False accuse: Manda in carcere padre e zio, ritratta: non le credono più
La ragazza dice: “Ho fatto condannare mio padre e mio zio per pedofilia su di me rispettivamente a 10 e a 16 anni di carcere, con sentenza ormai definitiva, accusandoli degli abusi sessuali commessi in realtà dal nuovo compagno di mia madre. Sono disperata e non so che fare”. A parlare è una ragazza, la chiameremo Antonella, che vive nella zona del lago di Como. Le parole si fanno largo a fatica tra le lacrime e sono terribili. Nata nel 1994, appena ha compiuto 18 anni lo scorso settembre, Antonella ha potuto finalmente abbandonare la casa materna, dove viveva dopo la separazione dei genitori, andare a vivere dai nonni paterni e ritrattare le accuse. Obiettivo. ristabilire la verità e riscattare dalla vergogna e dalla galera suo padre e suo zio, in carcere da sei anni. L’impresa però appare davvero difficile, se non impossibile. Lo scorso 14 dicembre infatti la Corte d’Appello del tribunale di Brescia, competente per territorio, ha respinto la domanda di revisione del processo presentata il 31 ottobre 2010 dai difensori di Antonella, avvocati Ferdinando e Antonio Paglia, subentrati ai legali precedenti, Romeo Perego e Marcello Campisani.La bocciatura bresciana non è però esente da critiche, tant’è che gli avvocati Paglia stanno preparando il ricorso in Cassazione. A leggere le motivazioni del rigetto si scopre che i giudici hanno basato la loro sentenza sull’affermazione che Antonella “non è credibile, chiaramente condizionata dall’ambiente, dai nonni”, parole che dimostrano come i magistrati abbiano assunto informazioni sulla vicenda, entrando così nel vivo delle questioni. “La legge però vieta che per decidere se riaprire o no un processo i magistrati possano svolgere indagini o assumere informazioni”, fa notare l’avvocato Ferdinando Paglia. Procedura a parte, i magistrati bresciani con quelle parole rivelano una contraddizione: se si suppone che una persona di 18 anni sia condizionabile da due ultraottantenni, quali sono i nonni di Antonella, non autosufficienti e uno costretto alla sedia a rotelle, a maggior motivo si deve supporre che la stessa persona, quando aveva appena 12 anni, fosse condizionabile dal compagno, giovane ed energico, della madre. Veniamo ai fatti. I genitori di Antonella si sposano il 23 maggio 1992 e vanno ad abitare in una parte della casa dei genitori di lui. A settembre del ’94 nasce Antonella. Nel settembre ’97 la madre abbandona una prima volta il tetto coniugale, a causa dell’invadenza dei suoceri. L’agosto dell’anno successivo torna dal marito, ma vanno ad abitare per conto loro. Nel giugno del ’99 nasce il fratellino di Antonella. A marzo del 2000 la famiglia al completo torna ad abitare a casa dei genitori di lui, cioè dei suoceri di lei e nonni paterni di Antonella, dove vive anche lo zio. A maggio del 2003 la donna non ne può più e molla il marito e i suoceri: si porta via i figli e va ad abitare dai propri genitori. A fine anno inizia la relazione con l’uomo con il quale convive tuttora e nel 26 giugno 2004 chiede la separazione legale ottenendo l’affido di entrambi i figli. Alessandra vive un po’ dalla madre e un po’ dal padre, presso il quale va a vivere stabilmente il bambino per poter frequentare l’asilo. I rapporti tra i coniugi si fanno sempre più conflittuali, con intervento dei servizi sociali, e nel luglio 2005 si formalizza la separazione consensuale: Antonella è affidata alla madre, suo fratello al padre. Ai primi del dicembre 2006 nasce il figlio della madre di Antonella e del suo convivente. Fin qui i fatti certi. Dopodiché iniziano le denunce e i fatti riferiti solo de relato, senza testimoni diretti, ma comunque messi a verbale nel corso delle indagini, ritenuti veri e quindi riportati nella sentenza di condanna. Il convivente sostiene che, tre giorni dopo la nascita del