E’ reato fare pesare alla moglie il fatto di essere mantenuta. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 40845 pubblicata il 17 ottobre 2012 mettendo di fatto al bando l’espressione “e io pago”, spesso oggi utilizzata nel linguaggio comune, e che, come molti sapranno ,deriva dal famoso film di Totò , ” 47 morto che parla”. In questo film Totò interpreta la figura di un avaro, il Barone Antonio Paletti.
La figura dell’avaro ha da sempre ispirato la cinematografia e la letteratura ma ,il più delle volte, la realtà ci offre casi di avarizia molto discutibili.
Il matrimonio, purtroppo, e’ uno scenario in cui sentimenti come l’avarizia, l’egoismo e l’ indifferenza si accentuano nel caso di insanabili conflitti tra la coppia.
In particolar modo, nel caso di famiglie monoreddito alcuni uomini si sentono depauperati delle loro finanze ritenendo le mogli, che si adoperano in maniera devota alla cura della famiglia e dei figli, delle ingrate opportuniste non meritevoli di tutela perché non producono reddito.
In merito a ciò recentemente la Cassazione con la sentenza n. 40845/2012 ha stabilito che : “
costituisce reato offendere la propria moglie, apostrofandola come “mantenuta”,perché non porta uno stipendio in casa.
I giudici hanno precisato che se la moglie non lavora ,il marito non deve farglielo pesare, altrimenti, incorre nel reato di maltrattamenti in famiglia (art.572 c.p.).
Secondo l’articolo 572, comma 1, del
codice penale (formalmente riferito ai “maltrattamenti in famiglia o contro fanciulli”) “chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Il reato di maltrattamenti e’ un reato a forma libera perché i maltrattamenti possono realizzarsi ponendo in essere qualunque tipo di condotta.
Tale delitto viene pacificamente qualificato come un reato abituale a condotta plurima, in quanto per la sua consumazione è richiesta una reiterazione nel tempo di condotte omogenee.
La storia riguarda una coppia pugliese, nella quale il marito era solito offendere la moglie con epiteti infamanti ed umilianti, perché la stessa impegnata ancora in studi universitari non percepiva un proprio reddito pesando, a detta del coniuge, sul ménage familiare.
Ma l’atteggiamento offensivo del marito si era spinto anche oltre, al punto tale che nel vaglia on Line, utilizzato per pagare il mantenimento della figlia, utilizzava la parola chiave ” baldr” diminutivo dell’insulto baldracca, vezzeggiativo con cui si rivolgeva spesso alla moglie.
Inoltre, l’ ostilità del marito nei confronti della moglie, si era palesata anche quando lo stesso, prima di lasciare la casa coniugale, aveva interrotto la fornitura dell’ acqua ed aveva svuotato l’appartamento di tutto l’arredamento che riteneva di aver comprato con i suoi soldi.
Oggetto del procedimento penale,instauratosi nei confronti dell’uomo, era anche il reato di violenza sessuale(art.609bis c.p.).
Secondo l’art. 609 bis comma 1 del codice penale (rubricato “violenza sessuale”) “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.
Il delitto previsto dall’art. 609 bis c.p. è quindi integrato da ogni costrizione a subire un atto sessuale, che va inteso non soltanto come congiunzione carnale (che implica, pertanto, penetrazione) ma anche come atto di natura oggettivamente sessuale (tra i quali i toccamenti, la palpazione, la masturbazione ma anche, in taluni casi, il bacio sulle labbra), nel senso che tali comportamenti dovranno essere valutati per la loro attitudine ad offendere la libertà sessuale della persona offesa.
Qui di seguito in breve i fatti processuali.
Il Tribunale di Brindisi riconosceva la penale responsabilità del marito per i reati di cui agli artt. 609-bis (violenza sessuale) e 572 c.p. (maltrattamenti) commessi ai danni della moglie e, concesse le attenuanti generiche e riconosciuto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di anni 4 di reclusione ed al pagamento delle spese processuali, oltre pene accessorie.
Il Giudice di secondo grado, riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 609-bis, comma 3, c.p., rideterminava la pena inflitta in quella di anni 2 di reclusione, con contestuale sospensione condizionale della pena.
La Suprema Corte riteneva fondata l’imputazione in ordine al reato di violenza sessuale dal momento che, ai fini della configurabilità del reato in esame, é necessaria la sussistenza di un’offesa al bene giuridico protetto (libertà di autodeterminazione sessuale), nella specie violato poiché il marito aveva costretto la moglie ad avere rapporti sessuali con lui immobilizzandola al letto.
Inutile il tentativo di discolparsi del marito ,a suo dire tale comportamento era finalizzato a risolvere la crisi coniugale.
In ordine invece al reato di cui all’art. 572 c.p., la Corte rilevava che, anche relativamente alla continuazione, i comportamenti del marito si erano caratterizzati per la ripetitività, atteso che fin dall’inizio della vita coniugale egli era solito offendere la moglie rivolgendosi a lei con epiteti infamanti ed umilianti, facendole pesare di essere a suo carico non percependo un proprio reddito, sì da instaurare un regime di vita logorante, volto al continuo discredito della consorte annientandone la personalità.
In conclusione, il Giudice di legittimità ha evidenziato la sussistenza di elementi tali da integrare entrambi i reati contestati ed accertati con ambedue le sentenze di merito.
Fonte: StudioCataldi.it