Mi fa proprio questa domanda secca la mia amica Ella, di punto in bianco mentre siamo intenti a discutere di tutt’altre cose: “Come dici a tuo figlio che lo ami?”
Come dici a tuo figlio che lo ami?
Non è una cosa semplice rispondere e prima di farlo prendo tempo, tiro il fiato – Ella intanto copre·questa mia pausa·con nuove parole -, metto ordine ai miei pensieri, penso alla frase che uscirà dalla mia bocca ancor prima di pronunciarla. Poi, nella frazione di secondo in cui torna il silenzio, le dico: “Ascoltandolo, standogli vicino, cercando di capirlo”.
E’ scontato, per me: a volte anch’io dico espressamente a Dodokko che gli voglio bene e anche lui lo dice a me. Ma quando lo faccio mi accorgo di quanto le parole siano insufficienti a esprimere un sentimento simile. Sento invece di amarlo e di comunicarglielo, ancora più direttamente che con la parola, quando vivo assieme a lui un suo stesso stato d’animo, quando riesco a essere ‘simpatico’ con lui, nel senso stretto del termine, ovvero di provare una stessa emozione.
Ho sempre creduto che l’amore debba essere manifestato concretamente e che si debba esprimerlo attraverso gesti quotidiani. Un amore non espresso con le azioni è un sentimento vuoto, teorico, senza alcuna utilità pratica. Detesto gli idealisti dell’amore, quelli che dicono di amare ma che sono incapaci di dare un minimo segnale d’amore. Penso invece che stare vicini a una persona, condividere il medesimo sentimento, sia l’espressione più realistica dell’amore.
Gesti quotidiani – ho detto – ma esistono giorni in cui la quotidianità ha il sopravvento sui sentimenti: è il mio limite, che fa parte dell’esistenza immersa inevitabilmente nella contingenza. Ma si tratta anche di grandi occasioni perdute per sempre. Assenze inspiegabili, ingiustificabili agli occhi di un bambino.