontrare i
propri minori, e un sempre maggior allontanamento dalla vita degli
stessi. Il che, innescando ulteriori tensioni, crea le premesse per
ulteriori denunce e ulteriori allontanamenti tra genitore mobbizzato
e figli.
Vi è un aspetto sociale molto importante, a nostro avviso, per
quanto riguarda la definizione dello “stalking” e la sua denuncia
come problema sociale (e dunque la sua identificazione).
Mullen e collaboratori, hanno individuato tra le modalità
comportamentali degli stalker, comportamenti che possono
distinguersi in “comunicazioni intrusive …tutti quei comportamenti che
hanno come unico scopo, quello di trasmettere messaggi sulle proprie emozioni,
sui bisogni, sugli impulsi, sui desideri o sulle intenzioni, che possono riferirsi
sia a stati affettivi amorosi (anche se in forme coatte o dipendenti) che a vissuti
di odio, rancore o vendetta. Le forme di persecuzione preferite, sono quelle
possibili attraverso canali comunicativi indiretti quali: telefono, lettere, sms, e-
mail o perfino graffiti o murales; contatti …; comportamenti associati … ”
(Mullen et al., 1999) .
Vi è al proposito da notare che pur essendo “le forme di
persecuzione preferite, sono quelle possibili attraverso canali comunicativi
indiretti …”, non viene in alcun modo citato. Tra queste “forme
indirette di persecuzione”, la persecuzione attraverso atti legali, che
è pure una classica modalità di conflitto e di mobbizzazione
utilizzata da ex partner. Molti dei quali si ritrovano oggetto di
diverse (a volte anche decine e decine) querele e denunce per fatti
futili o non comprovati, trattandosi spesso di denunce destinate a
cadere nel vuoto.
Che la persecuzione legale, in specie sulla base di denunce per
ipotetici reati, non rientri tra i profili dello stalking, è evenienza che
lascia a dir poco perplessi, in quanto non si comprende perché tutte
le altre forme di molestia indiretta rientrino nella configurazione del
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reato, così come è definibile “stalker”, secondo la Suprema Corte di
Cassazione, “chi aggredisce verbalmente l’ex di fronte ad altri e lo diffama
con il datore di lavoro per farlo licenziare” (Cassazione, 2010).
In sintesi, ci lascia estremamente perplessi che sia considerato
stalking tutto ciò che è molestia indiretta, che sia stalking la
diffamazione presso terzi a fini di vendetta personale, che lo sia la
diffamazione o la sola aggressione verbale presso il datore di
lavoro, ma che non lo sia l’utilizzo calunnioso e molesto implicito
di continue, pretestuose e inutili denunce e azioni legali le quali,
come è esperienza di chi si occupa di separazioni, accompagnano
continuamente e a lungo il vissuto dell’ex partner, costituendo uno
dei momenti più cronicamente traumatizzanti (“è arrivata una
raccomandata dell’avvocato di X…”, “sono passati i Carabinieri e hanno
lasciato un foglietto”… “domani devo prendere un giorno di ferie per andare in
Commissariato, mi hanno detto che c’è una nuova querela, ormai siamo quasi
amici, per quante volte mi hanno chiamato… ”) della separazione.
C’è un aspetto molto importante che ci preme sottolineare: lo
stalking si fonda sempre, o pressoché esclusivamente, su atti leciti
(sms, telefonate, visite), che divengono reato solo se molestamente
ripetute e se non volute da chi ne diviene oggetto.
Il fatto che non si è ancora individuato nel ripetuto e
pretestuoso utilizzo degli strumenti giudiziari una forma di stalking
(pur tenendo conto che si tratta in genere di attività reciproche, ma
che hanno pur sempre un individuabile primo promotore), fa
pensare che il sistema sociogiudiziario raggiunge in questo punto
uno dei suoi momenti di massima “cecità” rispetto ai propri
paradossi: non riesce infatti nemmeno in questo caso a concepire sé
stesso come strumento e mezzo di ciò che deve in qualche modo
limitare, gestire, punire. E’ probabile che il coinvolgimento di più
figure e interessi professionali giochi qui un suo ruolo (come
peraltro lo può giocare in tutta la capacità di escalation del sistema
che si occupa di separazioni e affido minori) per definire come
accettabile o inammissibile, come positivo o negativo, ciò che è
funzionale più ai propri equilibri di sistema che non ai soggetti sulla
cui vita deve incidere.
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Come però si può constatare, tutto il problema delle
mobbizzazioni attraverso l’uso di profili penalistici e civilistici
anche gravi rimanda a questa considerazione: il Diritto, allorché
entra nel contenzioso familiare, rischia con una certa grave
frequenza di cessare di essere strumento di tutela (e di previsione
de esenzione dal rischio), per diventare strumento di distruttività.
Questo, ovviamente, non per una perversione in sé del Diritto
ma, semmai, del suo uso. E questo utilizzo perverso del Diritto nel
contenzioso genitoriale emerge come perverso perché il Diritto
tutela principalmente i diritti dei singoli, mentre la realtà del
sottosistema genitori-figli è una realtà che “vive” esclusivamente
come nesso di più relazioni.
Dal Film “Casomai”
BAR lunch – INT. giorno – set. 05
Tommaso mangia assieme al proprio avvocato, il dott. Ramalli (38).
TOMMASO
Tutte menzogne…
AVVOCATO RAMALLI
Sì ma le ha messe per iscritto! Dobbiamo attaccare anche noi.
TOMMASO
Come?
AVVOCATO RAMALLI
Tua moglie maltrattava il bambino?
TOMMASO
Assolutamente no.
AVVOCATO RAMALLI
Non mi hai detto che è caduto dal triciclo?
TOMMASO
Sì, ma che c’entra?
AVVOCATO COGLIANI
E’ andata anche al pronto soccorso no?
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AVVOCATO RAMALLI
Presentiamo il referto medico del pronto soccorso e la denunciamo per
scarsa attenzione…
TOMMASO
Ma dai…
AVVOCATO RAMALLI
Allora rileggiti cosa dice tua moglie!
Tommaso lancia un’occhiata ad una lettera.
TOMMASO
Io non capisco perche ci si debba ridurre così…
AVVOCATO RAMALLI
Senti, la vuoi vincere o no questa battaglia? Ricordati che il giudice è una
donna…
…..
3.2.1.2.2.3 Lo stalking giudiziario [torna su]
Dello stalking giudiziario, in grado di determinare veri e propri
Disturbi Post Traumatici da Stress, abbiamo già detto. Con tale
termine si identifica un diluvio di atti giudiziari portati contro il
proprio ex partner, con lo scopo più o meno dichiarato di rendergli
la vita impossibile e incidere pesantemente sul suo rapporto con la
prole oggetto di contesa, ma anche di demolirlo economicamente.
Ricordiamo che subire ripetuti procedimenti giudiziari è un
fattore di stress, e di disagio economico, non indifferente, e che
nella nostra esperienza clinica non sono pochi i soggetti che hanno
sviluppato una vera e propria sindrome psicopatologica.
3.3.1 Tattiche svilimento e distruzione della figura
genitoriale [torna su]
Le tattiche di distruzione della validità della figura genitoriale
possono portare, unitamente a tutta la situazione conflittiva, e allo
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stress che determina nel minore, a quella che usualmente si
definisce PAS (la “Sindrome di Alienazione Genitoriale”).
Abbiamo diviso le tattiche di svilimento agite direttamente
nella relazione genitore-figli, da quelle che mirano a distruggere
l’esprimersi sociale e legale della genitorialità, in quanto pur
essendo anche le seconde fondate sulla distruzione della validità
della adeguatezza genitoriale, il loro venir agite a livello sociale e
giudiziario, fa salire gravemente di livello la potenza traumatizzante
che hanno e la capacità di interferire concretamente nell’esercizio
della genitorialità.
La prima premessa da tener presente è che i modi con cui un
genitore può svilire l’altro sono in realtà infiniti, e il più delle volte
hanno una sintassi che affonda le proprie regole, molto
tenacemente quanto molto ferocemente, negli strati più rimossi (e
dunque più “proiettati” e più “agiti”) della psicopatologie della
coppia.
La relazione tra le strategie di mobbizzazione (che sono sempre
strategie di svilimento), e le tematiche psicopatologiche della coppia
ha una sua importanza nella gestione clinica del genitore
mobbizzato, perché, una volta conosciuta bene l’anamnesi della
coppia e le problematiche psicopatologiche profonde che legavano
(e legano!) i coniugi , si potranno prevedere con una certa facilità i
comportamenti di cui il paziente sarà oggetto (o vittima),
comprendere perché ne vengono agiti alcuni, contro di lui, e altri
no, ed aiutarlo ad elaborare la dimensione traumatica del gesto
mobbizzante.
Usualmente, il comportamento mobbizzante di cui un genitore
viene fatto oggetto, “pesca” molto bene, per così dire, nei nuclei
irrisolti della sua personalità, in special modo in quella che Jung
definisce “Ombra”.
Tra le modalità più utilizzate vi sono quelle che vanno a toccare
i sentimenti di inadeguatezza, disistima e vergogna del genitore da
mobbizzare. Altre ancora vanno a interferire con i timori della
perdita del controllo delle situazioni o con i problemi di
attaccamento. Se, ad esempio, ad un genitore con problemi di
attaccamento, si impedisce di vedere un figlio che sta male, lo si
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manda vicino alla follia, il che significa che si riesce a fargli
dimostrare con una certa facilità quanto merita di essere definito
folle (e dunque quanto meriti essere allontato dai figli).
Il genitore mobbizzante, che molto spesso (se non sempre), ha
una crudele abilità a trovare cosa può ferire l’altro, riesce così in un
doppio intento: da una parte svilisce la figura del genitore nel figlio,
dall’altra innesca nel genitore target una reazione che
inevitabilmente tenderà a confermare la validità delle accuse che
vengono fatte all’altro. Per fare un esempio banale, in modo da
chiarire le dinamiche cui ci riferiamo, se un genitore “target” (cioè
oggetto di una mobbizzazione) tende a reazioni imperiose e
violente, la strategia svalutativa metterà in luce esattamente questo
tratto comportamentale, facendo in modo che si mostri sempre più
evidente e ingestibile: il rischio, in questi casi, è che una volta
innescatisi i comportamenti mobbizzanti, la reazione del genitore
“target” avvii un cortocircuito comportamentale che lo mette in
condizione di generare comportamenti sempre più riprovevoli e che
lo pongono in cattiva luce con i figli, sì che egli stesso diventa la
miglior prova delle svalutazioni di cui è oggetto.
Da questo punto di vista si può infatti tranquillamente
ipotizzare che la transazione mobbizzante sia in realtà una
transazione collusiva focalizzata sul rimosso della coppia e sulla
reciproca dimensione proiettiva. Ciò ha una sua grande, se non
determinante, importanza nella clinica del genitore mobbizzato,
perché un intervento adeguato in tal senso da parte di uno
psicoterapeuta adeguatamente formato, può limitare anche in
grande misura i danni che il genitore mobbizzato può ricevere a
causa di questo elemento collusivo.
Se si riesce infatti a far focalizzare il genitore mobbizzato sulle
psicodinamiche (e sugli “agiti”!) che il comportamento mobbizzante
dell’altro può innescare in lui, si può riuscire ad evitare reazioni
autodistruttive e a catena, o comunque gestirle con meno
drammaticità.
Come detto precedentemente, esiste dunque una sintassi della
transazione mobbizzante le cui regole sono le stesse della
collusività della coppia e del rimosso in qualche modo “condiviso”:
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elencare le modalità con cui un genitore svaluta l’altro all’occhio del
figlio è dunque estenuante e, in qualche modo, inutile: le varie
strategie pescano sempre i propri significati nell’”Ombra” (in senso
junghiano) di ciascuno dei due. Il grado di impossibilità di
accettazione della propria Ombra diverrà poi, per il genitore
mobbizzato, il vero fattore critico che lo renderà estremamente più
vulnerabile alle strategie mobbizzanti dell’altro.
Detto da un altro punto di vista, questo significa che il
genitore che vuol uscire “vivo” da un contesto mobbizzante, deve
accettare di comportarsi come l’Ombra di quel Padre che, invece,
vorrebbe mostrare a tutti di essere.
Nel MPI già citato sopra, ecco cosa è indicato ed elencato
riguardo le tattiche di distruzione della validità della figura
genitoriale:
(dal
P.M.I.
–
Parental
Mobbing
Inventory
– Griglia degli indicatori di contesto a transazione mobbizzante
(Dimitri e Giordano, marzo 2006)
– Il genitore affidatario parla male al/i figlio/i dell’altro
genitore gli fa notare quanto sia inadeguato, cattivo, egoista, non
interessato a loro;
– Ricorso ad accuse e denunce (di abuso sessuale e/o di
maltrattamenti fisici/psichici, di incuria o ipercuria, di sottrazione
di minore per pochi minuti di ritardo) da parte di entrambi i
genitori, strumentali alla sospensione delle frequentazioni;
– Uno dei genitori manda continui messaggi di squalifica (“tu
non sei capace, non vali niente…”) e disconferma (“tu non esisti…”)
all’altro genitore in presenza o attraverso i figli ( “tuo padre si
comporta male”, “tuo padre non ti presta nessuna attenzione”, “tuo
padre ti mette in pericolo”, ecc.);
– Un genitore disprezza, critica connota negativamente
mediante allusioni e commenti verbali e non verbali ogni aspetto
del comportamento e della quotidianità dell’altro genitore e della
sua relazione con il figlio (abitazione, vestiti, incontri, telefonate,
regali);
– Il genitore affidatario squalifica e critica apertamente le idee e
le decisioni prese dal genitore non affidatario in presenza dei figli;
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– Il genitore affidatario denuncia di aver subito violenze o
danni da parte dell’altro genitore per farlo apparire pericoloso agli
occhi dei figli o del Giudice;
– Il genitore affidatario si presenta quale vittima del genitore
non affidatario considerato il carnefice;
– Uno dei genitori sottolinea in continuazione ai figli di essere
l’unico capace di prendersi cura di loro (l’altro è inaffidabile);
– Triangolazione dei figli, richiesta di alleanza da parte del
genitore affidatario: tutti uniti contro il traditore della famiglia, il
colpevole della separazione;
– Uno dei genitori è costretto a subire comportamenti umilianti
o dannosi quando va a prendere il figlio o deve sottostare a pratiche
vessatorie o umilianti come incontrare il piccolo per pochissimo
tempo, e solo in presenza di “sorveglianti”, che commentano
negativamente ogni suo comportamento;
– Uno dei genitori riferisce al/i figlio/i che l’altro genitore è
stato denunciato per reati – dati per accertati – contro di lui o
contro il/i figlio/i;
– Uno dei genitori manipola le circostanze a proprio favore e a
svantaggio dell’altro;
– Uno dei genitori riscrive la realtà o rinarra il passato in modo
tale da creare dei dubbi nei figli sul rapporto tra il bambino e il
genitore;
– Uno dei genitori racconta aneddoti relativi all’altro genitore al
fine di creare nei figli un’immagine compromessa di quest’ultimo;
– Uno dei genitori soddisfa i desideri dei figli che l’altro limita o
disapprova, da delle regole diametralmente opposte a quelle
dell’altro sminuendone l’importanza (manca un fronte genitoriale
unito);
– Uno dei genitori chiama l’altro utilizzando appellativi,
nomignoli e quant’altro di offensivo e umiliante agli occhi dei figli;
– Vengono cancellate le tracce dell’altro genitore, e tutto quello
che lo riguarda distrutto, nascosto, buttato, anche, ad esempio, i
regali e gli oggettini che compra al figlio.
E’ comunque evidente un dato: le tattiche per distruggere agli
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occhi del minore una figura genitoriale sono infinite. Sarebbe
dunque molto riduttivo pretendere di poter riassumere in un elenco
un insieme di comportamenti che di fatto tendono all’infinito e che,
tra l’altro (fatto che come abbiamo detto è determinante) sono in
grandissima misura funzione della dimensione collusiva della
coppia.
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4.
LE
CONSEGUENZE
GENITORIALE
E
DELLA
MOBBIZZANTE
DEL
MOBBING
TRANSAZIONE
4.1.0 Premessa: dalla coppia unita all’“Insieme Bi-
Genitoriale da Separazione” a transazione mobbizzante.
[torna su]
Come detto nei capitoli precedenti, la separazione per motivi di
conflitto di una coppia con prole, determina una serie di
trasformazioni che possono portare la coppia a divenire quello che
abbiamo definito “sistema di-familiare post-separativo” a
transazione mobbizzante.
Premettiamo -a scanso di equivoci- che già di per se la coppia
unita deve essere percorsa da problematiche (conflittive o meno)
tali da creare le premesse per un esplodere della conflittualità
separativa nei momenti successivi alla scissione in due nuclei
abitativi (scissione seguita a breve scadenza, di solito, da una rapida
trasformazione delle regole e delle modalità comunicative della
coppia).
Molto probabilmente, le dinamiche collusive presenti nella
coppia precedentemente alla separazione avranno una grande
importanza proprio nel generare il contesto alienante ma proprio
per questo devono essere trattate a parte.
Il primo passaggio verso il nucleo a transazione mobbizzante
è dunque la separazione della coppia in due nuclei abitativi diversi,
il che implica un rapido passaggio da regole in qualche modo
condivise ad organizzazioni di vita e quotidiane già più divise.
In questa fase, noi descriviamo il formarsi dell’“Insieme Bi-
Genitoriale da Separazione”, termine con il quale descriviamo il
legame -per certi versi paradossale e ricco di tensioni a rischio- che
permane fra i due genitori separati, ormai residenti in abitazioni
diverse, e dalla prole che li unisce (tendendo però a separarli in
virtù delle opposte modalità con cui si esplica da adesso
l’accudimento genitoriale).
Come detto precedentemente, ribadiamo che questo utilizzo di
una nuova terminologia è funzionale a descrivere situazioni delle
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quali occorre cogliere la natura fondamentalmente diversa rispetto a
quelle della famiglia normounita.
Vero è che la famiglia a genitori coabitanti può essere percorsa,
più di quella a genitori non coabitanti, da tensioni e conflittualità
psicopatogenetiche, ma è altrettanto vero che la famiglia separata,
fondata ormai su due nuclei genitoriali divise, vede per l’esercizio
della genitorialità dei due, regole e prassi talmente antitetiche da
qualificarsi ormai con fisionomia ben diversa dalla famiglia a
genitori non coabitanti. Di fatto, sarà proprio l’antiteticità delle
modalità di accudimento, la differenza di coabitazione con la prole
in termini di tempo, a generare le possibili tensioni tra i due ex
partner.
