N.14123/11 – Deve pagare l’assegno a figlia maggiorenne
ROMA – I papà devono continuare a versare l’assegno di mantenimento per i figli maggiorenni, che convivono con la moglie separata o divorziata, anche nel caso i cui i loro ragazzi abbiano trovato un lavoro con regolare contratto a tempo indeterminato
A sancire il permanere dell’obbligo di versare l’assegno alla ex moglie, basta la circostanza che l’occupazione reperita non sia adeguata rispetto alle aspirazioni dei figli. Lo sottolinea la Cassazione che ha respinto il ricorso di Antonio R., un artigiano in pensione di Perugia, stufo di versare la paghetta di 150 euro mensili per la figlia venticinquenne dato che la ragazza, ormai da tempo, lavorava, in regola, come commessa part-time presso una azienda e aveva uno stipendio di 600-650 euro al mese.
Siccome la figlia Teresa ha il diploma da ragioniera, per la Cassazione, l’impiego reperito non è adeguato rispetto al titolo di studio e bisogna che papà Antonio pazienti ancora un pò e tiri la cinghia con la sua magra pensione. Le ragioniere – nel mercato del lavoro, osservano i supremi giudici – non vanno più a ruba come una volta, e poi l’entità della busta paga non è sufficiente a consentire l’autosufficienza della giovane, seppur convivente con la madre.
In proposito la Cassazione – sentenza 14123 della Prima sezione civile – ricorda che «l’obbligo di versare il contributo per i figli maggiorenni al coniuge presso il quale vivono, cessa solo quando il genitore obbligato provi che essi abbiano raggiunto l’indipendenza economica, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato». Per cessare l’esborso, il genitore onerato deve provare che il figlio che mantiene si sia «sottratto volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata».
Nel caso affrontato, la Suprema Corte ha condiviso il ragionamento della Corte d’ Appello di Perugia che – nell’affermare il protrarsi dell’obbligo di mantenimento – aveva messo in evidenza la circostanza che «normalmente, anche lo sfruttamento di un diploma da ragioniera, di cui Teresa è munita, richiede oggi un tempo ben maggiore che nel passato». E poi il suo stipendio (pari a circa 600/650 euro mensili), era di «evidente inadeguatezza rispetto alle complessive esigenze di vita della ragazza». Inutile il tentativo di papà Antonio di far presente che, da quando era andato in pensione, il suo reddito si era molto assottigliato e non era certo colpa sua se Teresa «si era rifiutata di collaborare nell’azienda artigianale paterna».
Si deve accontentare del fatto che in primo grado, il Tribunale, aveva dimezzato gli originari 300 euro di assegno. Per quanto riguarda la “misurazione” dell’autosufficienza, i supremi giudici avvertono che essa «deve essere accertata anche sulla base di una corrispondenza, quanto meno tendenziale, fra le capacità professionali acquisite e le reali possibilità offerte dal mercato del lavoro, tenendo naturalmente conto, dell’assenza di colpevoli inerzie o rifiuti ingiustificati e, soprattutto, dell’entità dei proventi dell’attività esercitata nella ragionevole attesa di una collocazione nel mondo del lavoro adeguata alle capacità professionali e alle proprie aspirazioni, se ed in quanto concretamente e meritevolmente coltivate, nonchè prive di qualsiasi carattere velleitario». Ora Antonio deva anche versare mille euro per aver perso la causa in Cassazione