Affidamento dei figli: la Cassazione predilige modello monogenitoriale
Di Marina Maglietta
Una lunga serie di interventi volti alla conservazione del vecchio schema mono genitoriale trova coronamento nella sentenza di Cassazione 19 settembre 2019 – 21 gennaio 2020, n. 1191 (testo in calce) che mostra senza equivoci per quale modello simpatizzi.
Premessa: la sentenza di Cassazione n. 1191/2020 fra precompressione e creazione giudiziaria di diritto
La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile, n. 1191 del 2020 ripropone un antico problema, ovvero la determinazione e il rispetto del confine – a volte labile, ma di estrema rilevanza, visto che i gradi del giudizio non sono infiniti – tra decisioni di merito e di legittimità.
In effetti, chi scrive è intimamente convinto che l’estensore di un provvedimento prima decida come orientare la decisione su basi di opportunità di ispirazione culturale e dopo ne cerchi la giustificazione tecnica, costruendola in qualche modo, non sempre persuasivo (è il noto fenomeno della c.d. precomprensione dell’interprete). Tutto questo sarebbe difficilmente accettabile, anche se la scelta a priori fosse ispirata a generali principi di equità applicati episodicamente, caso per caso e in assenza di sistematicità. Si ha, invece, non di rado l’impressione che le decisioni della Corte seguano fedelmente suoi punti di vista, andando in sostanza a “correggere” il dettato normativo. In altre parole, sembra che chi amministra il potere giudiziario a quei livelli utilizzi le occasioni fornite da singole vicende, anche a costo di forzarne la soluzione, per modificare sostanzialmente regole che non approva. Così, creando un evidente conflitto tra i poteri dello Stato.
La filosofia generale sottesa all’affidamento condiviso
Il diritto di famiglia – e in particolare le regole sull’affidamento condiviso – fornisce un illuminante esempio di una prassi di questo tipo.
Lo rammenta, inequivocabilmente, la sentenza n. 1191 del 21 gennaio 2020, che appare improntata ad una filosofia di dubbia coerenza con la lettera e con lo spirito della Legge 54/2006.
Conviene, tuttavia, partire un po’ più indietro per meglio verificare se la recente decisione si collochi o meno all’interno di una sistematica tendenza ostile ai concreti contenuti della bigenitorialità. Se questi, come sembra pacifico, possono essere individuati nel pari coinvolgimento dei genitori nella cura dei figli, nelle pari opportunità di relazione con essi e nel pari obbligo – diverso solo nella misura – di contribuire, ciascuno per suo conto, al soddisfacimento dei loro bisogni, è facile verificare come invece le simpatie della Suprema Corte siano tutte per la monogenitorialità. Naturalmente i principi elencati sono da intendere solo come regola generale, con tutte le infinite eccezioni che la casistica sottopone. Ma la differenza resta fondamentale e chiarissima. Un conto è porsi come obiettivo primario le pari opportunità e allontanarsene solo se e nella misura in cui sia materialmente impossibile realizzarle; altra cosa assumere come modello consigliabile, preferenziale, di partenza, la prevalenza di un genitore e neppure curarsi di verificare se sia possibile operare diversamente.
Posta la questione in questi termini, si tratta solo di riflettere su quanto è sotto gli occhi di tutti, a partire dai prestampati distribuiti nelle cancellerie per quanto attiene ai giudici di prime cure, che dimostrano ad abundantiam il favore nei confronti del modello sbilanciato, a genitore prevalente: l’esatto opposto di quanto previsto dalla riforma del 2006. Meno semplice, ma possibilissimo, ottenere la medesima evidenza per la Cassazione, la cui rilevanza è massima, trattandosi di Corte di legittimità. In questa sede, dunque, la sentenza che inaugura il 2020 quanto al regime di affidamento dei figli sarà considerata come punto di arrivo di decisioni antecedenti, le più significative delle quali verranno velocemente rammentate.