Si formano, con l’“Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”, i due
nuclei che la compongono: il “polo familiare monogenitoriale” e il “polo
genitoriale de-figliato”.
E’ in questo momento, di fatto una fase del primo passo del
possibile formarsi di un nucleo di-familiare a transazione
mobbizzante, che emerge la “Sindrome del Nido Clonato”, nella quale
entrambi i genitori tendono a vedere nell’altro un intruso. Il
genitore che resta a coabitare con il figlio, tende infatti a
sperimentare una prassi quotidiana di accudimento e impegno verso
il figlio che gli fa percepire “l’altro” appunto come “un altro”
rispetto ai problemi della genitorialità; il genitore rimasto a vivere
senza prole, invece, sperimenta un vissuto di spoliazione della
propria genitorialità, di cui tende a far carico all’altro.
I legami e le relazioni che tenderanno a svilupparsi da questo
momento in poi saranno tendenzialmente paradossali e
disfunzionali, quando non francamente patologiche, dal momento
che i due ex partner saranno uniti proprio da ciò che li divide:
l’accudimento della prole, che è un modello comportamentale
istintualmente molto potente e in grado di spezzare l’importanza
dei codici sociali acquisiti (come, ad esempio, quello della giustizia).
In sintesi, è come se si formassero due nidi, due nidi ciascuno
clone uno dell’altro, destinati però a uno stesso uccellino.
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Il secondo passaggio è l’entrata in scena del procedimento
giudiziario come chiave di soluzione della conflittualità genitoriale.
Da questo momento inizieranno i comportamenti mobbizzanti
Il procedimento giudiziario, che tende a tutelare i diritti dei
singoli -dell’uno dunque rispetto all’altro, e non dell’uno insieme
all’altro- e dunque non tutela la relazione in quanto tale, opera
scomponendo l’esercizio della genitorialità, e generando una
situazione di conflittualità ricorsiva, nella quale i due nuclei
genitoriali si combattono perché devono:
a) dimostrare di essere ognuno genitore “più” adeguato
dell’altro;
b) garantirsi la gestione e l’accudimento della prole, da cui
“l’altro” sembra escluderli.
Ognuno dei due genitori tenderà così ad identificare sé stesso
come il genitore del minore, e identificherà i propri diritti con
l’interesse del figlio. La logica della coppia diventa quella della
subottimizzazione: entrambi cercheranno il proprio vantaggio a
scapito del vantaggio dell’insieme.
Il procedimento giudiziario, sezionando l’accudimento
genitoriale in modalità predefinite e aliene da un accudimento
globale, porterà al “Family Chopping”, cioè all’amputazione dei legami
familiari in quanto tali, e/o alla loro segmentazione in momenti
assolutamente discontinui tra loro. Il minore vivrà cioè una vita a
compartimenti stagni e non comunicanti tra loro.
E’ in questa fase che l’“Insieme Bi-Genitoriale da Separazione”
diventa a transazione mobbizzante.
Da questo momento in poi si sviluppa un contesto alienante ,
dal momento che ognuno dei due genitori considererà sempre più
l’altro come un intruso e tenderà ad espellerlo dalla vita del figlio.
Quanto poi questo contesto alienante si trasformerà in una
Alienazione Parentale, è impredicibile. Quanto poi si debba
distinguere tra PAS -cioè Sindrome di Alienazione Genitoriale- ed
“Alienazione Parentale”, è un argomento ancora dibattuto.
Per quanto riguarda invece le conseguenze sui minori di un
contesto a transazione mobbizzante, rimandiamo agli studi appositi,
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sottolineando però la pericolosità della situazione e sottolineando
ancora una volta come l’utilizzo del Diritto nella gestione della
conflittualità genitoriale non privilegi affatto la tutela del singolo -e
nello specifico la garanzia di adeguate condizioni di crescita per il
minore- ma solo la continua e ricorsiva (quanto anche, in molte
occasioni, ritorsiva) applicazione di sé stesso.
Bisogna infatti sottolineare che non vi è mai un momento nel
quale l’esercizio della giustizia in ambito familiare si arrenda per
lasciare il posto ad altre soluzioni: anche la stessa “Mediazione” al
momento viene utilizzata come interna ad un procedimento
giudiziario, il che lascia sempre aperto lo spazio ad un suo utilizzo
strumentale, e finalizzato ad un mero risultato processuale nei
termini di adesso.
Per quanto comunque riguarda la PAS, daremo qui di seguito
un veloce excursus, annotando sia quella che viene considerata la
“sintomatologia” principale, sia occupandoci delle sempre più
frequenti polemiche che si agitano attorno a questo vero e proprio
fantasma concettuale ed operativo.
4.1.1. La cosiddetta PAS – Sindrome di Alienazione
Genitoriale [torna su]
“Sindrome di Alienazione Genitoriale” e “Alienazione
Parentale” sono termini ben noti a tutti coloro che si occupano di
conflittualità genitoriale nel corso di procedimenti giudiziari.
Per quanto riguarda la PAS, possiamo dire, sinteticamente,
come essa si manifesti con:
– il rifiuto di uno dei genitori da parte di un minore coinvolto
in un procedimento giudiziario di separazione.
Tale rifiuto deve essere basato:
– non su oggettivi problemi di comportamenti da parte del
genitore;
– su accuse relative o a comportamenti mai tenuti, o a
comportamenti che usualmente sono considerate risibili o
comunque non idonei a legittimare il rifiuto di avere contatti con un
genitore.
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Colliva, al proposito, (Colliva, 2005) riporta la necessità di
poter definire la sintomatologia della PAS solo dopo aver definito
cosa non sia la PAS. E la PAS non è:
“l’alienazione genitoriale prodotta da una “realtà reale” di
mancanze, trascuratezze o violenze del genitore alienato”;
“una patologia del genitore alienante, ma una patologia
instillata nel bambino”;
“sinonimo di accuse per violenze o abusi rivolte ad un
genitore”.
Eccone invece una definizione in positivo:
“La sindrome di Alienazione Parentale (PAS), è un disturbo che insorge
principalmente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. La sua
manifestazione principale è la campagna di denigrazione rivolta contro un
genitore: una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato della
combinazione di una programmazione (lavaggio del cervello) effettuata dal
genitore indottrinante e del contributo dato dal bambino in proprio, alla
denigrazione del genitore bersaglio. In presenza di reali abusi o trascuratezza
dei genitori, l’ostilità del bambino può essere giustificata e, di conseguenza, la
Sindrome di Alienazione Parentale, come spiegazione dell’ostilità del
bambino, non è applicabile.” (Gardner, 1985, p.1)
In questo disturbo, un genitore (solitamente indicato come alienatore,
genitore alienante o genitore origine della PAS), attiva un programma di
denigrazione contro l’altro (generalmente indicato come genitore alienato o
genitore bersaglio), allo scopo di ottenere che il figlio si rifiuti di frequentare
l’altro genitore. Quello che differenzia la PAS da un semplice “lavaggio del
cervello”, attuato da un genitore sul figlio, è il fatto che il bambino diventa egli
stesso protagonista della campagna di denigrazione ed è proprio questa
combinazione di comportamenti che legittima una diagnosi di PAS. E’
importante sottolineare che la denigrazione del figlio non deve essere imputata
ad un reale comportamento negligente del genitore bersaglio. Si può dunque
parlare di Sindrome da Alienazione Parentale solo quando il figlio attua un
comportamento alienante assolutamente ingiustificato, mentre in presenza di
reali abusi o trascuratezza da parte di un genitore non si può parlare di PAS.
Gardner affronta anche lo studio di quelle situazioni in cui, dopo la
separazione, il comportamento dei figli cambia negativamente e
ingiustificatamente nei confronti del genitore non affidatario, il quale, nella
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maggioranza dei casi, come la casistica dimostra, risulta essere il padre.
Egli individua gli otto sintomi primari che caratterizzano la PAS
(1992):
1. campagna di denigrazione;
2. razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il
biasimo;
3. mancanza di ambivalenza;
4. il fenomeno del “pensatore indipendente”;
5.appoggio automatico al genitore alienante nel conflitto genitoriale;
6. assenza di senso di colpa per la crudeltà e l’insensibilità verso il
genitore alienato;
7. utilizzo di scenari presi a prestito;
8. estensione dell’ostilità alla famiglia allargata ed agli amici del genitore
alienato.
A queste variabili Gardner ha di seguito aggiunto (1998a, 1998b,
2001a, 2001b) altri quattro criteri o fattori che consentono di indagare in
modo specifico la relazione che intercorre tra il minore e i due genitori, per
arrivare ad una corretta valutazione della sindrome. Verranno quindi anche
valutate:
a) Le difficoltà del minore nel periodo di transizione da un genitore
all’altro.
b) Il comportamento del minore durante la permanenza a casa del
genitore alienato.
c) Il legame del minore con il genitore alienante.
d) Il legame del minore con il genitore alienato prima della separazione o,
in ogni caso, dell’alienazione.
Lo studioso individua anche tre livelli di gravità di questo disturbo:
1. LIEVE (mild)
2. MEDIO (moderate)
3. GRAVE (severe)” (Cavedon, 2009)
4.1.1.2. Le polemiche
Genitoriale” [torna su]
relative
alla
“Alienazione
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Come noto, il concetto di Alienazione Genitoriale è da tempo
oggetto di accanite polemiche: se ne contesta la scientificità, e la
sua mancata inclusione nel DSM. Si dice che è scienza spazzatura, e
che serve a coprire i padri pedofili.
Nel contesto professionale italiano, uno dei principali
accusatori della PAS come “scienza spazzatura”, è però un
avvocato, che patrocina molte cause di separazione e divorzio e
nelle quali non raramente sembra affacciarsi l’accusa di abuso
sessuale per il genitore sua controparte.
Ma è un avvocato che -come scrive in quella che tutti i siti in
cui è presentata indicano come una sua autobiografia- da bambino
accusò falsamente il proprio padre di averlo abusato sessualmente:
senza che mai i giudici gli credessero. I magistrati ipotizzarono anzi,
proprio come è tipico di una classicasituazione di “Alienazione
Parenterale”, che fosse stata la madre a fargli accusare il genitore:
“Mia madre ti aveva denunciato per atti di libidine violenta nei confronti
dei figli e io ero la vittima e il testimone principale… avevo 8 anni (…) Questo
giudice era cattivissimo (…) continuava a ripetere che stavo raccontando
frottole e mi intimava di dire la verità, ma più mi chiedeva di dire la verità
più io confermavo quello che avevo da dire senza dubbi e con sicurezza. Il
giudice cominciò ad alterarsi e ad urlare e io cominciai a piangere come un
vitello prima di essere portato al macello. (…) Non mi fanno paura le sue
urla, la sua insensibilità, la sua totale impreparazione, signor giudice…”.
(pag. 22 e 23)
“decine di testimoni furono pronti a giurare che era la peggiore delle
mogli, la più snaturata delle madri, una donna malvagia e dissennata che per
entrare in possesso del tuo patrimonio aveva plagiato i figli e li usava contro il
padre”. (pag. 24)
“i giudici credettero a te (…) fummo affidati (…) alla nonna paterna”
(pag. 25)
“tutti i parenti e i cugini che abbiamo non ho rapporti con nessuno, gli
amici di famiglia (…) mi guardano con sospetto e ambiguità” (pag. 26).
“Per me poi rivedere mia madre era una pena terribile, non una gioia,
avevo l’anima divisa in due (…) cominciai a coltivare, nel mio cuore di
bambino, rancore verso una mamma che mi lasciava ostaggio di mio padre.
Ricordo che durante le ultime visite non facevo ostaggio di questo mio stato
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d’animo e lo palesavo a mia madre con atteggiamenti ostili e dispettosi” (pag.
33). “Mia madre non la vidi più per 10 lunghi anni”.
“Avevo subito violenze e pressioni psicologiche tali da compromettere
l’equilibrio di una persona per sempre, ero terrorizzato e traumatizzato” “dei
guasti che hai provocato nella mia psiche ne ho preso coscienza nella tarda
adolescenza (…) Nel profondo di me è rimasto un baratro, un vuoto
incolmabile, una debolezza essenziale nel processo di identità che ho dovuto
compiere, ma vivo bene lo stesso e a volte sono anche felice ” (pag. 45).
(Cammarata, 1999) .
Come si nota, un classico scenario di conflitto giudiziario che
potrebbe essere coerente e compatibile con una altrettanto classica
descrizione di un caso di “Alienazione Genitoriale”, nel caso
rifiutata come tale -e come patologia- dal soggetto.
L’aspetto degno di nota di questo problema è nel constatare
come molto spesso le polemiche contro la Pas rischiano di essere
legate a fattori molto personali e poco culturali. Ciò rappresenta
molto bene proprio quella che a nostro avviso è la realtà della Pas
(o della Alienazione Parentale) e, per quanto ci riguarda, quella che
è la realtà delle polemiche sulla PAS: entrambi nascono infatti dalla
stessa matrice, vale a dire dall’assegnare al conflitto il valore di
chiave di soluzione dei problemi emergenti dalle relazioni umane.
Detto in altri termini, un caso di quella che viene descritta
come “PAS” nasce solo e comunque in virtù della dimensione
conflittiva giudiziaria che accompagna l’esperienza della
separazione, e le polemiche sulla PAS nascono esattamente dalla
stessa radice.
Come, infatti, i comportamenti di un bambino travolto dalla
conflittualità si esprimono in quelli che poi vengono indicati come
“sintomi” della PAS (o di Alienazione Parentale), così il conflitto
sul “riconoscimento” della “PAS” quale entità nosologica
“esistente” è in realtà funzionale a mantenere le alternative
all’interno dell’intervento del Diritto nella conflittualità genitoriale.
Dibattere cioè se la “PAS esiste o non esiste”, equivale a
ignorare le premesse di questo dibattito scientifico, che nasce
ignorando come il fenomeno -patologia o no che sia- si manifesti,
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in questi termini, solo e soltanto in presenza di un contenzioso
giudiziario separativo.
Attraverso tale querelle, invece, e attraverso le varie
affermazioni sulla esistenza o meno della PAS come patologia, si
elude la constatazione che situazioni e comportamenti di questo
tipo sono esclusivi della conflittualità giudiziaria.
Bisogna infatti ammettere che non esiste professionista del
campo delle separazioni coniugali, che non abbia visto almeno un
caso di minori figli di separati in guerra troppo loro, che per motivi
assolutamente risibili o inesistenti iniziavano a rifiutare i rapporti
con l’altro genitore, finendo poi, in tempi più o meno brevi ad
accusarlo in modo a volte anche fantasioso o di comportamenti
gravi ma che
non aveva mai tenuto, o di comportamenti
assolutamente non gravi, ma che ai loro occhi giustificavano
l’interruzione di ogni contatto, o di episodi chiaramente riferiti loro
dal genitore cui erano fedeli ma che li aveva in qualche modo
rivoltati a proprio favore.
Come vedremo, nella stessa direzione va il comunicato della
SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile) che ha
ritenuto opportuno emettere un proprio comunicato dopo che una
sentenza della Cassazione aveva ritenuto discutibile l’utilizzabilità
della PAS in sede giudiziaria:
“5.2. — Deve invero evidenziarsi che la ricorrente, nel pieno rispetto del
principio di autosufficienza, ha richiamato le critiche mosse alla relazione
depositata dal consulente, tecnico d’ufficio, alla diagnosi dallo stesso formulata
e, soprattutto, alla validità, sul piano scientifico, della PAS.
Basterà qui ricordare che, sono state richiamate le perplessità del mondo
accademico internazionale, al punto che il Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome a malattia; che si è
evidenziato che vari autori spagnoli, all’esito di una ricerca compiuta nel
2008, hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS
e che, nel 2009, le psicologhe C.B. e S.V., la prima spagnola e la seconda
argentina, hanno sostenuto, in una pubblicazione dei 2009, che la PAS
sarebbe un “costrutto pseucto scientifica”. Nell’anno 2010, inoltre, la
Associacion Espanola de Neuropsiquiatria ha posto in evidenza i rischi
dell’applicazione, in ambito forense, della PAS, non diversamente da quanto
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già manifestato nei 2003, in USA, dalla National District Attorneys
Association, che in nota informativa sosteneva 1’assenza di fondamento della
teoria, “in grado di minacciare l’integrità del sistema penale e la sicurezza dei
bambini vittima di abusi”. Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai
quali, anche volendo accedere alla validità scientifica della PAS, molti dei suoi
caratteri, come definiti dal suo sostenitore principale, Richard Gardner (nei cui
confronti non sono mancati accenni poco lusinghieri, quale l’essersi presentato
quale Professore dì psichiatria infantile presso, la Columbia University,
essendo un mero “volontario non retribuito”, e persino l’aver giustificato la
pedofilia), non sarebbero riscontrabili nel caso di specie.
6. le esposte critiche non sono state esaminate nel provvedimento
impugnato, così violandosi il principio secondo cui il giudice del merito non è
tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria adesione alle
conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, potendo limitarsi ad un mero
richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consulenza
precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel
vizio di motivazione (Cass., 6 settembre 2007, n. 18688; Cass. l° marzo
2007, n. 4797, Cass., 13 dicembre 2006, n. 28694).
Tale vizio è correttamente denunciato – come nel caso di specie – in sede di
legittimità, attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate
dal medesimo giudice (e non già tramite una critica di rette della consulenza
stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel
ricorso per cassazione al fine di consentire, su di esse, la valutazione di
decisività (Cass., 28 marzo 2006, n. 7078).” (Corte di Cassazione
Prima civile Data: 20.03.2013 Numero: 7041)
Lascia effettivamente perplessi il fatto che la Suprema Corte
identifichi una valida critica scientifica nel lavoro di due sole
psicologhe e nel pronunciamento della associazione spagnola,
ignorando però il vastissimo novero di pubblicazioni scientifiche
che invece utilizzano -e convalidano- il concetto di “PAS” o di
“Alienazione Parentale” (oltre cinquecento, e di grande spessore
scientifico, i lavori riportati in Parental Alienation, DSM-V, and
ICD-11, l’articolo di William Bernet, Wilfrid von Boch-Galhau,
Amy J. L. Baker e Stephen L. Morrison, in The American Journal
of Family Therapy, Volume 38 , Issue 2 , 2010, nello speciale
dedicato proprio alla “Proposal That Parental Alienation Be
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Accepted as a Diagnosis”).