fratellastro, Antonella si è confidata con lui raccontandogli gli abusi subiti dallo zio con il consenso del padre. Per parte sua la madre sostiene che Antonella ha raccontato tutto anche a lei quando era ancora in ospedale per il dopo parto. L’elenco di quel “tutto” è raccapricciante ed è dettagliato nelle 120 pagine della sentenza di primo grado: “Penetrazioni vaginali ed anali, con il proprio organo genitale, con le dita ed anche con l’utilizzo di oggetti ed ortaggi, quali manici di scope, cambio dell’automobile, zucchine, cetrioli, carote, dopo avere cosparso l’ano della vittima con burro di cacao o olio; nonché le imponeva di praticargli atti sessuali quali la masturbazione”. Il 12 dicembre 2006 i due conviventi sporgono denuncia ai servizi sociali di Legnano e il 18 Antonella mette per iscritto di avere subito gli abusi. Il 30 di quello stesso mese il fratellino di Antonella racconta anche lui alla madre di avere subìto abusi dallo zio. Lo stesso giorno la donna e il suo convivente denunciano il padre e lo zio dei due bambini, la madre inoltre porta Antonella al pronto soccorso di Legnano “denunciando espressamente il timore di violenze sessuali”, come si legge nella sentenza. La bambina viene visitata dal ginecologo Roberto Gadda, che però non trova traccia di “significativi rilievi quanto alla possibilità di volenze sessuali”, tanto da non poter neppure escludere con certezza che Antonella sia ancora vergine. Di avviso totalmente diverso il perito dell’accusa, dottor Botta, che sin dal 16 gennaio 2007 traccerà un quadro clinico “altamente compatibile con abusi sessuali”. Abusi vaginali e anali per Antonella e anali per il suo fratellino, che dopo la denuncia è tornato a vivere con la madre. Il 27 maggio 2007 nel tribunale di Como si tiene l’incidente probatorio, debitamente registrato. “E qui si rileva la prima stranezza”, afferma l’avvocato Ferdinando Paglia: “Al 50esimo minuto di registrazione si sente Antonella dire “Mio zio non ha fatto nulla”, il che significa che è innocente anche il padre. Eppure il giudice per le indagini preliminari anziché approfondire la contradditoria affermazione, passa ad altra domanda. E gli avvocati Perego e Campisani, che non si sono mai dotati di un consulente né criminologo né psicologo, non si accorgono di nulla”. L’avvocato aggiunge inoltre: “Da un verbale del tribunale dei minori di Milano risulta che tre anni fa Antonella aveva detto anche a una sua zia materna che lo zio non c’entrava nulla, ma quella donna dagli inquirenti non è mai stata neppure convocata”. I nuovi avvocati nominano come perito della difesa il noto criminologo Francesco Bruno, che ridimensiona di molto la perizia d’ufficio e l’attendibilità del modo con il quale sono state raccolte e interpretate le affermazioni dei due bambini, che continuano a vivere con la madre e il suo nuovo compagno. Bruno fa notare che quadro clinico “altamente compatibile con abusi sessuali” non significa necessariamente che gli abusi ci siano stati e che siano stati commessi da una persona anziché da un’altra. Fa notare che spesso le mogli separate accusano per vendetta i mariti di avere abusato delle figlie anche quando sanno bene che non è vero. Bruno cita i molti casi simili che hanno portato a sentenze rivelatesi in seguito sbagliate. C’è una lista di accuse e mandati di cattura contro padri e parenti accusati di abusi sessuali sui propri bambini e scarcerati dopo anni di galera. Alcuni casi si sono conclusi con il suicidio degli accusati, altri con critiche feroci da parte di altri magistrati. Il caso più eclatante è quello di un’intera famiglia biellese, padre, madre e nonni, suicidi nel 1966 col gas di scarico della propria auto, sul cui parabrezza avevano lasciato un bigliettino: “Quattro innocenti uccisi dalla giustizia”. Erano stati accusati di aver violentato i loro figli e nipoti. Niente da