L’ostilità “storica” della Suprema Corte verso il modello condiviso
Iniziando dall’aspetto cruciale, la presenza dei figli presso ciascuno dei genitori, la legittimazione della prassi di sbilanciare la frequentazione introducendo (rectius, inventando) un “genitore prevalente” è assolutamente costante, per cui non esiste che l’imbarazzo della scelta. L’ammissione più esplicita può essere vista in Cass. 18087/2016: “Il criterio che privilegia la madre nell’individuazione del genitore con il quale i figli in età scolare o prescolare vivranno in via prevalente in ipotesi di separazione può essere superato solo se la donna non possiede le necessarie capacità genitoriali ed educative”. Si è ovviamente al cospetto della confessione di una ideologia contra legem che va ben oltre quanto di regola praticato, individuando anche differenze di genere di dubbia costituzionalità, non necessarie per il ragionamento che qui si conduce, che mira soltanto a mostrare come la Suprema Corte, anziché limitarsi ad impiegare rigorosi criteri di legittimità rispetto alla normativa in vigore, introduca filtri appartenenti a parametri di opportunità – ossia di merito – partoriti da personali e soggettive convinzioni. Una pronuncia tutt’altro che isolata, come si accennava. Chi gradisse testimonianze più recenti può agevolmente trovarle nell’ordinanza n. 24937 del 7 ottobre 2019, che riproduce acriticamente, a ben guardare, i criteri e le misure dell’affidamento esclusivo, anche se in forma camuffata o surrettizia, ovvero invertendo la dovuta regola dell’equilibrio con l’eccezione della prevalenza, adottata a priori.
D’altra parte, la predilezione della Corte per l’esistenza di un genitore “collocatario” è segnalata vistosamente anche dalla individuazione di una “residenza abituale”, infilata nel Codice civile dal D.Lgs. n. 154/2013 in assenza di espressa delega, comunemente intesa nella giurisprudenza di merito come l’abitazione del genitore prevalente, mentre dovrebbe rispondere solo alla necessità di individuare il giudice competente in caso di trasferimenti unilaterali dei figli – ovvero attuati senza accordo con l’altro genitore né l’autorizzazione del giudice – e dovrebbe tenere conto solo del vissuto precedente e non degli attuali effetti dell’abuso. Lo segnala, ad es., Cass. 21285/2015, affermando che a tal fine “sarà necessaria una prognosi sulla possibilità che la nuova dimora diventi l’effettivo, stabile e duraturo centro di affetti e di interessi del minore”. Ossia nello specifico ci si deve chiedere se il genitore abusante – tipicamente il ‘collocatario’ – abbia intenzione o meno di rientrare con i figli, anziché valutare dove questi si erano fin lì radicati. Valutazione che, se giustapposta a quanto leggibile per le medesime situazioni sul sito stesso del Ministero della Giustizia, dove ci si riferisce nell’identico modo al “genitore non affidatario/collocatario” (Scheda pratica – Sottrazione verso l’estero di un minore residente in Italia), dà chiara prova della discriminazione giuridica introdotta dalla giurisprudenza di ogni ordine e grado all’interno dell’affidamento condiviso, in senso diametralmente opposto alle lettera e alla ratio della Legge n. 54/2006.
Passando, d’altra parte, ad aspetti ancora più concreti, l’affezione per il modello monogenitoriale e la conseguente esasperata tutela del “genitore collocatario” emerge con grande chiarezza da quanto si legge in Cass. 2127/2016 in materia di contribuzione alle spese straordinarie: “Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l’altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso”. Un’affermazione, questa, che non necessita di commenti.