D’altra parte, la stessa Cassazione nemmeno due settimane
prima la sentenza sopra citata, aveva riconosciuto come valida una
diagnosi di PAS formulata dalla ASL, stabilendo che il distruggere
un genitore agli occhi del figlio può comportare la perdita
dell’affido, stante i danni provocati dalla interruzione dei rapporti
con la madre.
Particolarmente importanti, al riguardo, i seguenti passaggi
della sentenza in questione (sottolineature nostre):
“Nel secondo motivo è dedotta la violazione dell’art. 155 sexies c.c.,
introdotto dalla legge n. 54 del 2006 (sulla scorta degli artt. 12 della
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e 6 della Convenzione di
Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la legge n. 77 del 2003), per
la mancata audizione dei minori … e … (rispettivamente di quindici e nove
anni nel 2010).
Il motivo infondato oltre che generico. Il ricorrente non ha precisato a
quale fase del giudizio sia riferita la denunciata violazione, né tiene conto che
l’audizione dei figli minori (che abbiano compiuto dodici anni e anche di età
inferiore ove capaci di discernimento) costituisce un adempimento necessario
nelle procedure relative al loro affidamento nel primo grado di giudizio, con la
conseguenza che la nullità della sentenza per la violazione dell’obbligo di
audizione può essere fatta valere nei limiti e secondo le regole fissate dall’art.
161 c.p.c. e, dunque, è deducibile con l’appello (v. Cass. n. 1251/2012). Il
motivo inoltre è sfornito di elementi idonei ad intaccare la decisione
sull’affidamento motivata in ragione dell’esistenza di una sindrome da
alienazione parentale (PAS) causata da pressioni paterne che avrebbero
inficiato i risultati dell’audizione .
Nel terzo motivo è dedotto il vizio di motivazione per essere la decisione
sull’affidamento stata assunta sulla base di una relazione svolta ad altri fini
dal Servizio di psichiatria della Asl, cioè nell’ambito di un percorso di
mediazione familiare attivato dal tribunale per i minorenni, ed irritualmente
acquisita d’ufficio dalla Corte di appello senza tenere conto di altri elementi
istruttori in atti.
Il motivo è infondato. La Corte di Appello, utilizzando la predetta
relazione della Asl che diagnosticava una sindrome da alienazione parentale
dei figli ed evidenziava il danno irreparabile da essi subito per la privazione
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del rapporto con la madre, si è limitata a fare uso del potere, attribuito al
giudice dall’art. 155 sexies, comma 1, c.c., di assumere mezzi di prova anche
d’ufficio ai fini della decisione sul loro affidamento esclusivo alla madre . Essa,
inoltre, ha fondato la decisione anche su altri elementi non specificatamente
censurati dal ricorrente, concernenti il giudizio negativo circa le attitudini
genitoriali del padre (desunto anche dalla reiterata condotta ostruzionistica
posta in essere al fine di ostacolare in ogni modo gli incontri dei figli con la
madre), dandone conto in una motivazione priva di vizi logici e quindi
incensurabile in questa sede. La corte di appello ha comunque auspicato la
futura ripresa dei rapporti tra il padre e i figli, demandando al servizio di
psichiatria dell’Asl competente di Siracusa di predisporre un idoneo progetto
in tal senso.
Nel quarto motivo si censura la sentenza impugnata per vizio di
motivazione per non avere valutato le attitudini genitoriali della madre, che
rivelerebbero il suo intento di allontanare i figli del padre.
Il motivo è infondato. La corte di merito ha motivato ampiamente e senza
incorrere in vizi logici, nemmeno specificamente denunciati, in ordine alle piene
attitudini genitoriali di …., affermando tra l’altro che, contrariamente a
quanto denunciato dal …, “non è emerso alcun disturbo psichico, né è mai
stata dimostrata l’esistenza di una condotta della …. pregiudizievole per i
figli”
Con la sentenza del 12 aprile – 14 maggio 2012, n. 7452,
invece, viene dichiarata adeguata una diagnosi di alienazione
parentale atta a promuovere un riusarcimento del danno verso il
genitore alienato. Nella sentenza appellata, infatti, vi era stata “la
condanna ai sensi dell’art. 709 ter c.p.c. della M. – ritenuta responsabile della
sindrome da alienazione genitoriale da cui era affetta la figlia – al
risarcimento del danno, liquidato in € 15.000,00 in favore del marito e in €
20.000,00 in favore della figlia”. Non ci sembra ininfluente notare qui
che tutte e tre le sentenze di Cassazione, sia dunque quella che nega
l’utilizzo della PAS a fini diagnostici, sia le altre due che lo
accettano, sono della stessa Sezione e dello stesso Presidente.
All’indomani della Cassazione del 20 marzo 2013, la SINPIA ha
emesso un comunicato nel quale chiariva il proprio punto di vista
relativamente all’utilizzo della diagnosi di “PAS” e all’utilizzo del
concetto di “Alienazione Parentale”:
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“Comunicato redatto dalla SINPIA (Società Italiana di
Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza) in merito alla sentenza n.
7041 del 20.03.2013.
La Societa’ Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e
dell’Adolescenza ritiene opportuno esprimere il proprio parere in merito all’eco
destata dalla recente sentenza n. 7041 del 20.03.2013 della Corte di
Cassazione e dalle affermazioni ivi contenute circa la nozione di PAS
(Parental Alienation Syndrome).
In primo luogo, al di la’ dell’opportunita che l’autorità giudiziaria si
sostituisca alla comunita’ scientifica nel rilasciare giudizi su argomenti
altamente specialistici, si ritiene che il problema relativo all’esistenza o meno
di una “sindrome” legata all’alienazione di una figura genitoriale venga posto
in modo incongruo.
Fenomeni come il mobbing, lo stalking ed il maltrattamentoesistono ed
assumono valenze giuridiche a prescindere dal riconoscimento di disturbi
identificabili come sintomatici.
La comunità scientifica e’ concorde nel ritenere che la alienazione di un
genitore non rappresenti di per se’ un disturbo individuale a carico del figlio
ma piuttosto un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicoaffettivo
del minore stesso.
Tale nozione compare gia’ nel DSM IV nel’Asse V tra i Problemi
Relazionali Genitore – Figlio; e’ previsto il suo inserimento nella prossima
edizione del DSM V all’interno della nuova categoria dei Disturbi
Relazionali, in quanto il fenomeno origina da una patologia della relazione
che include il bambino ed entrambi i genitori, ognuno dei quali porta il proprio
contributo.
In secondo luogo, colpisce come la Suprema Corte abbia espresso il
proprio parere senza fare riferimento ai criteri enunciati nella sentenza
Cozzini (Cass. Pen. 17.09.10, n. 43786) la quale ha dettato i criteri per
stabilire i criteri di scientificità di una teoria tra cui la “generale
accettazione”della teoria stessa da parte della comunità di esperti.
Sotto questo profilo, si sottolinea come esista una vasta letteratura
nazionale ed internazionale che conferma la scientificità del fenomeno della
Parental Alienation, termine questo da preferirsi a quello di PAS; negli Stati
Uniti ad esempio tale costrutto ha superato i criteri fissati dai Frye e Daubert
Rules per essere riconosciuti come scientificamente validi dalle competenti
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autorità giudiziarie. La nozione di Alienazione Parentale e’ inoltre
riconosciuta come possibile causa di maltrattamento psicologico dalle Linee
Guida in tema di abuso sui minori della SINPIA (2007).
La SINPIA ribadisce come sia importante adottare le precauzioni e le
misure necessarie , come impongono lerecenti sentenze della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo, per garantire il diritto del minore alla bigenitorialita’ e
tutelarlo dagli ostacoli che lo possono minacciare.”
La posizione della SINPIA non sembra lasciar adito a dubbi:
quello che conta è riconoscere che l’alienazione di una figura
genitoriale costituisce un grave fattore di rischio evolutivo per lo
sviluppo psicoaffettivo del minore stesso, e garantire al minore il
diritto alla bigenitorialità.
Che l’ “Alienazione Parentale”, o la PAS, siano però percepiti
come un problema è confermato anche da alcune assicurazioni
americane, che riconoscono il trattamento in caso di disturbi quali
quelli indicati dal DSM al punto Z63.8 Problema Relazionale Genitore-
Bambino [V61.20], laddove così si esprime il DSM IV:
“Z63.8 Problema Relazionale Genitore-Bambino [V61.20]
Questa categoria dovrebbe essere usata quando l’oggetto
dell’attenzione clinica è una modalità di interazione tra genitore e
bambino (per es., comunicazione compromessa, iperprotezione,
disciplina inadeguata) che è associata con una compromissione
clinicamente significativa del funzionamento dei singoli o della
famiglia, o con lo sviluppo di sintomi clinicamente significativi nel
genitore o nel bambino.
Nota per la codificazione Specificare Z63.1 se l’oggetto
dell’attenzione clinica è il bambino.”
I disturbi relazionali che rientrano in questa condizione sono
assicurati dalla ValueOptions, una società di assicurazione sanitaria
statunitense utilizzata prevalentemente da grandi funzionari USA.
Il manuale di gestione dei rapporti con i clienti riporta alcune
spiegazioni che servono a determinare in concreto le patologie
coperte dalla ValueOptions ai suoi clienti.
Per quanto riguarda il codice V 61.20 ecco cosa riporta il
manuale della ValueOptions:
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“I codici di cui sopra dovrebbero essere usati come la diagnosi
primaria e i partecipanti possono essere effettivamente trattati
usando una breve terapia risolutiva.
Le seguenti linee guida devono essere considerate all’interno
del contesto culturale, etnico e spiritual del partecipante, al fine di
massimizzare l’accuratezza della diagnosi, l’effettivita’ del
trattamento\intervento ed il miglior risultato possibile per il
partecipante, la famiglia e la famiglia allargata dove culturalmente
appropriato.
La caratteristica distintiva di questi codici V è che il problema è
il focus dell’attenzione clinica ed è un insieme di interazioni tra i
membri dell’unità relazionale associato con un indebolimento
clinicamente significante di uno o entrambi i membri dell’unità
relazionale. È imperativo che una prima diagnosi di salute mentale
venga esclusa. Questo può valere per due o più membri dell’unità
relazionale che vengono trattati per il problema. Quando questi
problemi sono il focus principale dell’attenzione clinica,
dovrebbero essere elencati su Axis I. Altrimenti se sono presenti
ma non costituiscono il focus principale dell’attenzione clinica
possono essere elencati su Axis IV.
1. La valutazione dovrebbe includere un elemento probatorio
per sintomi associati con problemi relazionali. Una storia completa
dovrebbe essere completata come parte della valutazione per poter
escludere una diagnosi di salute mentale più complicata e dovrebbe
includere la storia di relazioni passate, interventi passati riguardanti
le relazioni, difficoltà nel lavoro passate e presenti e problemi
medici presenti.
2. Considerate i seguenti comportamenti e/o sintomi:
A) discussioni ricorrenti e conflitto tra due individui che causa
preoccupazione e/o distrae dalle attività quotidiane
B) mancanza di comunicazione e/o chiusura nei rapporti
[withdrawal, in originale nel testo] tra individui che risulta in
frustrazione e/o rabbia;
C) modi di comunicazione inappropriati tra individui che
possono includere aspettative irrealizzabili, chiusura nei rapporti
[withdrawal, in originale nel testo] o critiche;
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D) evitare l’individuo che è percepito come la causa dello
stress. Gli individui possono trascorrere troppo tempo a scuola,
lavoro, o a casa di amici per evitare il contatto con l’altra persona;
E) stress relativo alla minaccia della separazione sia da fuga
(per un bambino), o dalla separazione coniugale (per adulti);
F) aumento di irritabilità, assenza di sonno, depressione, e/o
interruzione [withdrawal, in originale nel testo] della vita sociale;
G) un insieme di reazioni rabbiose nei confronti di una terza
parte, che appare essere il trasferimento del primo conflitto
relazionale;
H) facilità al pianto, scarsa energia, ritiro[withdrawal, in
originale nel testo] collegato a preoccupazioni sulla relazione;
I) discussioni che non si risolvono per insufficienza di strategie
di risoluzione dei conflitti;
J) iperprotettività o eccessivo coinvolgimento nelle attività
quotidiane di un altro individuo derivati [secondary, in originale nel
testo] da una patologia medica o mentale che coinvolge l’individuo;
K) discussioni con il coniuge che causano preoccupazione e
influiscono negativamente su performance lavorative.
Problemi relazionali tra genitore e figlio:
• difficoltà relative alla corretta disciplina a casa;
• preoccupazione relativa alle assenze ingiustificate o al
rendimento accademico. Iperprotettività del bambino, limitandone
la capacità di crescere;
• sospetto o conoscenza dell’utilizzo di droga di alcol da parte
del bambino;
• conflitti
genitoriali irrisolti (ad esempio la costante
svalutazione di un genitore da parte dell’altro) in famiglie divorziate
o separate che risultano in sindrome di alienazione parentale.”
(trad.
it.
di
Alessandro
Giordano
–
http://www.valueoptions.com/providers/Handbook/PDFs/Treat
ment_Guidelines/V_CODES_RELATIONAL_PROBLEMS.pdf ).
4.1.1.3 Le polemiche sulla PAS e l’Alienazione Parentale
come momenti di una mistificazione [torna su]
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Per quanto ci riguarda, il problema della “scientificità” della
PAS ci sembra frutto di una grave mistificazione, che
probabilmente nasce dal bisogno di convalidare la dimensione
conflittiva del Diritto come criterio risolutivo dei contrasti
all’interno di relazioni personali e, nello specifico, familiari.
Per affrontare con obiettività l’argomento dei comportamenti
“alienati” di un bambino la cui condotta corrisponde ai criteri
diagnostici della PAS, bisognerebbe infatti confrontare tali
comportamenti con comportamenti analoghi ma che emergessero
in un contesto non separativo.
In terapia della famiglia, il “genitore” che si allea con un figlio
istigandolo contro l’altro, è un evento ben conosciuto e oggetto di
ampie trattazioni (1988, Selvini Palazzoli et al.). L’alleanza tra un
genitore ed un figlio contro l’altro genitore, è sempre stata
considerata, da tutta la la letteratura scientifica sulla terapia della
famiglia, un evento grave, psicopatogenizzante. E quanto accade al
termine di una strumentalizzazione del genere, quando cioè il
minore finisce per scoprire direttamente o indirettamente
“l’inganno” (come lo chiama appunto la Selvini Palazzoli) (1988,
Selvini Palazzoli et al.), un induttore praticamente certo di psicosi.
Il fatto che nei casi delle famiglie unite il comportamento dei
figli non giunga al rifiuto esplicito che si ha nella PAS è ovviamente
coerente con l’assenza (forse anch’essa molto più patologica di una
separazione conflittuale) di separazione esplicita (e abitativa), e del
conflitto che si sviluppa, e porta di fatto gli adulti a legittimare il
proprio arruolare i propri figli nella propria lotta.
Ciò nondimeno, si riscontrano -in questi casi- comportamenti
molto simili a quelli del minore alienato, con uno dei figli, o tutti i
figli, che assumono una posizione silentemente (o non
silentemente) di contrasto aperto all’altro genitore.
In questi casi, però, il comportamento dei genitori viene
considerato patologico, soprattutto quello del genitore che arruola i
figli contro l’altro.
Allo stesso tempo, il comportamento del minore alleato
dell’altro in una famiglia normounita, è considerato “patologico” e
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distorto, e i suoi comportamenti a favore di uno dei genitori
considerati sintomi di un disagio.
D’altra parte, se un minore “normale” facesse oggi in modo di
arrivare a qualche istituzione (Servizi Sociali, Tribunale dei Minori,
ecc.), dichiarando di non voler avere a che fare con uno o entrambi
i suoi genitori, questo comportamento, lungi dall’esser preso come
positivo e normale esprimersi di una volontà autonoma da
legittimare, verrebbe considerato espressione di un disagio familiare
su cui intervenire.
Tanto più, nessuno penserebbe mai di legittimare la volontà di
un minore che tenta di agire simili prese di posizione,
consentendogli cioè di abbandonare uno dei genitori, o entrambi,
per vivere senza il genitore (o i genitori) rifiutato/i.
Per letteratura consolidata, in definitiva, la famiglia “unita” (o
con genitori conviventi), nella quale un genitore si allea con uno o
tutti i minori per istigarlo contro l’altro, è considerata una famiglia
che reca segni anche gravi di disagio, e il gioco delle “alleanze” e
delle “istigazioni” è considerato un gioco “psicotico” (Selvini
Palazzoli, 1988).
Se poi nella famiglia “separata” questo diventa -secondo alcuni,
rari, autori, molti dei quali nemmeno competenti nel settore- un
comportamento “normale”, che non esprime alcun “disagio
psicologico” della famiglia in questione, siamo allora in presenza di
un malcelato -e mistificante- tentativo di asserire, negandolo, che il
conflitto giudiziario modifica i criteri diagnostici usuali e legittima
comportamenti che non sarebbero assolutamente legittimati in una
famiglia “normale” o, se questo termine appare, giustamente!,
elusivo e mistificatorio, in una famiglia convivente. A negare ciò,
non bastano certo le affermazioni di chi nega che la “alienazione
parentale” sia un grave problema, e che il comportamento del
bambino sia disfunzionale ed espressione di
problematiche
psicopatologiche profonde, sostenendo che la sua sia una “scelta”
(termine autoreferenziale che non definisce certo la radice del
comportamento alienato) nata da problemi di “rapporto” con l’altro
genitore, e questo dal momento che è evidente come queste
affermazioni
nascondano
tautologie
autoreferenziali
che
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nascondono il proprio semplificazionismo all’interno di una
spiegazione che non descrive null’altro che se stessa. Tutto, infatti,
può essere “una scelta” da parte del minore (anche il non volersi
più recare a scuola) ma questo (come lo stesso esempio della scuola
ci fa comprendere) non implica affatto che sia una scelta basata su
criteri di “funzionalità” e, soprattutto, cui dar credito e seguito.