fare. Le condanne arrivano in primo grado il 15 gennaio 2009 al tribunale di Como, in secondo grado il 26 novembre 2009 a Milano e la conferma in Cassazione il 14 aprile 2011. Lo scorso settembre Antonella diventa maggiorenne e senza aspettare più neppure un giorno fugge al controllo della madre e del suo compagno, trasferendosi dai nonni paterni. Vuole smentire tutto e subito, ritrattare le accuse al padre e allo zio e accusare invece il convivente della madre: “E’ lui che ha abusato di me per anni e anni ed è lui che mi ha costretto ad accusare mio padre e mio zio. Perché lo ha fatto? Per odio verso di loro e per impedire che fossi creduta se un giorno avessi detto la verità”. Ma Antonella vive in un paesino, non ha una famiglia solida alle spalle, non ha soldi, anzi cerca disperatamente un lavoro e deve pure accudire ai nonni materni ultraottantenni, non autosufficienti, distrutti dal dolore per i due figli in galera con accuse infamanti. Non sa che fare e non è certo in grado di ingaggiare avvocati di grido con parcella salata e accessi garantiti nei salotti televisivi. Antonella è solo una ragazza spaesata, fragile, provata dalle umiliazioni, dai rimorsi e dalla disperazione, per nulla aggressiva. E in un paesino è difficile trovare chi si metta contro le verità ufficiali specie se sancite da tre gradi di giudizio. Come andrà a finire? Proviamo a parlarne con la diretta interessata. Domanda – Alessandra, la ritrattazione delle accuse a suo padre e a suo zio e la denuncia contro il compagno di sua madre sono un colpo di scena clamoroso. Ma i mass media non ne parlano. Secondo lei perché? Risposta – Sinceramente, non lo so. So solo che ho appena 18 anni e non so a chi rivolgermi. Forse i giornali parlano solo quando succedono tragedie evidenti e tutti si ricordano di te. D – Non pensa che il suo racconto sia piuttosto difficile da credere e ancor più difficile da dimostrare se sia vero o falso? R – Il mio racconto è un incubo, ma io dico solo la verità, non so come sia possibile far venire alla luce la verità, non sono un avvocato né un giudice o un poliziotto. So solo che la mia è una tragedia per me stessa, per mio papà e mio zio. D – Lei sa perché suo padre e sua madre si sono separati e quando? R – Sulla prima domanda non so rispondere, io ho chiesto solo a mia madre perché non stava più con papà e non ho ricevuto risposte chiare, o comunque non le ho capite. D – Quanto tempo lei passava nella nuova abitazione di suo padre e quanto in quella di sua madre? R – Ero piccolina all’epoca, e non ricordo bene, ma sicuramente passavo non troppo tempo da papà e la maggior parte del tempo da mamma. D – Quanti anni aveva quando sua madre ha iniziato la coabitazione con il nuovo compagno? R – Probabilmente, ma non ricordo bene, avevo 9 o 10 anni D – Lei sostiene che il nuovo compagno ha cominciato ad abusare di lei approfittando del ricovero di sua madre per partorire il terzo figlio. A quell’epoca lei quanti anni aveva? E suo fratello? R – Ne approfitto per chiarire che io non ho mai detto che il compagno di mia madre ha abusato di mio fratello. Io so degli abusi che ho subito io. E che sono iniziati prima ancora della nascita del figlio del compagno di mio madre. A infastidirmi ha cominciato quando avevo 9-10 anni anni. Si infilava nel mio letto con la scusa di farmi addormentare e quando mia madre stufa di aspettare lo chiamava, dicendo “oh, ma tua moglie sono io!”, rispondeva che io spesso mi svegliavo con attacchi di panico e perciò era meglio che lui mi stesse vicino. Prima o poi mia madre si addormentava. D – Come è possibile che sua madre non si sia mai accorta di nulla pur vivendo con lei e il suo fratellino nella stessa casa? R – Non so rispondere. Spero che davvero mia madre non si sia mai accorta di nulla. E lo spero perché le voglio bene. D – Lei sostiene di avere accusato suo padre su