Esemplare, del resto, per lo sconfinamento nel territorio del merito è quanto si legge in materia di mantenimento economico dei figli. La Suprema Corte, nella decisione n. 23411/2009, correttamente dichiara che secondo la Legge 54/2006 “l’assegno per il figlio” può essere disposto “in subordine, essendo preminente il principio del mantenimento diretto da parte di ciascun genitore”. Purtroppo nello stesso provvedimento la Suprema Corte cede alla tentazione di mettersi in proprio, aggiungendo: “È da ritenere (…) che la corresponsione di assegno si riveli quanto meno opportuna, se non necessaria, quando (…) l’affidamento condiviso preveda una collocazione prevalente presso uno dei genitori (…) Il genitore collocatario, essendo più ampio il tempo di permanenza presso di lui, avrà necessità di gestire, almeno in parte, il contributo al mantenimento da parte dell’altro genitore, dovendo provvedere in misura più ampia alle spese correnti e all’acquisto di beni durevoli che non appartengono necessariamente alle spese straordinarie (indumenti, libri…).”. A prescindere dalla evidente violazione di regole di logica e buon senso nel sostenere che l’abbigliamento e l’istruzione sono funzione della convivenza (non potrebbe invece provvedervi, anche per intero, il genitore meno presente?), si proclama una preferenza che anzitutto conduce nello specifico a rigettare una richiesta di mantenimento diretto fondata, sulla base di soggettive considerazioni di opportunità (non ammissibili in sede di legittimità), ma che si è poi forzati a difendere in successive inevitabili occasioni, con motivazioni ancora più “sorprendenti”. Si sosterrà, infatti, in Cass. n. 22502/2010 che “nella determinazione del contributo previsto dall’art. 277 cod. civ., in tema di mantenimento dei figli (…), la regola dell’affidamento condiviso a entrambi i genitori ai sensi dell’art. 155 cod. civ. (…) non implica deroga al principio secondo il quale ciascun genitore deve provvedere alla soddisfazione dei bisogni dei figli in misura proporzionale al suo reddito. In applicazione di essa, pertanto, il giudice deve disporre, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico che, in caso di collocamento prevalente presso un genitore, va posto a carico del genitore non collocatario, prevedendone lo stesso art. 155 la determinazione in relazione ai tempi di permanenza del figlio presso ciascun genitore”. Dove evidentemente ci si è dimenticati che altra – e anch’essa non unica – variabile da considerare è il reddito, per cui secondo questa sorprendente tesi il genitore che guadagnasse 10 volte più dell’altro ma tenesse i figli con sé un giorno al mese in più avrebbe titolo per esigere una contribuzione in denaro… E alla facile contestazione che ne seguì si pensò di dare definitiva replica sostenendo (Cass. n. 785/2012) che il giudice è autorizzato a optare sempre e comunque come vuole tra mantenimento diretto e indiretto dal secondo comma dell’art. 337 ter c.c., che a lui dà facoltà di determinare il modo e la misura del contributo. Purtroppo dimenticando che la disposizione codicistica citata, al quarto comma, dedica al mantenimento specifiche prescrizioni in favore della forma diretta, che quindi non possono essere scavalcate dal generico accenno del comma 2, che non poteva lasciare che a lui l’ultima parola, ad es. per dettagliare quanto pesa un capitolo di spesa rispetto ad un altro o quale dei genitori provvederà all’abbigliamento se lo vogliono entrambi.
D’altra parte, la dimostrazione della distanza ideologica e culturale della magistratura di Cassazione dai principi fondanti dell’affidamento condiviso è fornita anche da recenti esternazioni della Presidente uscente della I Sezione Civile (specificamente competente in materia di famiglia), la quale dichiara con disinvoltura che “Dalla previsione di tempi paritetici scaturisce una serie di conseguenze tutte molto discutibili. Mi riferisco all’assegno di mantenimento dei figli, che viene sostanzialmente soppresso con la previsione che ciascuno dei genitori provveda al mantenimento diretto nel periodo di permanenza della prole presso di sé”(IlSole24Ore.com). Ora, il mantenimento si articola in due componenti: le spese legate alla convivenza (cibo, utenze, igiene personale e simili) e le spese esterne, che cioè da essa non dipendono. È questo secondo gruppo di oneri, in genere quantitativamente di gran lunga prevalente, che caratterizza la forma del mantenimento, a seconda che ad essi provveda ciascun genitore per la propria parte (diretto), oppure che deleghi l’altro fornendogli il relativo denaro (indiretto). Collegandolo al primo gruppo e solo a quello (come nella citazione) si avrebbe sempre mantenimento diretto perfino prima della riforma che lo ha introdotto, ossia anche in regime di affidamento esclusivo; contro ogni evidenza.