D’altra parte, il comportamento del minore che rientra nei
criteri diagnostici della cosiddetta PAS è un comportamento
sicuramente distanti dai canoni che usualmente si utilizzano per
definire la “normalità”. Non altrimenti si può dire, ad esempio, dei
motivi che il minore utilizza per spiegare il proprio appoggio al
genitore cosiddetto alienante e i motivi addotti per non frequentare
l’altro genitore. Le cosiddette “razionalizzazioni deboli”, sono
sempre al di fuori di una accettabilità logica (considerata, in questo
caso, come coerenza tra gravità attribuita al fatto e sua
“oggettività”, oggettività che in alcuni casi è del tutto difforme dai
racconti dei minori), e assomigliano a giustificazioni che in altri
campi di esistenza dei minori (scuola, ad esempio) sarebbero
considerate assolutamente inefficaci a generare credibilità.
Il punto fondamentale, in sostanza, è che il rifiuto drastico di
un genitore è di per sé un avvenimento gravissimo ed è
giustificabile solo da motivi che nei casi di “Alienazione Parentale”
sono del tutto assenti.
Analoga inquietudine dovrebbe poi essere suscitata anche da
quei casi nei quali, spesso pressoché di colpo e a volte in occasione
di momenti cruciali del contenzioso giudiziario, il comportamento
di rifiuto del genitore da parte dei minori recede, e i minori
riprendono a frequentare il padre o la madre alienati come se nulla
fosse. Comportamenti di trasformazione così radicali fanno pensare
a vere e proprie forme di negazione (Verrocchio, 2013), correlate
alla presenza di un “Falso Se”,
problematica riscontrata
frequentemente proprio nei minori con riconosciuta diagnosi di
PAS. (Lavadera-Marasco, 2005): in questi casi, si vedono infatti
minori che dopo aver per mesi, o magari per anni, ostacolato
ferocemente e con accuse tra le più risibili quanto atrocemente
presentate, cancellano di colpo ogni ritrosia e come se nulla fosse
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tornano a frequentare il genitore alienato, ricoprendolo di gesti
affettuosi e pieni di interesse, del tutto improponibili fino a
qualche settimana prima.
Modifiche così drastiche del comportamento fanno pensare a
problematiche psicopatologiche molto profonde quanto gravi, e
occorrerebbe poter studiare adeguatamente soprattutto casi del
genere.
Bisogna però puntualizzare un dato: in realtà non esistono
studi volti ad appurare realmente la presenza di psicopatologie vere
e proprie nei minori che possono rientrare nella definizione di
minori affetti da PAS. Anche se molte CTU tendono ad
approfondire le problematiche psicologiche profonde, le batterie
testologiche impiegate raramente appaiono sufficienti ad esplorare
la presenza di eventuali psicopatologie nei minori indagati.
Questo riafferma -a nostro avviso- il punto fondamentale: la
PAS, e/o l’Alienazione Parentale costituiscono in realtà un fantasma
rimosso nella nostra cultura, proprio perché esprimono con grande
chiarezza il danno che una cultura del conflitto e della difesa ad
oltranza del “diritto” del singolo e non della relazione possono
comportare. Ad un livello ancora superiore dimostrano, per di più,
come la nostra cultura riesce ad occultare -proprio per nascondere
queste evidenze- i segnali di disagio, anche gravissimo, dei minori,
allorché tali segnali tendono a mettere in crisi le proprie premesse
culturali e i propri codici operativi (quale quello, ad esempio,
dell’utilizzo ad oltranza del Diritto nel contenzioso familiare).
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5. IPOTESI DI GESTIONE CLINICA DEI CONTESTI
GENITORIALI MOBIZZANTI E ALIENANTI
5.1. La gestione dei contesti a transazione mobbizzante:
l’intervento del Tribunale o di suoi incaricati [torna su]
Per quanto riguarda i tentativi di correzione dei disturbi della
frequentazione genitore-figli, vi sono due categorie di strumenti di
solito utilizzati (o indicati) per farvi fronte.
La categoria di interventi più comune, più percepita come
“ovvia” e “giusta” (ma non necessariamente percepita come
“adeguata”, riconoscendone praticamente tutti la sostanziale
inutilità) è quella effettuata tramite ricorso al giudice. A questi di
norma viene chiesto, in caso di impedimento alle frequentazioni, o
una modifica in toto delle modalità di affido (da condiviso ad
esclusivo), o una modifica delle modalità di frequentazione fra il
genitore mobbizzato ed il figlio.
Una terza possibilità è la richiesta di autorizzare una esecuzione
coattiva delle statuizioni giudiziarie, vale a dire la richiesta di far
eseguire con intervento della Forza Pubblica quanto stabilito in
merito ai rapporti genitore-figli. Usualmente questa modalità è
poco utilizzata, perché ritenuta di fatto “ideologicamente”
scorretta, e lesiva della stabilità psicofisica del minore (come recenti
fatti di cronaca, e l’eco che hanno avuto, dimostrano).
Anche questo implica di fatto un paradosso illuminante, che
denuncia tutta la confusione che si agita nella nostra cultura in tema
i rapporti genitori-figli. Il punto è, infatti, che si postula una
gestione giudiziaria delle conflittualità genitoriali in tema di
accudimento dei figli, e poi si trova però scandaloso e inaccettabile
una gestione giudiziaria dei dispositivi giudiziari. La problematica si
presenta ancor più complicata se si tiene presente che nessuno
trova scandaloso che i figli di famiglie disagiate (e magari definite
tali per soli motivi economici) ma non necessariamente conflittuali,
siano sottratti agli stessi con grande spiegamento di forze di polizia,
allorché cioè devono esser affidati a case famiglia su ordine del
Tribunale dei Minori. In questi casi l’impiego di Polizia, Vigili
Urbani, Assistenti Sociali che eseguono il “prelievo” della prole non
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desta assolutamente lo scandalo che desta invece la vicenda del
bambino sottratto alla mamma (o al padre) che non lo fa vedere
all’altro genitore.
A prescinder comunque da ciò, e ritornando al tema delle
soluzioni tentate per ripristinare la continuità relazionale genitore-
figli, è comunque evidente che le modalità attuate tramite richiesta
al Giudice di intervenire con statuizioni più efficaci, discendono
entrambi dalla concezione secondo cui il disturbo della
frequentazione genitore-figli è un problema essenzialmente
giudiziario da risolvere con metodiche specificamente giudiziarie
(anche se la modifica dell’affido e/o delle frequentazioni
necessariamente si fonda su una prospettiva psicologica, utilizzata
però in modo strumentale alla affermazione della forza del Diritto).
Al di fuori di questa categoria di interventi (che potremmo
definire categorie di richiesta di esasperazione dell’intervento
giudiziario), ve ne è un’altra, che potremmo definire
“extragiudiziale”, entro la quale, più che altro per brevità espositiva,
abbiamo incluso due (o tre, a seconda dei punti di vista) modalità di
intervento attualmente praticate.
In realtà, anche queste modalità sono disposte o indicate dal
Giudice, almeno nella stragrande maggioranze dei casi e questo a
conferma del fatto che nella nostra cultura il conflitto genitoriale
per la gestione della prole è percepito come un problema di
“giustizia” e non di “salute” (pur essendo tutti consapevoli che gli
effetti più tragici sono a livello psicofisico, e che a determinare tali
conflitti è comunque un problema psichico, che si concretizza in
una errata percezione dei limiti del proprio ruolo genitoriale).
In questo paragrafo, intendiamo dunque parlare di queste due
(o tre) modalità di intervento.
La prima, quella più invocato -e più evocato- per porre fine a
contesti di così grave conflittualità genitoriale è la Mediazione del
Conflitto.
In Italia, il primo in assoluto esperimento di Mediazione del
Conflitto, in caso di grave conflittualità genitoriale, fu effettuato nel
1986 da uno degli autori di questo articolo, il dr. Gaetano
Giordano, presso l’Istituto di Psicologia Analitica (Riza
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Psicosomatica, pubblicità anno 1986), e venne denominato
“Divorce Counseling”, mancando all’epoca una esatta terminologia
italiana e mutuando il termine dalle esperienze americane di
Coogler (Coogler, 1978), (Giordano, 1985),
Col tempo, però, fu chiaro che la mediazione poteva essere uno
strumento privilegiato solo nel caso in cui entrambi i coniugi,
superando almeno parzialmente gli “acting out” giudiziari (Salluzzo,
2004) legati all’esprimersi delle reciproche conflittualità,
accettavano l’ipotesi di poter andare d’accordo.
Diveniva così esiguo il numero di coloro che riuscivano a
praticare con profitto, e specie in assenza di disposizioni del
Tribunale (all’epoca del tutto sconosciute quanto impensabili), una
“Mediazione” accettabile e non mediata dalla ricattatorietà che
puntualmente si esprime allorché uno dei due coniugi diviene
consapevole che in caso di interruzione della mediazione, con ogni
probabilità uscirà vincitore dal reinstauratosi conflitto giudiziario,
prospettiva che molto più frequentemente vale appunto per le
madri.
A parere di chi scrive, tali obiezioni sono ancora in gran parte
valide, non essendo mutato di molto lo scenario nel quale la
Mediazione viene ad operare e, soprattutto, non essendo mutato di
molto il contesto di gestione -giudiziaria e sociale entro il quale la
Mediazione si colloca e viene utilizzata.
In realtà, come detto precedentemente, il vero problema è che
l’intervento della giustizia non solo rischia di essere sempre molto
tardivo, ma – proprio in virtù della natura conflittiva del percorso
giudiziario – rischia di non rendere mai premiante il ricorso a
percorsi a-conflittivi, come è la Mediazione, la quale individua come
propria strategia la collaborazione (e non il conflitto), e come
obbiettivo la condivisione (e non la supremazia), proponendo
appunto come detto un gioco a somma diversa da zero, nel quale
cioè i vantaggi dell’uno non portino a zero quelli dell’altro ma
facciano parte di una, diciamo così, contabilità condivisa.
Vista dunque con gli occhi di chi “vuole vincere la causa”
perché sa che se vince ottiene molti più benefici di quelli che
avrebbe se condividesse con l’altro fiducia e responsabilità (ecco il
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“dilemma dei prigionieri”) abbiamo che nella maggior parte dei casi
la Mediazione viene percepita come un percorso inutile e di perdita,
ovviamente in una logica nella quale prevale una prospettiva per
così dire di “subottimizzazione”, vale a dire una logica in base alla
quale il genitore che si augura di uscir “vincitore” dal conflitto con
l’altro coniuge, identifica il proprio benessere con quello del figlio.
In sintesi, la Mediazione del Conflitto difficilmente riesce ad
accreditarsi come strategia utile alla coppia in conflitto in quanto è
iscritta in un sistema che distrugge l’utilità.
Gli altri interventi di recupero della genitorialità sono espletati
di norma dai Servizi Sociali, dalle ASL o da istituzioni analoghe e
sempre su incarico del Tribunale, anche qui a riprova di come il
Diritto sia in questo momento un sistema autoreferenziale che
ingloba ogni soluzione relativa alle problematiche di conflittualità
genitoriale.
Gli interventi di cui stiamo parlando, comunque, possono
essere di pura osservazione e valutazione -in assenza cioè dei
tentativi di recuperare situazioni patologiche- o anche contenere
l’indicazione di un intervento volto al recupero della situazione.
Nel primo caso, il Giudice dà mandato di “monitorare” la
situazione per riferirgli, onde disponga gli interventi che ritiene più
adeguati; tra queste richieste, vi può essere quella rivolta -in genere
al Servizio Sociale, o anche al consultorio di zona, o alla ASL- di
“valutare l’adeguatezza genitoriale dei due ex coniugi”, ovvero di
indagare quali sono i rapporti tra genitori e figli. Usualmente, non è
previsto all’espletamento di questi incarichi partecipino i consulenti
delle parti: in realtà si tratta sempre di forme di consulenza tecnica
che il Giudice, agendo nell’ambito della volontaria giurisdizione,
può richiedere vengano espletate da un suo consulente di fiducia.
Ciò implica un dato però fondamentale: questo tipo di
consulenza, considerato meno impegnativo e fondante di una CTU
vera e propria, in quanto svolta in assenza di professionisti
appositamente designati, si qualifica in realtà come uno strumento
assolutamente delicato e, a nostro avviso, “pericoloso”: non
raramente lascia perplesse e scontente le parti, e altrettanto non
raramente incide pesantemente (e senza che le parti possano dire la
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loro) sulla situazione della coppia: l’assenza di consulenti di parte
rende di fatto l’operatore che interviene una sorta di “deus ex
machina” che interviene in assenza di qualsiasi contraddittorio e
con poteri quanto mai ampi.
Fermo restando infatti che il giudicante, almeno formalmente,
si riserva di valutare il contenuto di tali consulenze (rimanendo
sempre “peritus peritorum”), vero è che nella stragrande
maggioranza dei casi il Giudice sembra recepire abbastanza
passivamente quanto indicato dai suoi consulenti, e questo senza
che le parti possano dunque intervenire ad esprimere i propri punti
di vista.
Alcuni giudici, in questi casi, negano anche alle parti la
possibilità di depositare le proprie osservazioni su quanto opinato
dagli operatori incaricati, e questo di fatto crea, il più delle volte un
certo malcontento, alimentato dal fatto che in alcuni casi sembrano
fondate le critiche rivolte agli operatori, che appaiono agire in
modo superficiale e non sempre sembrano dotati di una accettabile
preparazione specifica. In più, non raramente L’argomento è in
realtà molto delicato, perché dai pareri di questi operatori
discenderanno poi -come detto precedentemente- provvedimenti
che segnerannno per anni e anni la vita di adulti e minori.
Se in queste ultime righe abbiamo sinteticamente descritto
incarichi dai soli aspetti di “consulenza”, nei quali cioè i Servizi
Sociali o comunque gli operatori incaricati devono solo riferire su
quanto vedono esprimersi nelle coppie di genitori relativamente
all’esercizio della genitorialità, passiamo ora a discutere di quegli
interventi che il Giudice a volte dispone per rimediare ai gravi
problemi di conflittualità che emergono nelle coppie in
separazione.
In questi casi, nelle more di un procedimento di separazione (e
anche a causa della grave -in termini di traumaticità dell’esperienza-
durata dello stesso), il Giudice dà mandato ai Servizi Sociali (o,
anche qui, al Consultorio di zona o ad un settore specializzato della
ASL) di intervenire per porre rimedio ai disturbi della
frequentazione, e dei rapporti genitore-figli, che emergono nei
sistemi familiari in separazione.
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Si tratta dunque di incarichi che hanno già una dichiarata
valenza terapeutica, e che proprio per questo abbisognerebbero di
particolari competenze.
In realtà, nella maggior parte dei casi tali interventi sono
recepiti con una certa insoddisfazione, da parte degli utenti cui
sono rivolti.
Il più delle volte, infatti, risultano inutili o addirittura frustranti,
per una molteplicità di motivi, che vanno dalla scarsa disponibilità
di uno dei genitori (in genere l’affidatario o il collocatario
prevalente), alla incapacità dell’altro di accettare l’intervento esterno
(vissuto con quella diffidenza e sospettosità verso i professionisti,
tipica del genitore deprivato di un figlio) alla -bisogna pur dirlo-
scarsa preparazione e competenza degli operatori che intervengono.
Il genitore affidatario o collocatario con il figlio, tende infatti a
sabotare una tale “terapia” e gli incontri, anche laddove il percorso
sia stato stabilito da un dispositivo del Tribunale, aderendovi
svogliatamente e trascurando che il figlio vi partecipi con puntualità
e precisione, e assumendo dunque un atteggiamento svalutativo sia
rispetto alla qualità dell’intervento, sia alla adeguatezza dei
professionisti coinvolti.
Il genitore vittima della rescissione dei rapporti, invece, tende
ad avere ovviamente una partecipazione puntuale e precisa, specie
agli inizi, ma non raramente tende a inutilizzare il percorso
ponendosi in modalità rivendicatoria, e sterile, verso il fine
proposto e, nel caso, verso gli operatori.
I quali, e dobbiamo segnalarlo, non sempre sono all’altezza del
compito affidato loro, sia perché percepiscono come frustrante e
demotivante il clima creato dagli adulti, sia perché non dispongono
di conoscenze tecniche specifiche, sia perché non rarissimamente,
per non dire il più delle volte, si dispongono a organizzare la
“terapia” come se trattassero una pratica burocratica. Anche a costo
di essere ingenerosi verso quegli operatori competenti ed entusiasti
che -e ce ne sono molti- attendono ad interventi del genere con
scrupolo ed attenzione, bisogna infatti considerare come in molte
occasioni incarichi del genere sono percepiti dagli operatori
incaricati non come indicazioni a svolgere una terapia che sarà
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fondamentale nella vita dei soggetti coinvolti (e lo sarà di fatto
quanto un intervento chirurgico a cuore aperto, perché sono
interventi da cui dipende l’esclusione dalla vita di tutti di un
familiare), ma come indicazioni burocratiche ad assolvere un
compito essenzialmente burocratico, nel quale, in aggiunta, saranno
riversate molte delle insoddisfazioni professionali e personali
dell’operatore, allorché dovrà confrontarsi con soggetti irritati,
diffidenti, aggressivi, rivendicatori, svalutanti. L’incapacità a
pensare al contatto con questi soggetti in termini di “rapporto
psicoterapico”, e a gestire le problematiche personali che tali
contatti innescano, il considerare tutto come una pratica da evadere
sbrigativamente e negli orari di lavoro, magari pensando ad altro,
l’assenza di competenze e conoscenze professionali specialistiche (e
di un percorso personale di gestione delle proprie problematiche)
sono i veri punti critici che rendono puntualmente fallimentari o
quanto meno inadeguati i suddetti tentativi di recupero della
genitorialità.
In tanti anni di coinvolgimento in contesti del genere, solo in
una occasione abbiamo trovato infatti genitori soddisfatti del
programma terapeutico impostato: avevano lavorato con una
psichiatra e una psicologa giovani ed entusiasti. Osservato da
questo punto di vista, grande importanza potrebbe avere dunque
anche la predisposizione con il quale il professionista affronta la
terapia, non essendo inverosimile che nei casi più gravi si attivi, per
così dire, un cortocircuito, nel quale il crollo delle aspettative nei
genitori (per motivi opposti), convalida nei terapisti l’inutilità di
averne delle proprie.
Usualmente, i setting individuati in questo tipo di interventi
sono abbastanza “banali”: fondati su una generica impostazione
sistemico-relazionale, prevedono incontri che durano un’ora, basati
sul colloquio tra il terapista e il o i minori coinvolti nella
separazione, ai quali vengono invitati a volte a partecipare anche i
genitori di questi.
