“Gli equilibristi”
Sembrerebbe una famiglia felice, quella di Giulio, sua moglie e i loro due figli con cui ha un bel rapporto di confidenza ma anche autorevolezza. In realtà sui titoli di testa abbiamo visto lui, in un flashback, con un’altra donna in un ufficio deserto, a consumare un rapporto sbrigativo e, si capirà poi, frutto di leggerezza e non di passione. Una leggerezza che ha incrinato quell’unità familiare: la moglie Elena (interpretata da Barbora Bobulova), silenziosa e tesa, non riesce a reggere quell’immagine di felice unità e non sa dimenticare il tradimento. Giulio se ne va di casa, forse pensando a una crisi passeggera, addolorato ma dignitoso nel fare tutto quel che può per non far mancare nulla a moglie e figli, cui cerca di non far pesare la situazione. Ma lo stipendio da impiegato all’ufficio postale è troppo basso e le spese cui far fronte sono troppe, e ci si mette anche l’orgoglio (che gli impedisce, per esempio, di accettare i soldi della suocera per il dentista del figlio). Elena non sembra accorgersi delle privazioni che via via Giulio deve imporre a se stesso, tra situazioni grottesche (il collega che lo ospita in casa, con la madre malata e il badante straniero), lavori notturni che gli tolgono il sonno e la serenità, rapporti di amicizia che saltano e pericoli crescenti di fare sciocchezze o mettersi nei guai. Solo la figlia adolescente sembra capire, in parte, i problemi del padre. Che a un certo punto tira su un muro anche con lei.
È un film profondamente contemporaneo Gli equilibristi, presentato a Venezia 2012 nella sezione Orizzonti. Si parla di crisi, di un padre separato che non ce la fa ad andare avanti (sembra la versione drammatica della commedia di Carlo Verdone Posti in piedi in Paradiso, che pure non mancava di spunti seri), di gente semplice che rischia di perdere il poco che ha costruito e finire in povertà. Gente che pensa di poter separarsi “serenamente”, con dignità e generosità verso moglie e figli, scoprendo poi – come afferma un compagno di sventura al protagonista – che “il divorzio è per i ricchi, quelli come noi non se lo possono permettere”. Con 1.200 euro al mese è dura sopravvivere, continuare a pagare il mutuo della casa dove vivono moglie e figli, l’auto a rate, un appartamento per sé. E poi la gita scolastica o il dentista dei figli e tanto altro. A un certo punto anche i pochi euro di un gioco per il figlio fanno saltare i nervi.
Ma se il tema della crisi economica ha il suo peso, il regista Ivano De Matteo riesce, grazie anche alla straordinaria interpretazione di un intenso Valerio Mastandrea (bravissima anche l’attrice che interpreta figlia, la giovane Rosabell Laurenti Sellers), a focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla crisi personale, di Giulio ma anche di chi gli sta attorno: perché se l’uomo ha un orgoglio che gli fa spesso fare la cosa sbagliata, o non chiedere aiuto quanto dovrebbe (anche se ci prova, ma sempre fino a un certo punto: chiede un posto dove dormire o un lavoro extra, ma mai compagnia e sostegno perché crede sempre di farcela), la moglie non si accorge di quel che succede (e sì che basterebbe fare due conti: incongruenza del film o volontaria rappresentazione di una distrazione ai limiti dell’insensibilità?). Sono tante le situazioni in cui il film colpisce duro nella spirale di caduta di quest’uomo che finisce sempre più in basso.
Quel che rende Gli equilibristi un bel film, da vedere, è lo sguardo appassionato e partecipe del regista alle sofferenze di questa famiglia (con tocchi di grande sensibilità, come l’espressione del figlio più piccolo spaventato dalla rottura che percepisce tra i genitori), le piccole e grandi solidarietà di alcuni e il cinismo e la freddezza di altri, lo squarcio di società rappresentato con la semplicità dei narratori non ideologici di una volta. De Matteo sa infatti alternare dramma e commedia – a tratti si sorride e perfino si ride, perché la vita è così e alterna momenti duri a frangenti buffi o surreali – come i film italiani che hanno fatto grande il nostro cinema del dopoguerra (e non è una guerra, la situazione di crisi attuale?): riuscendo quindi, come si diceva per quei film, in un’alternanza non forzata tra il riso e il pianto. E ha il coraggio di mostrare, in una scena significativa e non di contorno, preti e suore (il riferimento è alla comunità di Sant’Egidio, conosciuta personalmente dal regista) come figure per una volta non negative in un film italiano importante, in aiuto a chi cade suo malgrado in disgrazia. Soprattutto l’autore sa come chiudere una storia, senza annullarne le premesse ma anche senza incanalare vite e destini per forza in uno sfacelo abbrutente e senza prospettive. I finali aperti, in genere, ci piacciono molto, quando questa non è una scelta fine a se stessa ma serve a lasciare uno spazio di libertà ai personaggi e allo spettatore. Quello del film di Ivano De Matteo ci fa provare una tenerezza senza fine per il suo protagonista.
Antonio AutieriIl cuscino sul sedile, il plaid sotto il lunotto, il piumino, la radio, l’ombrello con il manico di legno. Come una seconda casa. Gli anni sono passati. Quel 128