In definitiva, l’intera questione esemplifica in modo eloquente che la Suprema Corte è affezionatissima alle proprie ideologiche convinzioni e le difende accanitamente a prescindere dalla logica giuridica e dalle prescrizioni di legge.
Anomalie e aporie della sentenza di Cassazione n. 1191/2020
Con queste premesse la sentenza n. 1191/2020 non dovrebbe sorprendere più di tanto. Si segnala, tuttavia, sia perché costituisce in buona misura un “punto di accumulazione” delle posizioni precedentemente illustrate, sia perché – in sostanza – serpeggia attraverso il contestato fraseggio della Corte di Appello (che la Cassazione sposa in toto e ribadisce) attraverso ciò che si tollera e ciò che si censura, un giudizio moraleggiante, di regola punitivo per il ricorrente (che in effetti si pone in posizione polemica verso il ‘sistema’ elaborato dalla giurisprudenza), sui comportamenti interni alle famiglie, che, se non seguiti, comporteranno sanzioni da parte delle istituzioni: insomma, ci si ispira ai principi propri dello Stato etico.
Tutta la vicenda suscita, infatti, non pochi motivi di perplessità, a causa di circostanze indubbiamente anomale e/o irrituali, che inevitabilmente lasciano sconcertati. A prescindere dal fatto che se ne possa riuscire a reperire in qualche modo giustificazione attraverso aspetti formali o rilievi capziosi, resta il fatto che sono “troppe” e che sono davvero pesanti sotto il profilo sostanziale. Possibile che, al contrario, a ben guardare e frugare nelle pieghe del diritto ispirandosi a principi di equità non se ne potesse evitare o sanare alcuna?
Ad es., un giudice onorario del Tribunale Z sottopone una propria vertenza al giudizio delle corti del medesimo distretto: eccezioni respinte, con evidente disagio deontologico (come minimo). Oppure: viene disposto che le due figlie non abbiano contatti con il compagno della madre ed esse trascorrono i quattro mesi estivi presso il bagno dove questi lavora, alloggiando presso la di lui casa, ma le istituzioni tacciono. Ovvero, si censura la scarsa presenza del padre presso le figlie che affiderebbe sistematicamente alle cure dei nonni, dimenticando però che in tale periodo quel genitore, rimasto privo di risorse a causa di provvedimenti giudiziali, era tornato ad abitare presso i nonni (e cioè presso i di lui genitori). Nonni le cui risorse economiche vengono introdotte d’ufficio tra quelle dell’obbligato per il calcolo del contributo al mantenimento (non si comprende in nome di quale norma o principio), in aggiunta a potenzialità di guadagno previste, ma comunque ancora inesistenti. O ancòra: un’autoritaria estromissione del consulente di parte ricorrente che assisteva agli incontri tra la parte medesima e le figlie viene ordinata dal giudice di CA senza alcuna motivazione giuridica; giudice che estromette anche il Curatore speciale delle minori, che era stato nominato nelle prime cure e che stava avviando le parti ad una soluzione equilibrata. Inoltre: le videoregistrazioni degli incontri in CTU vengono distrutte prima che sia possibile utilizzarle. Il tribunale ne ordina il deposito e gli si risponde che non esistono più… Rammenta, è vero, la Suprema Corte che “ i dati acquisiti dai tecnici strumentali agli accertamenti delegati nel corso dell’espletamento delle indagini, in applicazione di quanto previsto dall’art. 11, lett. e) del Codice della privacy, non possono essere conservati per un tempo superiore quello necessario per il conseguimento degli scopi per cui sono stati acquisiti, raccolti o successivamente trattati, tempo da identificarsi con la conclusione dell’incarico peritale e il deposito della relazione”. Ma pare non accorgersi che in tal modo se ne svuota totalmente l’utilità e il senso. Se non sono disponibili fino a che il procedimento è aperto, ma devono essere distrutti non appena terminate le operazioni peritali, se ne impedisce la verifica e l’utilizzazione nell’ambito del processo, che è la sede in cui si è avvertita la necessità di disporre la consulenza. I periti non hanno bisogno delle tracce, visto che erano fisicamente presenti: i difensori, invece, sì. Altrimenti che motivo c’è di crearle? Ma la Suprema Corte si affida ad una capacità del tutto teorica di contemperare le esigenze del contraddittorio con quelle della privacy, anche se nella fattispecie questo bilanciamento sia mancato. Così come, attraverso vari meccanismi perversi, il prelievo del quinto dello stipendio viene applicato per due volte contemporaneamente al medesimo soggetto, che però lo perde totalmente, perché per i restanti tre quinti opera la distrazione disposta dal giudice. Quanto ciò sia compatibile con la legge e con i principi costituzionali la Corte non si perita di motivare.