I colloqui tendono ad approfondire cosa accade ai minori al di
fuori degli incontri, e i motivi per i quali i rapporti con l’altro
genitore sono rarefatti o nulli.
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Data la grande (e grave, a nostro avviso) atipia del setting, in
genere il colloquio si fonda sul cercare di far percepire come
infondato e dannoso l’interruzione dei rapporti tra il figlio e il
genitore, ovvero di favorire (in caso di sedute congiunte), il dialogo
genitore-figlio, o anche tra i due ex coniugi e i minori.
In diversi casi, nel genitore per il cui “recupero” è predisposto
l’intervento, viene riscontrato un atteggiamento rivendicatorio e
aggressivo, di cui gli viene fatto carico (e che viene segnalato anche
nelle relazioni al tribunale).
Molto probabilmente, tale atteggiamento è il risultato sia di
pregressi stili cognitivi e caratteriali, o di pregressi disagi della
personalità, sia, unitamente a questi, della dimensione gravemente
traumatica che si esperisce allorché ci si vede interrotti i rapporti
con i propri figli.
Non raramente, però, e questo anche per inesperienza o non
completa formazione degli operatori, tale atteggiamento viene
identificato come il vero problema, quello che tiene lontano il
minore dal genitore rescisso, e questo complica notevolmente le
possibilità di recupero della situazione.
Non sempre, cioè, gli
operatori si rendono conto che l’atteggiamento rivendicatorio,
aggressivo e ostile del genitore rifiutato o deprivato ha una netta
valenza post-traumatica, e ne fanno carico al genitore quasi come se
fosse una sua scelta o una sua colpa.
Un tale atteggiamento da parte degli operatori, che a nostro
avviso è grave e può distruggere tutta la terapia intentata, a nostro
avviso potrebbe costituire una imperizia o una colpa anche gravi
(vedasi il paragrafo successivo, relativo ai cenni medico-legali),
perché chi si occupa di casi del genere dovrebbe -e lo esprimiamo
volutamente in linguaggio non scientifico- quanto meno sapere
anticipatamente conto che il minimo che può accadere ad un
genitore privato dei figli sia una reazione di questo genere. Che
certo non deve essere validata sul piano razionale e
comportamentale, ma che comunque va diagnosticata per quello
che è.
Non raramente, comunque, reazioni di questo tipo degli
operatori, che spesso vivono sul piano personale le reazioni e gli
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“acting out” dei genitori con cui hanno a che fare, sono
responsabili del fallimento di siffatte terapie. Dal nostro punto di
vista, non riuscire a gestire -ovviamente in modo costante e
comunque significativo- il proprio “controtransfert” in simili
frangenti costituisce, dato il contesto particolarmente delicato, una
colpa e/o una imperizia anche gravi. Sarebbe tuttavia importante
che nei settori istituzionali più facilmente coinvolti in incarichi del
genere, si avviassero gruppi di ricerca o quanto meno di
aggiornamento, circa terapie del genere, così come gruppi per la
gestione dell’inevitabile burn out.
Bisogna comunque considerare che non esistono ovviamente
protocolli di intervento standardizzati, e che sarebbe pertanto
importante rifarsi a setting ed impostazioni conosciute, in modo da
avere un sicuro riferimento che porti almeno ad operare con
coerenza. Sempre dal nostro punto di vista, riteniamo però che per
affrontare casi del genere bisogna avere solide conoscenze nel
campo della terapia familiare e, comunque, un buon percorso
analitico o, comunque ancora, un addestramento che metta in grado
di far fronte all’inevitabile frustrazione e senso di malcontento che
gestire terapie (e genitori) del genere, comporta.
Purtroppo, riteniamo di dover concludere questo paragrafo con
la constatazione che, in ogni caso, i risultati di questo tipo di
interventi tendono ad essere deludenti, tranne, come detto, rare
evenienze: molto probabilmente, il contesto istituzionale -ASL,
Servizi Sociali, Consultorio, ecc.- non aiuta molto o per nulla nella
riuscita di tali interventi.
5.1.1. Cenni sulla responsabilità professionale degli
operatori dei Servizi Sociali incaricati dal Giudice [torna su]
Avv. Massimiliano Fiorin – Foro di Bologna
La prassi giudiziaria, riguardo alle consulenze affidate agli
operatori dei servizi sociali presso i Comuni e le ASL italiane,
presenta numerose criticità.
In primo luogo, esiste una sensibile discriminazione di tipo
organizzativo-territoriale, secondo la quale il giudice ordinario, il
giudice tutelare, ovvero il Tribunale dei Minorenni, tendono a
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ricorrere ai servizi sociali con frequenza tanto maggiore quanto più
il servizio è strutturato nell’ambito della loro circoscrizione.
In altre parole, nelle zone del territorio nazionale dove il
servizio sociale è meno presente, o comunque meno operativo –
come nei centri urbani minori, e in vaste aree del mezzogiorno – è
più probabile che gli uffici giudiziari tendano a affidarsi a liberi
professionisti, ovvero a omettere il più possibile il ricorso alla
consulenza e/o all’intervento coattivo dei servizi.
Tutto ciò dipende dal fatto che nel nostro ordinamento il
giudice gode di un’ampia discrezionalità nella scelta dei propri
ausiliari. A ciò si aggiunga che, se nei tribunali ordinari esiste un
minimo di tutela procedurale, questa di fatto viene completamente
a mancare presso i tribunali dei minorenni. Di conseguenza, è
presso questi ultimi che le situazioni più critiche e discutibili
assumono un carattere endemico.
Il giudice ordinario, infatti, ai sensi dell’art. 61 c.p.c. deve
“normalmente” scegliere i suoi consulenti tecnici “tra le persone
iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di
attuazione al presente codice”. Il singolo giudice può derogare alle
liste delle persone iscritte nei suddetti albi, per rivolgersi a un altro
professionista di sua fiducia, ma in questo caso deve ottenere
l’autorizzazione del Presidente del Tribunale, e soprattutto rimane
pur sempre soggetto al principio per cui la scelta deve essere
operata tra persone “di particolare competenza tecnica”.
Inoltre, i professionisti scelti dai tribunali civili e penali
operano a seguito di un giuramento, che li vincola a adempiere il
compito ricevuto secondo scienza e coscienza, e comunque
nell’ambito di regole procedurali che consentono alle parti – e agli
specialisti scelti da queste – di intervenire in contraddittorio, sia nel
corso delle indagini di fatto, sia nella fase di elaborazione del parere
del consulente incaricato.
Per quanto invece riguarda i tribunali dei minorenni, che nella
prassi sono sempre più interessati alle situazioni di crisi genitoriale
e di abbandono di minore, è invece quasi completamente esclusa
l’applicabilità delle norme del codice di procedura civile. Ciò
significa che i giudici di detti tribunali (che sono in maggioranza
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non togati) sono soliti incaricare i servizi sociali, ovvero
professionisti esterni di loro fiducia, senza alcun controllo né
possibilità di contraddittorio da parte dei legali che assistono i
genitori interessati.
Lo stesso, peraltro, avviene nel corso dei procedimenti civili di
separazione in cui viene richiesto un provvedimento urgente di
sospensione della potestà genitoriale, o anche solo l’affidamento
esclusivo del minore: non è raro che anche il giudice ordinario, in
questi casi, prima di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, da
affidarsi normalmente a uno psicologo o a un altro specialista – e di
fatto, molte volte, in luogo di questa – si avvalga dei poteri
concessigli in caso di urgenza, per richiedere l’intervento degli
assistenti sociali.
Così, molte volte, fin dal momento in cui la situazione di crisi
viene posta all’attenzione del giudice – a seguito di una denuncia
che normalmente proviene da uno dei genitori, o in casi più rari
dall’ambiente scolastico frequentato dal minore che manifesta
disagio – i servizi sociali del comune di residenza del minore in
questione vengono subito incaricati di intervenire a redigere una
relazione conoscitiva.
Questo fatto, in primo luogo, richiede che i servizi stessi siano
in grado di supportare l’incombenza, cosa che è sempre meno
scontata, sia nei piccoli centri, dove il servizio è meno strutturato,
sia nelle grandi aree urbane, dove gli operatori alle dipendenze del
Comune o dell’Azienda Sanitaria Locale sono spesso sotto
organico.
In genere gli operatori dei servizi, vista l’assenza di stretti limiti
procedurali, prendono contatto con il minore interessato e i suoi
familiari in modo diretto e informale, al di fuori di qualsiasi
possibilità di contraddittorio da parte di professionisti di fiducia
nominati dalla famiglia. Anzi, le linee guida che vengono
normalmente seguite dagli assistenti sociali suggeriscono che
l’assunzione di informazioni, nelle situazioni di crisi familiare,
avvenga al di fuori di qualsiasi interferenza esterna, soprattutto
quella degli avvocati, che tendono a essere considerati come fattori
di disturbo per l’accertamento della verità.
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Gli assistenti sociali sono altresì espressamente richiesti di
relazionare con attenzione – assieme ai vari particolari della
situazione di fatto, e all’anamnesi della storia pregressa e attuale
della coppia genitoriale – anche le reazioni frapposte dai genitori
interessati dal loro intervento. In particolare, viene evidenziato se
gli stessi si dimostrano collaborativi, ovvero ostili, nei confronti
dell’intervento dell’operatore.
Già questa prassi può comportare un sensibile squilibrio di
fondo, nel successivo trattamento delle situazioni di crisi familiare e
genitoriale. Infatti, le eventuali reazioni negative di uno o entrambi i
genitori di fronte all’intervento coattivo dei servizi (ostilità,
freddezza, rifiuto di fornire informazioni, scarsa disponibilità a
vedere invasa da un estraneo la propria intimità familiare, già messa
a dura prova dalla crisi), benché siano perfettamente spiegabili e
addirittura prevedibili su un piano psicologico, rappresentano un
fattore assai negativo nella valutazione che verrà data da parte
dell’assistente sociale.
Allo stesso modo, è facile vedere che in molte relazioni
predisposte a uso del magistrato, gli assistenti sociali prediligono,
nell’osservazione della situazione di fatto, i particolari che rivelano
le condizioni sociali e economiche del genitore, e talvolta la sua
affidabilità “sociale” (puntualità, abilità nella cura del bambino, o
addirittura eventuali trasandatezze nel vestire e nell’igiene
personale). Tutto questo, però, senza troppo riguardo per le
possibili cause psicologiche dei disagi apparenti.
Il problema consiste dunque nella preparazione di fondo degli
assistenti sociali, che è molto più di tipo sociologico che
psicologico. In Italia, la legge istitutiva dell’ordine degli assistenti
sociali risale al 1993, dopo che la professione era stata svolta
esclusivamente da operatori volontari, spesso privi di una reale
formazione specifica. I corsi di laurea specialistica per assistenti
sociali hanno preso quota solo dopo il D.P.R. 5 giugno 2001, n. 328,
che tuttora consente di operare in questo settore anche a coloro che
sono privi di laurea specialistica, ma hanno conseguito soltanto un
diploma di laurea triennale.
Ad ogni modo, la formazione degli assistenti sociali è per
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l’appunto di tipo prevalentemente sociologico, senza particolari
approfondimenti di psicologia della famiglia, o di psicologia dell’età
evolutiva. Tutto questo è perfettamente riscontrabile nel modo in
cui, di fatto, essi si trovano a dovere esprimere giudizi sull’idoneità
genitoriale delle persone che vengono sottoposte alla loro
valutazione: le problematiche di tipo economico e sociale tendono a
essere valorizzate molto più che non i bisogni affettivi, per non
parlare della evidente insufficienza di questi operatori nel saper
riconoscere e affrontare i disturbi del comportamento o le sindromi
da separazione, tra le quali il mobbing genitoriale.
Se si considera che, in molti casi, il parere dei servizi sociali
diventa di fatto determinante per la decisione del giudice di
allontanare il minore dalla famiglia, o di negare l’affidamento dello
stesso a un genitore, si possono intuire i rischi ai quali i figli di
coppie genitoriali in crisi si trovano esposti.
Capita spesso, agli avvocati, di sentirsi chiedere dai genitori
interessati da provvedimenti giudiziari riguardanti la loro idoneità
genitoriale, se sia possibile denunciare gli assistenti sociali o gli altri
ausiliari del giudice (se non proprio il giudice stesso), per i giudizi
espressi nelle relazioni e nei provvedimenti.
Il più delle volte si tratta delle reazioni istintive di chi, in effetti,
si vede colpito da un duro giudizio relativo alla propria sfera
personale e affettiva, che viene comprensibilmente ritenuto troppo
gratuito e infamante. Tant’è che, in molti casi, la superficialità con
la quale vengono espresse certe valutazioni piuttosto tranchant sulla
idoneità genitoriale, se non proprio sull’equilibrio mentale del
soggetto esaminato, colpisce anche l’occhio dell’osservatore
imparziale. Tuttavia, le possibilità di ottenere soddisfazione
giudiziaria contro la superficialità e l’incompetenza con cui
vengono espressi certi giudizi è molto bassa e aleatoria.
Il nostro ordinamento conosce varie fattispecie penali, più o
meno legate a quella della consulenza infedele o dell’intralcio alla
giustizia, in cui l’ausiliario del giudice ha agito dolosamente contro i
propri doveri.
Sussiste anche la responsabilità civile dell’ausiliario del giudice
che commette un falso ideologico o materiale nelle sue relazioni
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(anche se, di fatto, è assai difficile che vengano scoperti casi in cui
l’interessato abbia rappresentato volontariamente fatti non contrari
al vero).
Ma a parte queste situazioni estreme, la possibilità di
impugnare relazioni viziate dalla manifesta incompetenza del perito
che le redige, o di invocare per lo stesso motivo una sua
responsabilità professionale presso l’Ordine di appartenenza, è
alquanto ridotta.
Intanto, non è mai punibile di per se stessa l’offensività di certi
giudizi per la reputazione dei genitori o dei minori interessati,
trattandosi di atti destinati a un procedimento giudiziario. Questo a
meno che non si tratti di offese non solo del tutto gratuite, ma
anche completamente estranee alla materia oggetto di accertamento,
cosa che non avviene quasi mai.
Per il resto, va osservato che in questi casi non ci si trova nel
campo – ben più sensibile – in cui la negligenza o l’imperizia del
professionista può dare luogo a responsabilità contrattuale, ma
semmai in quello della responsabilità extracontrattuale da fatto
illecito.
Ora, in linea di principio, tale responsabilità è regolata dall’art.
64 c.p.c. secondo il quale “il consulente tecnico che incorre in colpa grave
nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l’arresto fino a un
anno o con l’ammenda fino a 10.329 euro”. Detto articolo aggiunge
infatti che, oltre alla sanzione pubblicistica, “in ogni caso è dovuto il
risarcimento dei danni causati alle parti”.
Pertanto, la possibilità di venire risarciti dei danni materiali e
morali derivanti da gravi responsabilità colpose dell’ausiliario del
giudice sussiste, ancorché costui operi al di fuori di ogni vincolo
privatistico, atteso che il consulente è un ausiliario del giudice ed
opera in funzione dell’accertamento che al giudice è demandato,
ovvero in funzione del superiore interesse della giustizia (sul punto
v. Cass. civ., 25 maggio 1973, n. 1545).
Per individuare una responsabilità di questo tipo nei confronti
delle parti, occorre rifarsi al criterio della colpa grave, a quello della
sussistenza effettiva del danno, e infine al nesso di causalità tra la
condotta del perito e il danno stesso (Cass., Sez. III, 1 dicembre
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2004, n. 22587). Il consulente del giudice, quindi, come ogni
professionista intellettuale, risponde dei danni cagionati alla parte
che siano in rapporto di causalità con le sue attività, laddove nello
svolgimento dei suoi compiti sia riconoscibile in capo all’operante il
requisito della colpa grave.
Tuttavia, al danneggiato compete la prova, oltre che del danno,
anche quella del nesso di causalità tra esso e la condotta del
consulente, e soprattutto la caratterizzazione della colpa in capo a
costui in termini di assoluta gravità. Per questi motivi, se la
possibilità esiste sul piano teorico, è piuttosto difficile provare che
il consulente del giudice abbia agito con colpa grave, consistente in
negligenza o imperizia professionale. Queste ultime, infatti, in
mancanza del vincolo contrattuale con la parte che subisce la
perizia, vengono valutate in modo meno rigoroso.
Occorrerebbe, in linea di principio, che nell’attività del
consulente sia completamente mancata l’assunzione di elementi di
fatto decisivi per la valutazione del caso (negligenza), oppure che –
non necessariamente in alternativa – tali elementi siano stati valutati
con assoluta incompetenza professionale, rispetto alle conoscenze
che sarebbero richieste per svolgere il ruolo (imperizia). Ciò al
punto che, al limite, in simili casi si dovrebbe ritenere che il perito
avrebbe dovuto piuttosto astenersi dal prestare il proprio giudizio,
riconoscendosi privo di conoscenze adeguate.
Esiste infine la possibilità di presentare esposti al comitato
giudiziario che, ai sensi degli articoli 14 e seguenti del codice di
procedura civile, provvede alla scelta e alla nomina dei consulenti
tecnici che vengono inseriti negli albi, ed è responsabile dei
procedimenti disciplinari nei loro confronti. Detti procedimenti
vengono promossi dal Presidente del Tribunale, e possono portare
alla esclusione dall’albo. Tuttavia, casi di esclusione di ausiliari del
giudice, in cui la violazione dei doveri d’ufficio sia stata ravvisata
nella grave imperizia o nell’errore di giudizio, sono abbastanza
residuali.
Alquanto diversa potrebbe essere, in linea di principio, la
situazione che riguarda gli incaricati dei servizi sociali. Infatti, a ben
vedere, la norma dell’art. 64 c.p.c. si applica solo ai consulenti che
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hanno esercitato il proprio in carico a seguito del formale
giuramento, e nelle forme prescritte dal codice di procedura.
Gli operatori dei servizi sociali, che sono richiesti di intervenire
per redigere relazioni conoscitive sulla situazione di crisi
genitoriale, e non vere e proprie consulenze tecniche, possono
essere considerati ausiliari del giudice solo in senso lato, e dunque –
a rigore – potrebbero essere ritenuti esenti dal limite di
responsabilità per la sola colpa grave, prevista dal citato art. 64
c.p.c.
