Bigenitorialità o cogenitorialità? di Marino Maglietta
Bigenitorialità è il termine, introdotto fin dalla prima stesura di quella che diventerà la legge 54 del 2006, utilizzato per designare sinteticamente la condizione in cui dovrebbe trovarsi – o, meglio, di cui dovrebbe godere – un figlio non solo fino a quando i suoi genitori vivono insieme, ma anche successivamente, dopo la eventuale rottura del rapporto di coppia.
In altre parole, la bigenitorialità sintetizza l’insieme dei diritti, di natura indisponibile, di cui è titolare un figlio a prescindere dalla relazione che intercorre tra i suoi genitori, che gli sono stati riconosciuti e garantiti dall’affidamento condiviso.
Purtroppo, già sul nome alcuni commentatori hanno inteso speculare, in modo abbastanza simile alla sorte riservata allo stesso istituto.
Quest’ultimo, infatti, è stato anche sprezzantemente indicato come affidamento “diviso” (cancellando “con”) ovvero “suddiviso”.
Il tutto non a caso, ma allo scopo di legittimarne un’interpretazione riduttiva e denigratoria, a sostegno della tesi che affidare i figli ad entrambi i genitori significa perdere l’unitarietà della loro educazione e crescita, significa privarli della necessaria stabilità.
Resta il fatto che questa corrente di pensiero sembra non vedere che la vantata tranquillità dell’esistenza del bambino, non più “sballottato” tra due case (tesi oltre tutto mistificatoria perché, al contrario, i figli oscillano maggiormente proprio in caso di affidamento esclusivo, o sostanzialmente tale) avverrebbe a prezzo della cancellazione di una figura genitoriale: un prezzo decisamente troppo alto da pagare.
Un po’ come la pace assoluta che si raggiunge dopo morti.
Non diversamente gli avversari della riforma del 2006 hanno avuto in uggia sin da subito il termine “bigenitorialità”. Al di là di chi di recente lo sta rozzamente accompagnando con l’aggettivo “maledetta”, attribuendogli la responsabilità dei più gravi maltrattamenti in famiglia, fino al femminicidio, (incredibilmente si sta parlando di soggetto che siede nella Commissione bicamerale infanzia in posizione di prestigio), altre tesi agiscono più sottilmente, ma comunque la avversano.
Sul piano del diritto si tende a dire da parte di alcuni che la bigenitorialità si rispetta preoccupandosi non dei diritti dei figli ma del loro “interesse”, ovviamente liberamente interpretato da chi non ne vuole sapere. In cima a questa libera e fantasiosa lettura si colloca il principio della valutazione “caso per caso”, e soprattutto quello che “conta la qualità e non la quantità”.
Al che, quando mi viene proposto personalmente questo criterio di valutazione, rispondo “D’accordo.
Allora io prendo la quantità e tu la qualità”. Ma non ci stanno mai… Naturalmente, le peculiarità del caso esistono e contano ma, se si vuole essere intellettualmente onesti, in discussione non sono i parametri in sé da considerare, ma l’ordine delle priorità.
Al primo posto, per legge, stanno le pari opportunità di rapporto del figlio con ciascuno dei genitori. In subordine, e solo in subordine, è lecito allontanarsene – e quanto meno possibile – tenendo conto delle specificità del caso.
Viceversa, esiste una ben precisa volontà di scambiare la regola con l’eccezione, documentata anzitutto dalla giurisprudenza ma anche, inequivocabilmente, da prestampati, protocolli e linee guida presenti in una quantità di tribunali.
Altra insidia tesa al concetto e ai concreti contenuti della bigenitorialità viene dalle condizioni poste per attuare un affidamento a entrambi i genitori effettivamente rispettoso della parità di impegno, responsabilità, sacrifici e opportunità.
Si dice, infatti, che tale coinvolgimento paritetico – cioè il vero affidamento condiviso – è praticabile solo se entrambi i genitori lo richiedono, se sono d’accordo nel metterlo in atto.
Altrimenti, si avrebbe il caos, il disordine totale, la mancanza per il figlio di una qualsiasi certezza di indirizzo.
I fautori di questa tesi la riassumono nel termine di “co-genitorialità”.
Una trovata geniale, bisogna ammetterlo, anche perché esistono molti soggetti attendibili, appartenenti culturalmente al versante della psicologia, che in perfetta buona fede affermano che la soluzione ideale dopo la rottura del legame di coppia è restare genitori insieme, ovvero mettere in pratica la co-genitorialità.
Nulla da dire, naturalmente, sul piano della teoria, come augurabile punto di arrivo, ma altra cosa è trasportare il concetto sul piano del diritto, trasformando un auspicabile obiettivo in necessaria premessa, in condizione irrinunciabile per dare applicazione a una legge dello Stato.
Per questo motivo chi scrive non intende correre rischi e continua a utilizzare l’inequivocabile termine di bigenitorialità.