Giovani viziati
Di questi tempi grande attenzione è rivolta alla categoria dei giovani, in parte compatiti perché vivono in un paese senza prospettive di crescita economica, mobilità sociale ed effervescenza culturale, in parte rimproverati in quanto bamboccioni scansafatiche e attaccati alle gonne (e al borsellino) di mammà. Il fenomeno può essere esaminato sotto il profilo delle politiche che soffocano la meritocrazia, garantiscono un’università poco costosa e il posto fisso ai padri, che Alberto Alesina ha descritto nel suo articolo del 28 gennaio. Un altro aspetto riguarda i rapporti familiari e di come la giurisprudenza incoraggi comportamenti non virtuosi da parte dei giovani.
Prendiamo la sentenza della Cassazione del 26 gennaio. La Corte, pur confermando che il mantenimento non è più dovuto ai figli sposati, ha accolto il ricorso di una madre che chiedeva all’ex marito un contributo per la figlia maggiorenne e studentessa in medicina che si era sposata con un giovane di Santo Domingo, anche lui studente. La coppia di ragazzi non si era realizzata professionalmente e non era ancora entrata nel mondo del lavoro. Dunque il papà deve continuare a contribuire al mantenimento dell’erede che, a ogni modo, era sempre rimasta a vivere con la mamma. Ma in questo caso, ha poi spiegato il collegio, non ricorrono i presupposti tipici del matrimonio, per i quali l’obbligo di sostentamento diventa reciproco solo tra i coniugi, con la realizzazione di «una comunione materiale e spirituale di vita», dato che la figliola e il marito erano giovani ed entrambi studenti. Non proprio studentelli, però: la ragazza aveva già conseguito una laurea breve in scienze motorie ma aveva deciso di proseguire gli studi in medicina.
Fa il paio con questa decisione un’altra, depositata il 24 gennaio, con la quale si è condannato un padre al mantenimento di un figlio maggiorenne, iscritto all’università e che già percepiva redditi sia di lavoro, sia da parte del padre stesso e della madre. Secondo la corte, l’autosufficienza economica equivale alla percezione di un reddito corrispondente alla «professionalità acquisita» (insomma, se uno si è laureato in ingegneria e fa il disc-jockey non sarà mai autosufficiente) in relazione alle «normali e concrete condizioni di mercato» (che evidentemente spetterà ai giudici definire). C’è di più: l’onere della prova di dimostrare che il figlio ha un reddito adeguato ricade sul genitore, il quale, per esempio, dovrà dimostrare che la società dalla quale il giovane percepiva denaro non era “di comodo” né gli varrà far notare che la mamma gli aveva regalato un’autovettura dal valore di 22mila euro (come nel caso concreto).
Questo è niente, comunque, rispetto alla condanna al versamento di 1.800 euro mensili cui è stato condannato un pensionato romano a favore delle figlie di 26 (terzo anno fuoricorso di giurisprudenza) e 30 anni (7° anno fuoricorso di sociologia!). Incidentalmente, la pensione del malcapitato era di 2.500 euro al mese.
Le giustificazioni delle sentenze si ritrovano nella legge sostanziale, nelle regole di procedura e in parte sono frutto di elaborazione giurisprudenziale. Ma qui non interessa quanto siano ferrati in diritto i magistrati né le sensibilità di ciascuno di noi (chi sente il dovere morale e affettivo di mantenere i figli a vita, può sempre farlo) ma quanto siano sballati i principi. La logica che viene affermata è contraria all’etica della responsabilità: non c’è un limite oltre il quale si può dire che i virgulti siano “svezzati” e comunque non fino a quando non abbiano realizzato i loro sogni (un lavoro soddisfacente e possibilmente fisso). Ciò incoraggia i giovani a diventare un gruppo di free rider (termine tecnico per definire gli scrocconi) che non si adattano alle “dinamiche del mercato del lavoro”, disdegnano la meritocrazia (come le due sorelline fuoricorso), con ciò favorendo un’allocazione inefficiente delle risorse. Questa linea di pensiero si coniuga con l’altra, onnipresente in Italia, che per ogni manchevolezza sociale «ci deve pensare lo stato». Torna in mente quanto scriveva l’economista francese Bastiat, per il quale lo stato è la grande illusione attraverso la quale tutti cercano di vivere alle spalle degli altri. Nel Belpaese, dove non ci facciamo mancare niente, allo stato abbiamo aggiunto la famiglia.