L’esito pratico potrebbe dunque essere diverso: infatti, se per
gli ausiliari del giudice in senso stretto vale il limite della colpa
grave previsto espressamente dall’art. 64, per i semplici incaricati
dal giudice, che operano al di fuori del vincolo della consulenza
tecnica, dovrebbero valere le comuni norme sulla responsabilità
professionale. Vale a dire che l’assistente sociale potrebbe essere
ritenuto responsabile per i danni arrecati ai minori e ai genitori (a
condizione che si provi il nesso di causalità) anche per colpa lieve,
cioè per tutti i casi di negligenza, imperizia o imprudenza
nell’esercizio delle proprie funzioni.
Esiste è vero, l’art. 2236 del codice civile, in virtù del quale tutti
i professionisti intellettuali comunque godono dell’esimente dalla
responsabilità per colpa lieve, nei casi in cui la loro prestazione
implichi “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”. Si
tratta di una norma che, a ben vedere, dovrebbe operare solo nei
casi di responsabilità contrattuale, quando cioè il professionista
opera su mandato del cliente, e non per adempiere a una richiesta
del giudice.
Tuttavia, se da una parte la giurisprudenza sta sempre più
assimilando questo tipo di responsabilità del professionista a quella
contrattuale, in base alla nota teoria del “contatto sociale” che
consente di sopperire alla mancanza di un vero e proprio contratto
d’opera tra le parti, nel contempo essa ha individuato il principio
per il quale “problemi speciali esigono dal professionista una
competenza speciale” (v. Cass. 25 settembre 2012, n. 16254).
Vale a dire che, anche per il professionista che esercita il suo
compito senza vincolo contrattuale tra le parti, è sempre più
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difficile invocare a propria scusante la difficoltà del compito,
pretendendo di essere esonerato da responsabilità per colpa lieve in
base all’art. 2236 cod. civ. Peraltro, va aggiunto che il professionista
non può mai ritenersi esente da colpa, qualora la sua mancanza non
sia consistita in un caso di imperizia – cioè di mancanza di
conoscenze tecniche adeguate – bensì di negligenza o di
imprudenza.
Quanto si è detto per gli assistenti sociali può operare anche
per altri professionisti, in una casistica relativamente nuova, che ha
iniziato a ricorrere più spesso dopo l’approvazione della legge 8
febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso. Capita infatti con
una crescente frequenza che, nell’ambito del trattamento delle
separazioni conflittuali, il giudice incarichi i servizi sociali – ovvero
i propri professionisti di riferimento, specialisti di psicologia – di
intervenire nella situazione di crisi familiare non a scopo
conoscitivo, bensì per aiutare le parti a trovare una soluzione.
Può dunque capitare che all’ausiliario del giudice sia richiesto di
intervenire per verificare le possibilità di recupero di normali
frequentazioni della prole da parte del genitore non affidatario,
oppure per disciplinare le modalità delle visite a fronte della
difficoltà degli interessati di provvedere da soli, o anche, del tutto
esplicitamente, per tentare una mediazione che porti a una
trasformazione del procedimento in una separazione consensuale.
In tutti questi casi si recupera l’autentica portata della
cosiddetta giurisdizione volontaria, cioè di quell’ambito della
giurisdizione in cui il magistrato non opera per tutelare i diritti
soggettivi decidendo sui contenziosi, bensì per integrare le libere
determinazioni delle parti stesse, in casi nei quali tradizionalmente
si parla di “amministrazione pubblica del diritto privato”, benché il
giudice finisca ugualmente per incidere su situazioni giuridiche
protette.
In tutti questi casi, a maggior ragione, in linea di principio si
può dire che il professionista incaricato dal giudice sia tenuto a
rispettare gli stessi doveri di competenza, prudenza e diligenza che
gli spetterebbero nell’ambito di un normale contratto di opera
intellettuale, e che la sua responsabilità verso le parti e anche verso
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il minore – sia pure in assenza di un formale vincolo negoziale – sia
assimilabile alla responsabilità contrattuale.
5.1.2. Tentativi di intervento clinico in casi di della
alienazione parentale con interruzione del legame genitori-
figli: una premessa [torna su]
Nella nostra pratica clinica ci siamo trovati diverse volte, a
partire da una quindicina di anni circa, di fronte alla richiesta di
intervento clinico nei casi di cosiddetta alienazione parentale. Si
trattava nella maggior parte dei casi di padri che da mesi, il più
delle volte da anni, avevano perso il contatto con i loro figli, che
vedevano e sentivano rarissimamente.
In alcune occasioni, in concordanza con le statistiche (che
vedono le madri minoritarie, ma non escluse, dai processi di
alienazione), la stessa richiesta ci è stata rivolta da madri.
Conseguentemente, abbiamo tentato di approntare, nel tempo,
delle ipotesi terapeutiche, le prime delle quali erano rivolte al
contenimento dell’angoscia da separazione.
Nei contesti a transazione mobbizzante, nei quali la PAS o la
“Alienazione Parentale” possono diventare realtà molto vive, e si
incontrano genitori che hanno perso i contatti con i figli da anni,
l’angoscia da separazione è una angoscia spesso incontenibile,
perché lontanissima dalla possibilità di riconoscere un punto di
realtà al quale ancorarsi: se la morte di un congiunto permette di
mettere un disperato segnale di fine e di un nuovo inizio, il contesto
della alienazione parentale, specie quello con assenza totale o
pressoché totale di contatti, diventa un contesto che rimanda
sempre alla creazione di nuova sofferenza, perché la fine,
contrariamente a quanto accade in un lutto reale, è una fine che non
finisce mai. Il figlio tanto voluto vive magari a mezzo chilometro da
casa, e solo che l’“altro” lo volesse -così sembra alla vittima della
alienazione parentale, e così molto spesso è-, quel figlio sarebbe
immediatamente avvicinabile.
E’ dunque una situazione che spinge a sofferenze terribili e a
comportamenti non sempre controllabili e gestibili, perché quello
che allo psicoterapeuta appare come un “acting out” rabbioso e
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autodistruttivo, al genitore “alienato” sembra -e ai suoi occhi “è”, e
spesso ci sono moltissime evidenze a confermarlo- una soluzione
quanto meno reale e concreta, nonché legittima e giustificata, anche
quando si tratta di rischiare anni di galera e, soprattutto,
confermare all’altra parte la visione perversa e negativa che l’altra
parte vuol dare del genitore alienato.
Tenendo poi conto di come il contesto giudiziario offra uno
spazio abbastanza atipico di possibilità di “agire” -in cui la chiave è
sempre un poter agire attraverso qualcuno e qualcosa (ad esempio,
una nuova richiesta al giudice attraverso il proprio legale) ma che
questo agire tende dunque a connotare (e sollecitare) ipotesi
vendicative e persecutorie di un agire così mediato, è facile
comprendere come “contenimento dell’angoscia” possa molto
spesso significare -in contesti di grave PAS o la “Alienazione
Parentale”- il richiamo alla possibilità di “acting out” auto- ed
etero- lesivi, anche di una certa notevole gravità.
In sintesi, il contesto giudiziario è un contesto molto legato al
“poter agire” attraverso un atto giudiziario, ma questo, molto
spesso e soprattutto molto facilmente, evoca nel genitore alienato
un “poter agire” che va verso l’acting out etero- ed auto- lesivo
come risposta all’”agito” che riceve -e che interpreta ovviamente
come atto persecutorio- dal suo ex partner.
Avere come obiettivo terapeutico il contenimento dell’angoscia
da separazione di un genitore privato da “qualcun altro” e grazie
alla tacita passività di una non sistema che dovrebbe garantire la
giustizia, apre percorsi terapeutici difficilissimi, spesso disperati e
disperanti, e che mettono a durissima prova anche la capacità dello
psicoterapeuta di gestire il proprio “controtransfert”.
Il più delle volte, ci si deve accontentare di non far precipitare
una situazione già in grande bilico, e complicata da variabili
socioeconomiche (il drastico e spesso gravissimo impoverimento
economico, la perdita della propria abitazione, il ritorno a quella dei
genitori e spesso della propria adolescenza, l’isolamento sociale,
ecc.) che tendono a renderla ingovernabile.
Tuttavia, dopo qualche tempo ci accorgemmo che l’aver
ottenuto alcuni risultati nella gestione del dolore e della rabbia, in
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alcuni, sporadici, casi si trasformava in piccole, ma significative,
modifiche nel rapporto con i figli “alienati” a riprova di come
l’alienazione genitoriale sia –quanto lo sono d’altra parte molto
patologie adolescenziali riconosciute come tali- una forma che,
sindrome, malattia, o problema che sia- è, a volte almeno, molto
sensibile alle modifiche al comportamento dei congiunti, e -in
questo caso- alle modifiche di comportamento del genitore alienato.
Nel giro di qualche anno sviluppammo dunque una sorta di
know how conoscitivo che sembrava portare a diversi risultati nei
contesti psicoterapici che riuscivamo a strutturare, e che non
sempre si potevano identificare con i setting psicoterapeutici
classici, anche e soprattutto in virtù della atipia della domanda che
ci giungeva.
Il più delle volte, a rivolgersi a noi erano i padri, perché
innegabilmente in testa alle statistiche della deprivazione
genitoriale, e ciò comportava che il più delle volte la domanda che
ci raggiungeva era una domanda confusa e confondente tra istanze
giuridiche, consulenze forense inutili, e una nascosta -e per questo
ancor più disperata- richiesta di ascolto. Questo ci ha spinto a dover
strutturare modelli di intervento abbastanza inusuali, che dovevano
essere in grado di rispondere a richieste confuse, nascoste, non
presentate come richieste di terapia, spesso di difficile decrittazione
e dunque di difficilissima restituzione, non raramente colme di
rabbia anche verso lo psicoterapeuta interpellato.
Nel tempo ci siamo resi conto che esisteva non tanto un vero e
proprio set di strumenti terapeutici -di prescrizioni, di strategie, di
“consigli”, cioè- ma una filosofia di fondo dalla quale partire per
cominciare a orientarsi in quel tipo di consulenza e giungere ai
primi risultati: la gestione da parte del genitore alienato del proprio
comportamento, in modo che non refluisse distruttivamente verso i
due opposti poli che gli si profilavano -l’acting out distruttivo e/o
la somatizzazione ingravescente.
Non raramente, infatti, la maggior parte dei padri che si
rivolgevano a noi si erano scoperti ipertensioni, disturbi del ritmo
cardiaco, dermopatie -prima fra tutte la psoriasi- gastropatie e in
special modo “gastriti” e sindromi da reflusso-, sindromi
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dismetaboliche, ecc., costringendoci anche a ritornare a forme di
consulenza medica vera e propria, che dovevano comunque fare i
conti con il disagio socioeconomico del genitore deprivato del
figlio.
L’impostazione di fondo con la quale affrontare questi casi
però si andava sempre più delineando, e questo ci ha portato alla
fine a coagulare il tutto in un orientamento di fondo: quello che nel
capitolo successivo verrà descritta attraverso la riscoperta del mito
di Ulisse, colto nel momento del suo rientro a Itaca, in una casa
infestata da coloro che -non a caso- vogliono sottrargli tutto quello
che ha di più caro.
Da questo indirizzo, pensato come tale perché rivolto
soprattutto ai padri, si è sviluppato un modello operativo che è
stato poi comunque utilizzato anche con le madri, perché
ovviamente distante da qualsiasi tipizzazione di genere.
5.1.3. La cicatrice paterna: frattura e possibilità di
ricostruzione del legame padre figlio nei casi di mobbing
genitoriale [torna su]
dr. Gaetano Giordano
dr.ssa Benedetta Rinaldi
dr. Marco Muffolini
Il ruolo del padre oggi è riconosciuto dagli esperti delle
dinamiche relazionali familiari, per la sua cruciale importanza nel
favorire lo sviluppo comportamentale, emotivo e intellettivo dei
figli, ma tale considerazione è stata – e lo è ancora! – il frutto di una
faticosa conquista dell’uomo nel corso dei secoli: una conquista che,
è bene ricordare, è eminentemente culturale, differentemente da
quanto è avvenuto per la madre che ha assunto biologicamente e
naturalmente le sue funzioni di procreazione e di cura verso la
propria prole (Zoja, 2000).
Luigi Zoja, importante psicoanalista junghiano che ha studiato
la costruzione della figura paterna dalle sue origini seguendo un
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percorso filogenetico, nel suo libro “Il gesto di Ettore” (2000)
sostiene che durante la sua evoluzione la specie umana si sarebbe
accorta di come la presenza paterna avesse una funzione peculiare
favorente la crescita e la protezione della prole.
Il padre quindi è passato dall’essere primitivo che concepisce
spargendo il suo sperma indistintamente, a colui che concepisce
inteso come cum capere, ovvero in grado di prendere con, accogliere,
contenere, apprendere, immaginare, ricevere nell’animo.
E’ da questo momento che l’uomo ha iniziato a sviluppare il
legame con i figli, conquistando quello status che non ha ricevuto
dalla natura, ma grazie ad un percorso culturale e sociale per il
quale ancora oggi lotta affinché gli venga riconosciuto.
Il ruolo del padre storicamente è stato considerato, in ambito
giuridico, come non fondamentale per l’educazione e lo sviluppo
psicofisico dei figli, tanto che nella stragrande maggioranza dei casi,
i figli di genitori divorziati vengono automaticamente affidati alla
madre, quale depositaria esclusiva della tutela dei minori, questo a
partire dalla Legge 898/1970 che indica come principale prassi
quella dell’affidamento esclusivo ad un genitore, sulla base di un
supposto interesse morale e materiale dei minori, relegando così il
padre ad una mera funzione di mantenimento economico.
Sono dovuti trascorrere altri 36 anni affinché il Legislatore
introducesse quella che oggi è riconosciuta come “legge dell’affido
condiviso” (Legge 54/2006) restituendo ad entrambi i genitori,
almeno formalmente, la cura e la responsabilità della formazione
dei figli: tale legge infatti afferma che i figli hanno diritto a
mantenere un rapporto equilibrato con ciascuno dei genitori anche
nel caso in cui questi giungano ad una separazione e che la potestà
genitoriale è esercitata da entrambi.
Sebbene negli anni, grazie alla costituzione di movimenti a
sostegno della bi-genitorialità sono stati raggiunti – almeno in teoria
– degli obiettivi di promozione culturale e sociale, legati alla crescita
e alla responsabilizzazione della diade genitoriale, l’evento della
separazione rimane un momento di rottura, non solo del nucleo
familiare ma anche degli equilibri relazionali che lo compongono.
Spesso infatti l’espressione della bi-genitorialità è messa a rischio
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fin dal momento in cui la coppia decide di separarsi a causa di un
aspro conflitto coniugale che si ripercuote sulle competenze
genitoriali, mentre i figli si ritrovano all’interno di ripicche e
vendette tra gli adulti di riferimento. Siamo abituati a considerare il
nostro concetto di famiglia come sinonimo di unità di intenti in cui
i membri del gruppo tendono a convergere per un comune
obiettivo esistenziale; la separazione in questo senso è il fattore
scatenante di desideri individuali, spesso contrapposti, relativi a
dimensioni affettive, relazionali, economiche e di potere, dove c’è
chi vince e chi perde, secondo la logica della contrapposizione.
Da quando è stato istituito il divorzio ad oggi, la logica della
contrapposizione ha dominato gli scenari giuridici ed emotivi di
tutte le parti in causa, alimentando un pulviscolo di agiti istintuali,
ovvero quel mettere in atto, senza consapevolezza, di desideri,
paure, angosce, rivendicazioni e pretese che continua a negare nei
fatti quella bi-genitorialità che riconosciamo solo legislativamente e
alla quale ci appelliamo elemosinandola, senza renderci conto di
quanto ancora culturalmente tutte le componenti, a partire da
quelle giuridiche (giudici, avvocati) la neghino.
Riteniamo che un ruolo cruciale in questo senso sia quello
assolto dal linguaggio.
Genitori, avvocati, giudici, giornalisti, opinionisti, talk show,
programmi d’approfondimento e tutti gli altri agenti interessati alla
questione hanno mutuato un linguaggio, tipico del conflitto, che
confina colui che si esprime e il contesto stesso, all’interno di un
recinto narrativo dove non c’è spazio né per l’espressione pensata
del proprio o dell’altrui vissuto, né per la costruzione di alcunché,
in quanto, tale linguaggio risulta per definizione inadeguato, legato
a logiche di contrapposizione e incapace di esprimere le complessità
di una condivisione che non può che partire dal pensiero e
l’espressione dello stesso.
Come ovvio, tale clima influenza sempre più il clima conflittivo
che si sviluppa in una famiglia in via di separazione, e finisce per
divenire una legittimazione sociale e culturale al conflitto come
chiave di risoluzione delle controversie genitoriali.
Questo ha fatto si che fosse considerato ormai normale non
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solo il conflitto tra i due ex coniugi, ma anche le strategie utilizzate
per escludere l’altro dalla gestione della prole. Come abbiamo visto,
già da tempo anche la cinematografia nazionale ha recepito, con
ironia (il che esprime quanto l’atteggiamento sia ormai di uso
corrente e considerato in qualche modo “scontato”) il fatto che a
dirimere una causa di separazione entri un utilizzo calunnioso del
codice penale.
Allo stesso modo, per un paio di decenni almeno, il fatto che il
padre potesse essere escluso dalla gestione dei figli è stato
considerato un evento forse non normale (esiste -e prima esisteva
ancor di più- il fenomeno dei padri che si assentavano
volontariamente dalla vita dei figli, dopo la separazione), ma
sicuramente accettabile, e il desiderio dei padri separati di non
essere esclusi dalla vita dei figli, una sorta di rivendicazione a volte
anche folcloristica.
Ciò ha comportato sicuramente dei problemi: l’uomo non
affidatario, oltre a doversi confrontare come abbiamo visto, con
una serie di limitazioni imposte dall’alto extra-familiare, ha dovuto
fare i conti con la propria identità di padre da ricostruire, distante
da quella madre, che è stata fondamentale per la sua formazione,
portatrice di un bagaglio biologico-culturale
fondato
sull’accudimento della prole e in grado di accompagnare anche il
padre nella valorizzazione di quel ruolo che è altrettanto
importante.
Ed è stato partendo da queste considerazioni che siamo andati
alla ricerca di uno specifico del “ritorno del padre” in famiglia,
quasi spingendoci a cercare una cultura dedicata a questo tema.