istigazione del compagno di sua madre, ma perché lo avrebbe fatto? R – Non so dire cosa passi per la testa di un mostro. Posso solo dire che mio padre e mio zio sono calabresi e per il compagno di mia madre “i calabresi sono una razza di merda”, li voleva eliminare. D – Suo padre e suo zio sono stati condannati in via definitiva a pene pesanti, 10 anni di carcere l’uno e 16 l’altro. Dalle prime indagini alla sentenza definitiva, cioè della Cassazione, sono passati quattro anni e mezzo . E durante questi anni lei non si è mai confidata con parenti, amici, amiche, medici, sacerdoti e insegnanti delle scuole che frequentava? R – Sì, mi sono confidata con alcune persone, ma il compagno di mia madre mi faceva passare sempre per bugiarda, per matta. D – E sua madre non le ha mai chiesto nulla? Neppure per capire meglio le sue accuse quando le ha fatte e per cercare una valutazione della gravità dei danni subiti per gli abusi? R – Mamma non mi ha mai chiesto nulla. D – Nessuno le ha consigliato uno psicoterapeuta? R – Sì, quando io parlavo degli abusi c’era chi non mi credeva e mi consigliava di andare dalla psicologa o di farmi aiutare da un medico. Come se le cose me le inventassi. D – Cosa ha provato quando sua padre e suo zio sono stati condannati e arrestati? R – Io non sapevo dell’arresto, sapevo che erano stati condannati, ma non sapevo nulla delle conseguenze. D – Suo padre si è dato alla latitanza, poi però è stato arrestato. E ora lei va a trovare in carcere sia lui che suo zio. Cosa prova quando li vede? E loro cosa le dicono? R – Io mi sento in colpa e sto male al solo pensiero, figuriamoci quando li vedo, ma non potevo fare nulla di diverso perché ero minacciata e picchiata. Loro non mi odiano. Non mi dicono nulla di cattivo. Hanno sempre sperato e sperano ancora che la verità dei fatti venga a galla. D – E ora che lei ha ritrattato e accusato invece il compagno di sua madre, che prove può fornire dell’innocenza di suo padre e di suo zio e delle colpe del compagno di sua madre? R – Quello che dovevo dire l’ho riferito poco tempo fa ai carabinieri, e non posso dire altro. D – Come mai dopo le sue accuse al compagno di sua madre,suo fratello vive ancora con lui? I magistrati non hanno preso nessuna iniziativa? Neppure i parenti? R – E lo chiede a me? Guardi, bisognerebbe chiederlo ai magistrati. D – Che lavoro facevano suo padre e suo zio e che lavoro fanno sua madre e il convivente? R – Mio padre stava in un impresa edile, mi sembra, e mio zio lavorava in un supermercato. Mia madre fa la casalinga e il compagno di mia madre che io sappia è disoccupato. D – Chi si accolla le spese degli avvocati? R – Non lo so, credo i miei nonni. Che non navigano certo nell’oro. Oppure gli avvocati sono soprattutto volontari. D – In tutti questi anni lei non ha mai avuto un rimorso, un ripensamento, la tentazione di dire la verità, di fuggire da casa di sua madre e correre dai carabinieri o dai magistrati? R – Tutti i giorni in tutti i momenti. Ma la realtà attorno a me era quella che era: un muro invalicabile. Le volte che ci tentavo ero ricacciata indietro. E minacciata da quell’uomo. D – Lei il compagno di sua madre lo ha definito “aguzzino”, termine che si usa per chi esercita delle torture. Lei che torture ha subito? R – Lei come definirebbe le violenze sessuali, psicologiche, le minacce e l’essere picchiata? Aguzzino forse è anche una parola gentile. D – Non teme che dopo la ritrattazione e le accuse al compagno di sua madre suo fratello corra dei rischi? R – Non so dire, ma lui, il compagno di mia madre, qualche volta mi ha minacciato di voler far del male anche a mio fratello e a mia madre se io avessi parlato. D – Dopo la separazione i suoi genitori hanno divorziato? E se non hanno divorziato, perché non lo hanno fatto? R – Non le so rispondere. di Pino Nicotridi Fonte:http://www.blitzquotidiano.it