Ma ciò che maggiormente preoccupa, sotto il profilo costituzionale, è lo sconfinamento nelle sfere di competenza individuale del cittadino. Valutazioni come “La Corte di merito (p.7) muovendo dagli esiti delle relazioni dell’ente affidatario dà conto della circostanza che il padre trascorre poco tempo con le figlie che lascia con i propri genitori allontanandosi dalla loro casa, presso cui egli continua a portare le figlie, per tutto il giorno e tornando solo la sera” sono davvero allarmanti. Al di là del fatto che la descrizione viene da una fonte con la quale il ricorrente è in polemica; al di là del fatto che non si svolge alcuna indagine sulle ragioni di tali assenze (che potrebbero essere inevitabili); al di là del fatto che i nonni sono titolari jure proprio di un diritto di frequentazione dei nipoti; al di là del fatto che utilizzare persone terze per la custodia dei figli è pratica comunissima presso le famiglie separate: è l’intervento di per sé che è davvero sconcertante. È l’interferenza con l’organizzazione familiare e con scelte che sono anche educative e la relativa censura che risulta inaccettabile (quantomeno in uno Stato di diritto). E questo anche se quel padre aveva chiesto un ampliamento dei tempi di frequentazione. Una maggiore presenza delle figlie avrebbe potuto, ad es., consentirgli di organizzare diversamente le proprie attività esterne. Per chiarire il concetto: a determinati lavoratori dipendenti viene concesso il part-time solo se la loro responsabilità di genitori supera una certa soglia in termini di impegno. Come si può, quindi, censurare al buio, in base al modello teorico auspicato dal funzionario statale? Così opera lo Stato etico.
Le insanabili carenze della Consulenza Tecnica di Ufficio disposta dal giudice di primo grado
Tutto ciò premesso, esistono anche valutazioni e scelte per le quali non esiste discrezionalità e non si riescono a scorgere meccanismi di sanatoria neppure peregrini. È il caso dell’intera procedura che ha accompagnato la Consulenza Tecnica di Ufficio, all’interno della quale sarebbe stata svolta l’audizione della figlia maggiore. Anche sorvolando sulla già rammentata distruzione dei verbali audiovisivi, anche evitando di soffermarsi sull’ennesima anomalia di nominare due consulenti di ufficio anziché uno solo, già la formulazione del quesito appare non coerente con le competenze e il ruolo dei periti, nonché, soprattutto, con le previsioni di un affidamento che a priori dovrebbe essere condiviso. Si chiede, infatti:
- ”quale dei due genitori sia maggiormente idoneo a garantire un proficuo e stabile percorso di crescita delle minori (…);
- quale possa essere il miglior regime di affidamento e/o collocamento delle minori nell’attualità e nella prospettiva (…);
- quale possa essere il miglior regime di frequentazione da riservarsi al genitore non prevalente collocatario”.