Che ci ha dato risultati importanti e interessanti, suggestivi
anche per quanto riguarda il punto di vista clinico.
Studi recenti (Dowling, Barnes 2004) hanno messo in evidenza
come la maggior parte di ciò che i padri vivono con i figli è quasi
costantemente condiviso o dipendente dalle indicazioni della
madre: ciò significa che il comportamento paterno risulta
inevitabilmente legato allo status di “coppia”, quella stessa coppia
che nei casi di divorzio non può più rappresentare il contesto
attraverso il quale il padre può esprimere la sua genitorialità.
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L’uomo, diversamente dalla donna, non può identificarsi sin
dalla nascita con il corpo della madre, perciò tende a svilupparsi nel
tempo continuando a demandare alla donna la capacità ed il potere
di appagare i suoi bisogni e di riempire, a proprio arbitrio, il suo
vuoto di affetti, rischiando tuttavia di scadere a oggetto del potere
materno. L’uomo allora, per difendersi dal suo stesso desiderio di
passività dipendente, ipertrofizza il modello di comportamento
paterno arcaico (Montefoschi, 2001) che demanda la cura della
prole alla moglie, restando in seguito vittima di quel modello
relazionale rigido.
Uomo e donna, seguendo l’imprinting originario della madre che
nutre e del bambino che viene accudito, si sono evoluti
conservando tra di loro una relazione asimmetrica basata
sull’interdipendenza simbiotica dei bisogni, che si esprime,
culturalmente e politicamente, attraverso rapporti sociali fondati sul
reciproco asservimento (Montefoschi, 2001)[3] .
L’uomo non riuscendo a raggiungere la capacità di essere
consapevolmente autonomo rispetto alla gestione relazionale dei
figli, tende ad affidare alla donna il potere di controllarlo attraverso
quella che in seguito può esitare in una svalutazione attiva e
costante del ruolo paterno, fino ad una interruzione dei rapporti
padre-figli.
Questo aspetto è significativo se cerchiamo di comprendere i
motivi che espongono i padri ad una maggiore vulnerabilità e al
mobbing genitoriale: le vittime di mobbing lavorativo e familiare
possono essere soltanto coloro che il sistema identifica come deboli
o di difficile controllo. In tal senso il padre separato, nella nostra
cultura, rappresenta quello che nel gergo psicologico viene
chiamato il “paziente designato”: tale termine significa che il
paziente è il membro del sistema-famiglia che esprime o segnala il
meccanismo disfunzionale di uno o più sistemi, di cui egli è uno dei
vertici. Tale membro è “designato” dal sistema stesso in quanto
soggetto che esprime una modalità disfunzionale di vivere, pensare,
agire.
Il padre, dopo la separazione, viene limitato legalmente
nell’esercizio della sua genitorialità e, dipendente dal ruolo familiare
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che ha perso, si ritrova a dover costruire da solo un set di
comportamenti, atteggiamenti, vissuti emotivi da condividere con i
figli, senza un sostegno sociale e culturale, oggi più che mai
indispensabile, affinché il padre possa sviluppare una propria
specificità indipendente da quella materna.
Potremmo quindi sostenere che è la madre colei che, agendo la
sua aggressività e controllo, designa l’ex marito come vittima di
un’esclusione dal sistema, eppure ad uno sguardo più approfondito
ci renderemo conto che anche l’uomo si è inconsapevolmente
lasciato coinvolgere in quella spirale violenta, a causa dell’equilibrio
precario sul quale ha costruito la propria figura di padre, ma
scendendo ancora di più in profondità apparirà più chiaro come
non basti un singolo attore a designare la sua vittima, ma esiste un
sistema allargato che ha indirettamente favorito un humus
aggressivo e controllante, ovvero il sistema culturale e giudiziario in
cui si sviluppano le future madri e i futuri padri.
A nostro avviso è di fondamentale importanza iniziare a
promuovere una cultura scientifica e sociale in cui la paternità possa
emergere dall’ombra della madre, come dimensione di cui prendersi
cura attraverso progetti di sostegno e valorizzazione, e soprattutto
liberandola dalla logica della contrapposizione padre contro madre,
uomini contro donne. Uno dei pochissimi aspetti culturali in cui i
padri sono “previsti” durante l’iter della gravidanza sono i famosi
corsi pre-parto e in alcuni casi il parto stesso, dopodiché i padri
scompaiono sia per il mondo medico-psicologico che per quello
socio-culturale (ad esempio non è un caso che spesso, pur
lavorando, sono le madri a intrattenere le relazioni con il mondo
della scuola o con il gruppo dei pari).
Lo stesso mondo della psicologia si è lungamente confrontato
sulle competenze materne, tralasciando in secondo piano
l’importantissimo ruolo del padre, spesso relegato al compito di chi
detta le leggi e si occupa economicamente della famiglia.
E’ necessario sviluppare un pensiero complesso (clinico,
sociale, culturale, legislativo) per riportare il padre alla sua
prerogativa genitoriale e affettiva, scongiurando il pericolo della
sottomissione al potere materno distruttivo e in questo senso il
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Mito ci ha tramandato molti esempi di paternità, densi di significato
e attuali.
Zoja percorrendo lo sviluppo mitologico e psicologico della
figura paterna (2000) mette in evidenza come la paternità non sia
una questione meramente biologica ma sia una ricerca, un viaggio,
che l’individuo deve intraprendere per riuscire a riconoscere sé
stesso e i propri figli.
E Ulisse – l’eroe del poema omerico “Odissea” – è secondo
Zoja il sorprendente emblema dell’uomo moderno, che si mette in
viaggio per ritrovare il suo ruolo paterno e familiare.
Omero descrive Ulisse come un uomo combattuto “tra il
pensiero e il cuore”, ovvero tra la razionalità e l’istinto, e proprio
l’istinto, l’impulsività, la tendenza a reagire spesso mettono a dura
prova gli individui proprio durante momenti critici come il divorzio.
Davanti alle angherie e alle violenze morali (e a volte non
morali) spesso perpetrate dalle ex compagne e dal contesto sociale e
giudiziario, i padri sentono di “dover agire, dover combattere”, insomma
uscire al più presto possibile e “con forza” dalla spirale di
manipolazione in cui si trovano.
I termini stessi utilizzati dai padri (“devo combattere… devo
reagire… mi devo far giustizia”) fanno proprio riferimento al loro
sentirsi in guerra, vittime di un’invasione sadica, in cui la sensazione
di morire da un momento all’altro, perdendo tutto ciò che si è
costruito – affettivamente, economicamente, socialmente – è
fortissima.
Purtroppo non sono rari i casi di padri balzati alle cronache per
aver ucciso i figli o l’intera famiglia in seguito ad una situazione di
mobbing genitoriale che era diventata emotivamente distruttiva.
I vissuti dei padri mobbizzati sono molto penosi e devono
essere compresi e contenuti proprio per evitare simili escalation di
violenza intrafamiliare.
Padri protagonisti di episodi di cronaca come quelli da noi
seguiti, spesso rimangono vittime delle proprie reazioni istintive,
figlie di quella logica della contrapposizione che in risposta ai
soprusi subiti non fanno che esporli ad ulteriori accuse (ad esempio
di essere aggressivo, paranoico, di spaventare il bambino etc.)
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generando quindi un risultato opposto a quello voluto.
I padri tentano cioè di risolvere il conflitto in cui si trovano
attraverso il conflitto stesso, senza rendersi conto che il mezzo
attraverso il quale si è cercata la soluzione, è in realtà il problema.
Nel prossimo paragrafo vedremo come, a partire da questi aspetti,
si possa tentare di promuovere un percorso di riabilitazione e cura
della figura genitoriale alienata.
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Nei paragrafi precedente abbiamo illustrato come lo studio e la
ricerca formale sul fenomeno del mobbing genitoriale abbia avuto
inizio circa 10 anni fa (Giordano, 2004) eppure sull’intervento vero
e proprio nei confronti del sistema familiare colpito, non è stato
ancora pubblicato nulla e questo per un motivo di base specifico:
quando all’interno del nucleo familiare si è costruito
progressivamente un grave comportamento alienante, o
tendenzialmente tale, ogni invito alla terapia fallisce in quanto
ormai il disagio è “ego-sintonico” rispetto al funzionamento del
sistema: i soggetti coinvolti non credono di essere affetti da un
grave disagio relazionale, ma sono impegnati ad individuare
all’esterno il colpevole che produce il malessere (un po’ come un
soggetto affetto da psicosi il quale, non avendo consapevolezza del
proprio malessere, cerca soluzioni e risposte nei suoi deliri). In
questo modo è estremamente difficile che il sistema formuli
spontaneamente una domanda di aiuto.
Allo allo stesso modo, come detto precedentemente, anche per
il contesto sociale è spesso stato “normale” che un padre separato
vedesse sempre meno o per niente i propri figli.
Il padre deprivato dei figli, dunque, andava incontro a una serie
di problematiche psicologiche e fisiche che l’isolamento sociale, e
l’indifferenza con cui veniva accolto il suo status, lo rendevano
sempre più soggetto di patologie e comportamenti percepiti come
“disfunzionali” e, in quanto tale, sempre più considerato in qualche
modo meritevole di avere perso il contatto con i figli.
L’emergere sempre più pressante di una cultura delle “Pari
Opportunità”, che assegnava di diritto nuovi ruoli e nuove
responsabilità alle donne ma lasciava -stranamente- inalterati i
“privilegi” delle madri di sentirsi le assegnatarie di default e di fatto
dei figli, e dei relativi vantaggi economici, esasperava la situazione.
Come detto precedentemente, questo ci ha spinto a cercar di
metter rimedio ai numerosi casi che si presentavano alla nostra
osservazione, cercando di evidenziare gli aspetti più salienti del
mobbing genitoriale suscettibili di intervento, un intervento
pensato di fondo come “strategico” e “sistemico” e studiare così
una serie di strategie di intervento per ridurre il danno e in alcuni
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casi risolvere la dinamica conflittuale.
Il primo aspetto è legato al contesto conflittuale in cui si
esprime la relazione tra genitore alienante e alienato: la violenza dei
comportamenti agiti dal genitore mobbizzante (costituiti da insulti,
svalutazioni, manipolazioni, ricatti verso i minori, diffamazioni etc.)
e l’intervento del sistema giuridico chiamato ad intervenire dai
coniugi (avvocati, giudici, assistenti sociali etc.) che spesso collude
con la logica della contrapposizione delle parti, elicitano o anche
determinano una reazione comportamentale disadattiva nel genitore
alienato, che purtroppo finisce spesso per legittimare, attraverso i
suoi comportamenti, le accuse che gli vengono mosse: questo
significa che più il genitore alienato cerca di reagire alle angherie del
coniuge per riappropriarsi del suo ruolo genitoriale con gli
strumenti che ha a disposizione, più facilmente si mette nella
condizione di favorire il comportamento di estromissione che andrà
poi a subire.
Per questo il primo intervento che mettiamo in atto quando un
genitore alienato ci chiede un aiuto è la cosiddetta “analisi delle
tentate soluzioni”: secondo il paradigma della terapia strategica, che
riteniamo estremamente efficace in questo tipo di problematiche,
quando un soggetto chiede un intervento psicoterapico per un
problema, è verosimile che egli abbia già da solo cercato di
risolverlo attraverso una serie di pensieri o azioni che tuttavia si
sono rivelate inefficaci.
Un esempio è quello di un padre che racconta di come, in
seguito alla separazione, la moglie gli abbia impedito in vari modi di
avere una serena e quotidiana relazione con i figli. In molti casi la
tentata soluzione che i padri possono mettere in atto è quella ad
esempio di presentarsi a casa della ex moglie chiedendo con forza
di vedere i figli, oppure minacciare la moglie di querela, o ancora di
mettere al corrente i figli di quanto la madre si stia comportando
male.
In questi casi l’analisi e la discussione delle soluzioni tentate dal
paziente ci permette di far capire al padre come quest’ultime siano
in realtà il problema che promuove e cronicizza il conflitto: più il
padre si adira ed entra in simmetria con i comportamenti aggressivi
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agiti dalla ex moglie, più si metterà nelle condizioni di vedere il suo
ruolo rispetto ai figli – e anche dal punto di vista legale –
compromesso.
Il nostro obiettivo sarà quindi aiutare il genitore mobbizzato a
riconoscere e a gestire le tentate soluzioni che corrispondono
paradossalmente a reazioni controproducenti rispetto alla sua
funzione genitoriale, e questo utilizzando delle tecniche innovative
e costruite ad hoc, ma specificatamente di origine strategica e
ispirate tutte alla filosofia del “Ritorno di Ulisse”.
Ma perché il mito di Ulisse può aiutarci a comprendere quella
che a nostro avviso è una via alternativa per risolvere, o attenuare,
la tragedia del genitore mobbizzato?
Ulisse re di Itaca, dopo dieci anni passati a Troia a causa della
guerra vorrebbe ritornare agli affetti familiari, dalla moglie
Penelope, dal figlio Telemaco e alla nativa Itaca, ma l’odio del dio
Poseidone, glielo impedisce provocando continui incidenti e
mirabolanti peripezie per altri dieci anni, alla fine dei quali riesce di
nuovo a raggiungere casa. Ma il suo ritorno in famiglia sarà
tutt’altro che semplice infatti Ulisse trova la sua reggia invasa dai
Proci, i quali vogliono usurpare il suo trono, impadronendosi della
casa e della moglie Penelope.
Ulisse scopre l’accaduto ma invece di reagire istintivamente,
combattendo subito contro i Proci, decide di aspettare il momento
più opportuno per riconquistare il regno e la sua famiglia e quindi
decide di celare la propria identità fingendosi un mendicante, anche
con lo stesso figlio Telemaco. “Il volere di Ulisse è pensiero e non più
pulsione, quindi può essere trattenuto. Ciò porta due novità che sono anche due
rinvii: l’attendere l’occasione esterna propizia, quando essa non è ancora
disponibile e il pazientare fino a che le due alternative non trovino una sintesi
interiore” (Zoja, 2000) … Ulisse desidera la famiglia sopra ogni altra
cosa: ma sa che il soddisfacimento immediato è proprio la tempesta
in cui il padre e i suoi si separano. Il ricongiungimento con la
famiglia non è un impulso soddisfatto, ma privazione e progetto”.
La tattica utilizzata da Ulisse è quella di non lottare
esplicitamente, non volendo vincere subito a tutti i costi: egli si
rimpicciolisce, si rende umile come un mendicante poiché non è
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interessato tanto ad agire un’azione nobile in sé ed eclatante,
piuttosto è interessato al vantaggio che finalmente potrà ottenere: la
conoscenza nell’immediato e la riconquista della sua famiglia nei
tempi lunghi. E per queste cose è pronto a pagare il prezzo
dell’attesa.
Questa è proprio la strategia che riteniamo possa
aiutare i padri mobbizzati ad uscire dal tunnel in cui si trovano: il
padre, con coraggio e comprensibile fatica, deve accettare di uscire
dall’atteggiamento di contrapposizione nei confronti della ex-
moglie, poiché questo significa inevitabilmente opporsi anche
contro il figlio che, vittima inerme, è fagocitato dall’angoscia di
mettersi contro la madre dichiarando il suo legittimo e struggente
bisogno del padre.
Il padre deve rimpicciolirsi, fingersi mendicante, attenendosi a
quanto imposto dal giudice e manipolato dalla moglie, per
riconquistare non nell’immediato, ma nel lungo termine il rapporto
con il figlio. La presenza paterna deve farsi “piccola nella quantità”,
ma significativa nella qualità delle interazioni possibili, per ricordare
al figlio che il padre, seppur lontano, c’è: fare al figlio piccoli regali
inattesi (un pelouche, un set di pennarelli nuovi etc.) permette al
bambino di sentire la presenza costante, ma non ansiogena, del
genitore.
Questo comportamento consente al figlio di incamerare, a
lungo termine, i sentimenti di rispetto, pazienza e coraggio veicolati
da quel padre che così facendo non lo ha costretto a mettersi
contro la madre o a sentirsi in colpa per l’inevitabile alleanza con il
genitore affidatario.
L’idea è quella di sfruttare la forza dell’aggressore per volgerla
al proprio guadagno.
Ulisse ci dimostra come una simile presa di posizione giocata
sull’apparente arrendevolezza, sia un passaggio necessario per
vincere contro i Proci, gli arroganti e caotici invasori del luogo
familiare.
Nonostante il suo farsi povero e quasi invisibile, il re di Itaca
mostrerà al figlio il valore dell’attesa e la forza dell’umiltà: dice Zoja
(2000) “la sua pazienza e la sua umiliazione contrastano con la
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violenza inutile. Se [gli uomini] vi riescono, ci restituiranno la
potenza del padre senza la prepotenza maschile. Se non hanno
successo, si avrà il maschio violento senza l’autorità”.
In fondo la grande forza di Ulisse è racchiusa nella
saggezza di sapere che egli ha sempre presente l’alternativa da
giocare nella vita.
5.1.4. Il ritorno di Ulisse 6: strategie di intervento nel
mobbing genitoriale [torna su]
– Maestro, come evitare il temporale?
– Ecco che lo hai già dentro
da: Yoel Hoffmann, “I detti del maestro Joshu”, Astrolabio
Ubaldini Editore
Nota: nella logica zen, pensare al “temporale” come un
temporale, realizza il “temporale”.
Nei casi di mobbing genitoriale, e soprattutto nei casi in cui è
molto presente la svalutazione della figura genitoriale nei confronti
dei figli, la regola è l’attivarsi di un contesto paradossale, nel quale
l’accusa contro l’ex genitore si avvera grazie al fatto che il genitore
mobbizzato reagisce all’accusa tentando di smentirla.
Nel trattare questi casi, abbiamo sviluppato la convinzione che
il modo migliore per gestire -meglio: tentare di gestire- un simile
contesto, è non cercare di dimostrare la falsità dell’accusa, ma
cercare di rispondere, o non rispondere, in modo che l’accusa si
annulli, o meglio: perda la sua efficace proprio perché ha bisogno di
convalidarsi attraverso i comportamenti dell’ex partner.
Ovviamente, quanto stiamo qui esponendo vale nell’attuale
contesto sociogiudiziario, nel quale non esiste quasi, o proprio per
nulla, la possibilità che le istituzioni attuino un intervento efficace.
