I giudici: prove d’infedeltà le notizie su Facebook
È una nuova dimensione con cui devono fare i conti giudici e avvocati. I social network, le possibilità di comunicazione offerte dagli smartphone, i dialoghi via skype sono innovative frontiere tecnologiche che influenzano sempre più spesso relazioni sentimentali e disagi psicologici. In materia, aumentano le cause civili, dove fonti di prova diventano frammenti di messaggi registrati con le nuove tecnologie.
Di esempi ce ne sono molti. Coperti, naturalmente, dall’anonimato. Una signora della provincia di Napoli ha avviato una causa di separazione, dopo aver scoperto su Facebook foto ricorrenti del marito con una giovane donna. Messo alle strette, lui ha ammesso il nuovo amore ed è andato via da casa. Quando la coppia è arrivata a dover fare i conti sulla separazione, l’accordo non è arrivato. È scattata la causa di separazione giudiziaria, dove le foto di Facebook sono diventate prove principali. Il giudice, però, che deve ancora decidere, ha chiesto ulteriori elementi per poter addebitare al marito la colpa della separazione per infedeltà.
Un signore di Napoli, invece, scopre il tradimento della moglie e ne chiede conto su WhatsApp. Lei, forse distratta, ammette. La causa successiva ha come prova d’avvio proprio quella risposta frettolosa e un po’ improvvida. Ma a fare da precedente, citato in molti ricorsi, è un decreto del tribunale di Santa Maria Capua Vetere su una causa di revisione delle condizioni di separazione. La coppia si era separata, con la rinuncia reciproca degli assegni di mantenimento. Lei, però, spiegando di aver perso il lavoro e di essersi ammalata, chiedeva di cambiare l’originario accordo per ricevere da lui un assegno mensile di 700 euro. Il marito ha risposto che le sue condizioni economiche erano peggiorate e che la moglie, in relazione con un medico ortopedico, poteva condurre «un livello di vita anche superiore a quello che aveva nel matrimonio».
La prova della relazione, manco a dirlo, sono state le fotografie e le notizie pubblicate sul profilo Facebook della donna che, alla voce nota a tutti di «situazione sentimentale», aveva scritto «impegnata» aggiungendovi il nome del medico. Una prova, come le foto di più viaggi. Materiale utilizzabile nella causa, o coperto da riservatezza e quindi tutelato dalle norme sulla privacy? Il collegio giudicante, presieduto da Ida D’Onofrio, ha scritto che le «informazioni e le fotografie pubblicate sul proprio profilo Fb non sono assistite da segretezza, a differenza dei messaggi scambiati attraverso il servizio di messaggistica (la chat) fornito dal social network da assimilare a forme di corrispondenza privata».
Qualsiasi cosa si pubblichi sul proprio profilo, anche se riservato a cerchie ristrette di amici, diventa pubblico, secondo i giudici. Ma il tribunale non si è accontentato, naturalmente, delle informazioni attinte da Facebook. Ha incaricato la polizia municipale di verificare la convivenza della donna, come prova aggiuntiva «tale da escludere il diritto a percepire un assegno di mantenimento». Respinto dunque il ricorso della ex moglie, condannata alle spese di giudizio per 1400 euro più Iva. Una decisione, con relatore il giudice Luca Caputo, di tre anni fa diventato un precedente sulla possibilità di utilizzare le notizie inserite sui profili Facebook come prove in una causa di separazione.
Dice il presidente del tribunale di Napoli, Ettore Ferrara: «Il lavoro della prima sezione civile, che si occupa di questa materia, è costante. Certo i colleghi hanno la necessità di esaminare questioni nuove, che attengono proprio alle fonti di prova aumentate dall’uso delle nuove tecnologie». Amanti virtuali e relazioni nate in Rete, situazioni clandestine che, nell’illusione della riservatezza, si inseriscono sui social quasi a voler dimostrare, in quel mondo parallelo, il proprio amore che si copre invece nella vita reale. Dice l’avvocato Valentina De Giovanni: «La Rete ha incrementato le occasioni di crisi nelle coppie».
C’è un’altra vicenda che fa da precedente, stavolta in una sentenza della Cassazione del 2013. Lei e lui si separano, con una decisione che impone all’ex marito il pagamento di un mantenimento di 700 euro al mese per il figlio minore. Lui tenta di ridiscutere l’accordo, addebitando a lei la causa della separazione per infedeltà. Come prova ha una mail e la dichiarazione della moglie del presunto amante. Non c’è altro e, dopo le decisioni d’appello, la Cassazione conclude che «il legame si è rivelato platonico, fatto di contatti telefonici o via Internet data anche la notevole distanza tra i luoghi di rispettiva residenza, non connotato da reciproco coinvolgimento sentimentale».
Negata dunque la relazione sull’indizio della mail e respinto il ricorso, con spese del giudizio per 3200 euro addebitate all’uomo. Nelle decisioni dei giudici, si diffonde la tesi che email, sms, skype sono mezzi di corrispondenza privata e quindi non possono essere violati. Proprio come la posta ordinaria. Quindi, un coniuge che si mette a leggere quei messaggi per portarli al giudice, può essere denunciato per violazione della privacy. Un universo infinito e nuovo, che si riflette nelle già ruvide cause di separazione tra coniugi. C’è già giurisprudenza nuova, come una sentenza di Cassazione del 9 aprile 2015 che, al dovere di fedeltà, ha aggiunto quello di lealtà, riferendosi ai tradimenti virtuali. Una sentenza di Cassazione in contrasto con quella del 2013. E siamo solo agli inizi.
Fonte: www.ilgazzettino.it