6
Il paragone -geniale- con il ritorno di Ulisse ad Itaca, nella casa infestata dai Proci e con il figlio (e per quanto
riguarda il mito, anche la moglie) è stato individuato per prima dalla dottoressa Benedetta Rinaldi, che ha
firmato l’articolo precedente. Ascoltato il resoconto di diversi casi di padri (e, in numero minore, di madri)
deprivati dei figli, riconobbe subito nella struttura dell’intervento terapeutico la presenza del mito di Ulisse,
dando un contributo sostanziale e chiarificatore all’inquadramento teorico delle tecniche già in uso.
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Quanto stiamo cioè dicendo si riferisce ai genitori deprivati dei
figli, isolati e abbandonati nei loro tentativi di uscire dal problema,
e in assenza di interventi, e di interventi efficaci (quando non
controproducenti, come visto), da parte delle “istituzioni”.
Non ci riferiamo cioè a suggestioni che pensiamo possano
essere raccolte in aule di Tribunale o nel corso di consulenze
tecniche, posti e situazioni nei quali la tutela del genitore
mobbizzato dovrebbe essere di tutt’altro tipo e non limitarsi, come
spesso avviene, a generici (e convenienti solo per chi li pone) inviti
a rassegnarsi e lasciar perdere. Se i tribunali e i tecnici, cioè, devono
intervenire, dovrebbero farlo non invitando il genitore alienato a
rinunciare a ciò che per prima la legge dovrebbe garantire, ma
dandogli quanto e ciò che gli spetta.
Ciò premesso, il primo punto su cui agire è dunque la gestione
del comportamento del genitore alienato, che in genere sembra fare
di tutto per confermare le accuse che gli vengono rivolte e per
qualificarsi, agli occhi dei figli, esattamente per come viene
descritto ad amici, parenti, e, soprattutto, figli.
Questo è un aspetto fondamentale, e spesso drammatico: si
tratta di convincere gente che soffre terribilmente, a tacere e a non
cercare di “reagire” a privazioni terribili, illegittime e illegali.
Spesso si riesce a spiegare al genitore alienato (o mobbizzato, i
termini sono qui utilizzati come sinimi) il valore della rinuncia,
come sistema di gestione del messaggio negativo che “l’altro”
fabbrica contro il paziente, altre volte no. In genere è efficace il
paragone con le arti marziali orientali, di fondo strutturate sulla
gestione dell’energia dell’avversario in senso paradossale per
sbilanciarlo (“se lui spinge, tu tiri, se lui tira, tu spingilo”). Sicuramente,
si deve operare una “collusione terapeutica” (o una “alleanza
terapeutica”) col genitore mobbizzato, parlando un linguaggio di
guerra e conflitto, dal momento che il livello persecutorio, in questi
casi, è talmente alto, che un qualsiasi accenno ad una prospettiva
pacificatoria viene percepita come un tradimento. Una buona
tecnica, poi, è quella che i terapisti strategici definiscono del “come
peggiorare”: facendo cioè immaginare a chi si ha di fronte cosa si
dovrebbe fare per far precipitare ancor di più la situazione, si
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ottiene molto frequentemente il risultato di convincere il genitore
mobbizzato che più tenta di ottenere ciò che desidera (e che, si
badi, è più che egittimo che ottenga), meno ottiene.
D’altra parte, vero è che non può esserci effettivamente
pacificazione, in questi casi, dal momento che il conflitto è sempre
tenuto alto soprattutto dal genitore mobbizzante, e dunque il vero
obbiettivo è quello di annullare “l’attacco” di cui il genitore
mobbizzato si sente (ed è davvero, in fondo: un fondo che però
non deve esser vissuto persecutoriamente, per dar corpo alle
proprie ombre) ed è davvero, dicevamo, vittima.
Una volta che si riesce a concretizzare come valido l’assunto
che non bisogna opporsi agli attacchi ma favorirli invece di
disperderli, occorre passare ad analizza con estrema profondità il
“contesto mobbizzante”, e cercando di individuare quali sono le
modalità che più offrono spunti per una gestione “strategica”.
La regola di fondo è comunque quella di escogitare quali
comportamenti tendano a far fallire le aggressioni del genitore
mobbizzato, e una delle “rinunce” che più ottengono effetto è
proprio la rinuncia a pretendere gli incontri. Ovviamente, parliamo
di situazioni nelle quali il rifiuto alle visitazioni non è ancora in atto
da anni, ma nelle quali i minori rifiutano i contatti pur mantenendo
qualche visita.
Il primo obiettivo è infatti quello di stabilizzare la relazione con
i minori, in quanto nella nostra esperienza gran parte delle
situazioni di alienazioni parentale nascono da -o forse “con”, ma la
cosa non cambia di molto la realtà del contesto e dei tentativi di
rimedio- una tragica angoscia dei minori coinvolti, che si
percepiscono in mezzo a una terribile bufera e possono solo
cercare riparo, esterno ma anche interno, nel genitore alienante, per
non mettere a rischio la propria sicurezza (che viene percepita
anche come sicurezza fisica vera e propria, dal momento che il
genitore alienante ha sempre qualcosa di oscuramente minacciante e
terribilmente ritorsivo, la cui contropartita è una sorta di alleanza
partnerizzante che sfocia poi nell’arruolamento alienato).
Il bisogno di integrare il modello accusatorio del genitore
alienante nasce qui dal bisogno sia di una sicurezza esterna, sia dal
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bisogno di percepirsi coerenti, e non colpevoli invece di
“tradimento” ai danni del genitore alienato.
Quando si va dunque ad agire in un contesto mobbizzante,
bisogna dunque aver massimo riguardo per questo drammatico
equilibrio del figlio alienato, e le possibilità di recupero da parte del
genitore alienato passano dal riuscire quanto più possibile a non
metterlo “contro sé stesso ” e “contro i propri sensi di colpa ” -spesso
grandemente nascosti- e cercando di non offrire alle sue
“proiezioni” la legittimazione che il genitore mobbizzante e
alienante cerca di avere attraverso le sue accuse (“Ricordi che tu rischi
di essere la pallottola con cui ti spareranno, se insisti a combattere”, è una
delle nostre frasi preferite).
In questi casi, dunque, la rinuncia agli incontri -accompagnata
dalle comunicazioni di cui diremo oltre- può avere un effetto
destabilizzante sul contesto mobbizzante e sul comportamento del
genitore alienante e su quello dei minori, e nel tempo si può
assistere a quello che per qualcuno è stato un miracolo. Quello che
accade è che viene “sbilanciata” la dimensione collusiva della
coppia, e fatta svanire la legittimazione alla “proiezione” della
propria parte negativa sul genitore mobbizzato.
Come detto prima, in realtà, questa rinuncia agli incontri va
accompagnata da una serie di comunicazioni minimali, se non
“virali”, con le quali si comunica ai figli la propria presenza affettiva
nel rapporto, il proprio non voler perdere i contatti, e via dicendo
senza far mai cenno – se non in alcuni casi selezionati- ai motivi per
cui si preferisce rarefare o minimizzare frequenza e tempi degli
incontri.
Sms, email, regalini con bigliettini brevissimi e/o fatti
consegnare da qualcun altro, sono in questi casi efficaci, spesso
anche incredibilmente efficaci: in molti casi, si ha la netta
sensazione che più le comunicazioni riescono ad essere “minimali”,
più i minori tendono -con il tempo (la pazienza e la resistenza alla
frustrazione sono essenziali)- a riassestarsi in modo non oppositivo
verso gli incontri con il genitore mobbizzato.
In sostanza, bisogna in qualche modo rifarsi alla filosofia di
Lao Tzu, il fondatore del Taoismo, e riuscire a render concreta la
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sua Regola Celeste:
Trenta raggi convergono sul mozzo,
ma è il foro centrale che rende utile la ruota.
Plasmiamo la creta per formare un recipiente,
ma è il vuoto centrale che rende utile un recipiente.
Ritagliamo porte e finestre nella pareti di una stanza:
sono queste aperture che rendono utile una stanza.
Perciò il pieno ha una sua funzione,
ma l’utilità essenziale appartiene al vuoto
(Lao Tzu, La regola Celeste, http://www.aurorablu.it/libri/lao_tzu.htm )
Bisogna cioè far sì che lo spirito della affettività e della
presenza paterna giungano al figlio tanto cercato e tanto lontano
attraverso il vuoto e l’assenza, anziché attraverso la presenza, e dai
pochi ritagli di parole che gli si inviano egli legga -ed i figli in
questo sono maestri di spaventosa sensibilità- quello che il padre
vuole non tanto dirgli, ma fargli sapere e soprattutto “sentire”.
E’ evidente comunque che per strutturare una valida
comunicazione “virale”, in questi casi, bisogna cercare di conoscere
a fondo le logiche del sistema mobbizzante, nonché le affettività e
quanto più possibile delle realtà e modalità cognitive degli adulti e
dei minori coinvolti.
Bisogna comunque premettere che questo tipo di
“suggerimenti” ovviamente, sono sempre accolti all’inizio da
inevitabile incredulità da parte del genitore mobbizzato, che
rivendica sempre la validità dello scontro e del cercare di ottenere
“sempre più” di quello che gli viene dato “sempre meno” più lui lo
chiede “sempre più”. Uno dei punti da chiarire con fermezza, come
detto in altri termini precedentemente, è che non si tratta affatto di
“dar ragione” all’altro genitore, o cedere alle sue richieste e accuse
giudiziarie ed economiche.
Si tratta ovviamente di sbilanciare un sistema fondato sulla
ricorsività del conflitto.
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La vittoria di Ulisse arriverà, esattamente come dice il mito,
dopo che si sarà riconquistato il proprio figlio a sé stessi e alla
relazione con il padre.
Surse, e spogliossi de’ suoi cenci Ulisse,
E sul gran limitare andò d’un salto,
L’arco tenendo, e la faretra. I ratti
Strali, onde gravida era, ivi gittossi
Davante ai piedi, e ai Proci disse: A fine
Questa difficil prova è già condotta.
Ora io vedrò, se altro bersaglio, in cui
Nessun diede sin qui, toccar m’avviene,
E se me tanto privilegia Apollo.
Così dicendo, ei dirigea l’amaro
Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra
Stava per innalzar coppa di vino
Colma, a due orecchie, e d’oro; ed alle labbra
Già l’appressava: nè pensier di morte
Nel cor gli si volgea.
Chi avria creduto,
Che fra cotanti a lieta mensa assisi
Un sol, quantunque di gran forze, il nero
Fabbricar gli dovesse ultimo fato?
Nella gola il trovò col dardo Ulisse,
E sì colpillo, che dall’altra banda
Pel collo delicato uscì la punta.
Ei piegò da una parte, e dalle mani
La coppa gli cadè: tosto una grossa
Vena di sangue mandò fuor pel naso;
Percosse colle piante, e da sè il desco
Respinse; sparse le vivande a terra;
Ed i pani imbrattavansi, e le carni.
(Odissea, Trad. di I. Pindemonte, Libro Ventiduesimo)
Purtroppo non è possibile descrivere ora tutte le modalità e le
tecniche utilizzate, soprattutto perché ogni volta bisogna adattare
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qualcosa di precedente al contesto che si ha di fronte, ma
sicuramente i risultati ci sembrano incoraggianti.
Un’altra serie di tecniche utilizzate, nel caso i rapporti tra i
genitori consentano ancora qualche contatto, anche aggressivo e
conflittuale quanto si vuole, è la riedizione di alcune tecniche di
direzione strategica dei comportamenti, nei rapporti fra il genitore
mobbizzato e quello mobbizzante. Si tratta di riuscire a strutturare
sottilissime forme di “prescrizioni del sintomo”, “diari di bordo”,
“rituali”, prescrizioni strategiche che apparentemente diano
soddisfazione al genitore mobbizzante ma in realtà ne paralizzino le
tattiche.
Ovviamente, anche qui bisogna studiare a fondo il sistema e
capire quale parte delle comunicazioni e delle relazioni può essere
utilizzata in tal senso: ad alcuni ex coniugi può essere chiesto ad
esempio di indicare con straordinaria precisione i compiti da
eseguire in caso di incontri con i figli, ad al riguardo invece di
descrivere con accuratezza come rapportarsi con i figli quando li si
incontra, fino a tecniche molto più complesse e minuziose, che
hanno spesso lo scopo di imbrigliare anche -già che ci siamo, viene
spesso da dire- l’aggressività del genitore mobbizzato, ansioso di
vendette e vittorie.
Da questo punto di vista, è infatti interessante notare come il
paradosso che immobilizza il genitore mobbizzante, modifica anche
la percezione che il genitore mobbizzato ha del problema e del suo
essere nel conflitto. Segno anche questo di come molto
probabilmente le psicopatologie in gioco continuano ad operare
comunque e in modo collusivo anche quando genitori non
comunicano e sono lontanissimi dal sentirsi “una coppia”
5.1.5. I risultati e le statistiche [torna su]
Non riteniamo di avere ancora la possibilità di fornire
statistiche realmente convincenti e scientificamente esatti.
Sappiamo però di avere avuto risultati interessanti, e molte volte
-soprattutto allorché il paziente non ha opposto molta resistenza-
realmente incoraggianti.
Esistono già non pochi minori che dopo anni di accuse e rifiuti
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“totali” e “drastici” (così almeno descritti dai loro genitori), sono
lentamente tornati a rapporti accettabili, più o meno accettabili e
pieni, dal genitore alienato.
Non è semplicissimo ottenere sempre questi risultati, ma noi
riteniamo deplorevole non provarci almeno, e spingere invece chi ci
consulta ad una guerra dissennata.
Prima o poi Ulisse -per utilizzare la bellissima metafora
individuata dalla dottoressa Rinaldi dal testo di Zoja- deve tornare a
Itaca, e non può essere proprio lui che si elimina da solo dalla vita
del figlio.
La tragedia di essere la pallottola utilizzata dal nemico contro
sé stessi deve trovare una soluzione, e anche se questa soluzione
all’inizio appare folle e impraticabile, bisogna cercare di praticarla.
Se proprio dovessimo tirar fuori una percentuale dalla nostra
esperienza clinica, diciamo che nel sessanta-settanta per cento quasi
dei casi abbiamo avuto risultati soddisfacenti, a volte -sia pure più
raramente- anche ottimi. Ed è per questo che ogni volta ci
“riproviamo”.
La prima volta che abbiamo pensato di standardizzare in un
corpus teorico e operativo questo approccio “paradossale” (e per
noi “zen”) al problema del genitore “amputato” (per riprendere
l’indovinatissima espressione di G. Benedetti), è stato allorché
abbiamo ricevuto una email da un genitore che avevamo seguito, e
che era arrivato a noi da una città del Nord dopo una ricerca sul
Web. Lo avevamo incontrato pochissime volte, ma evidentemente la
cosa aveva dato i suoi frutti. I nostri consigli -paradossali, e da un
certo punto di vista apparentemente del tutto inattendibili- a base
di “sms” e “email” e “astensioni dagli incontri”, avevano dato come
già altre volte, dei frutti. In quel caso, degli ottimi frutti, a quello
che ci disse questo padre, e ciò ci spinse a ritenere che forse
potevamo davvero formalizzare un modello più preciso di
intervento, e utilizzarlo con una certa accuratezza e speranza di
riuscita.
Quel padre ci aveva comunicato quello che era successo con
una email, e ci ringraziava per quello che era successo a seguito dei
nostri due o tre incontri, offrendosi come volontario per aiutarci a
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risolvere casi analoghi: da quanto ci aveva detto al telefono, era
convinto che solo chi ci era passato prima potesse riuscire a essere
efficace nel trasmettere una tecnica del genere. Per noi è stata la
prova di come fosse difficile proporre soluzioni del genere, come
fosse difficile accettarle, ma come valesse appunto la pena di
tentare con quelle soluzioni apparentemente insensate.
Riteniamo dunque che la cosa migliore sia chiudere questo
scritto con quelle sue parole:
Dottore buongiorno.
Faccio seguito alla telefonata di pocanzi per ribadirLe che la mia
situazione alla fine ha preso una piega positiva. I miei tre figli infatti, pur se
prevedibilmente lentamente, hanno ricominciato a frequentarmi e a
dimostrarmi sempre più affetto.
Dal giorno del verbale di udienza del tribunale che allego, ovvero da
inizio gennaio ***, è stato intrapreso un percorso di mediazione famigliare
(tutt’ora in corso) presso una psicoterapeuta di ****.
I miei figli hanno dapprima iniziato a rispondere regolarmente alle mie
telefonate, poi a vedermi inizialmente un’ora la settimana, quindi un’ora a
giorni alternati, fino ad arrivare a vederci anche tutti i giorni (anche se non
necessariamente), andare al cinema di tanto in tanto, cenare almeno una volta
la settimana assieme ed addirittura trascorrere intere giornate a sciare o
visitando città.
I ragazzi dimostrano di volermi bene e di apprezzare i momenti che
trascorriamo assieme, anche se noto che in qualche frangente non sono ancora
completamente rilassati (penso sia normale) come erano una volta. Ma penso a
questo punto sia veramente questione di tempo e di aver pazienza.
Ieri sera per la prima volta sono uscito a cena solo con uno dei tre, il più
grande. Senza il “sostegno” dei frateli temevo ci fosse qualche imbarazzo da
parte sua, ma mi sono positivamente ricreduto e devo ammettere che siamo
stati bene, abbiamo chiacchierato serenamente di tante cose (compresa
l’imminente festa del suo imminente ed importante **° compleanno) e non c’è
mai stato un momento di imbarazzo da parte sua.
O almeno non l’ho
notato….
Allego anche il mio ricorso al tribunale in cui, oltre alla richiesta di
consulenza di tipo psico-diagnostica per i miei figli che è stato accettato, chiedo
anche l’affidamento degli stessi. Cosa per il momento non presa in esame, fino
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alla data della prossima udienza fissata il 31 *** ***. Ma non era questa la
faccenda che mi premeva di più, bensì la serenità dei miei figli .
La ringrazio tantissimo per il preziosissimo aiuto offertomi, per le
eccellenti capacitò professionali ed umane che mi ha dimostrato dal momento in
cui, letteralmente disperato e come ultima spiaggia, mi ero rivolto a Lei.
Rimango a Sua completa disposizione nel caso Le servissero ulteriori
delucidazioni in qualunque modo utili per la risoluzione di casi drammatici
analoghi al mio.
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Per quanto riguarda le tattiche che utilizzano lo strumento giudiziario, si pu