Ora, chi scrive sa bene che quesiti del genere vengono formulati con grande frequenza nei nostri tribunali. Tuttavia, una simile circostanza quantitativa non può costituire motivo di assoluzione presso una Corte di legittimità. Se un automobilista parcheggia in divieto di sosta non evita la multa facendo notare che “lo fanno tanti senza pagare pegno…”. Si chiede, dunque, al consulente psicologo di effettuare una scelta su aspetti prettamente giuridici, ovvero al di là della valutare se siano presenti in uno dei genitori caratteristiche che costituiscano motivo anche potenziale di pregiudizio per i figli, lasciando al giudice il compito di valutare quale sia il tipo di provvedimenti da adottare in simili circostanze, se ne delega la scelta ai periti stessi, per giunta sottolineando, contra legem, che si dovrà individuare “il migliore” dei due genitori, anche se fossero entrambi perfettamente idonei; oltre, ovviamente, a prevedere già nel quesito che dovrà esserci un genitore prevalente, collocatario, e un soggetto “secondario”, che dovrà accontentarsi dell’antico “diritto di visita”. Insomma, una completa restaurazione delle modalità dell’affidamento esclusivo.
Ciò premesso, si disserta a lungo in sede di legittimità su una “audizione della figlia maggiore”, che in realtà non è mai avvenuta. L’aspetto più bizzarro può essere visto nelle pagine che la Suprema Corte spende per sostenere che di fatto l’audizione c’è stata e si è svolta all’interno della CTU, perché la presenza della ragazzina in quella sede ha rispettato la sostanza di una audizione, anche se non disposta. Il motivo per cui tutto ciò ha dell’incredibile è che l’audizione di un figlio minore “non può” essere rimesso ai soggetti e all’ambiente della CTU stessa. Ossia una Corte di legittimità si affanna a sostenere che è tutto regolare perché… è avvenuto ciò che per sua natura e definizione non doveva verificarsi, anche a prescindere dall’assenza di incarico: “L’ascolto indiretto del minore (…) non è mai questione terminologica, ma di metodo; il relativo incombente resta pertanto soddisfatto non solo ed esclusivamente se vi sia stato l’utilizzo del termine nel conferimento dell’incarico al tecnico nominato ed il richiamo allo stesso nella svolta relazione, ma per le modalità secondo le quali esso sia stato operato”. Ora, è vero che l’ascolto può anche essere indiretto; forse – e il forse è da sottolineare tre volte – può anche sostenersi che l’esecuzione sana il difetto della mancanza di incarico: ma non appare assolutamente sostenibile che se ne possano modificare i caratteri essenziali. Il diritto all’ascolto è diritto in capo al figlio di esprimere il proprio pensiero ove lo voglia e su ciò che voglia. Nella CTU, invece, il figlio è sottoposto a un interrogatorio sui temi e per gli scopi che interessano l’interrogante, ovvero per carpirgli comunque una preferenza, che differenzi i genitori, pur in un affidamento a priori condiviso. Un incarico di audizione in CTU – tratto dallo stesso ambito di giustizia milanese (Trib. Milano, Sez. IX, provvedimento 20 marzo 2014, n. 10217) – fornisce un esempio illuminante di una simile procedura: “…il Ctu dovrà indagare l’effettiva volontà del minore circa il luogo in cui desidera vivere in modo prevalente e circa il modo e i contenuti e i tempi di frequentazione di entrambi i genitori”. A tutto ciò si somma, in modo decisivo, la mancanza di protezione del soggetto dalle pressioni e dalle interferenze – anche involontarie – delle parti e/o dei loro rispettivi consulenti, presenti all’interrogatorio. Pure, a dispetto di ciò, la Suprema Corte si sbilancia nel sostenere che le operazioni si sarebbero svolte con perfetta regolarità, per cui né la sede (contestata), né l’assenza di mandato costituiscono motivo valido di impugnazione.
Conclusioni
Avendo sottolineato l’affezione della Suprema Corte per il modello monogenitoriale, si può avere la curiosità di chiedersi perché si dovrebbero considerare le elencate bizzarrie del caso milanese come una conferma di questa tendenza. La risposta si trova nella generale filosofia dell’intera vicenda, scremandola dagli innumerevoli incidenti di percorso e riportandola all’essenziale, al di là dei classici e strumentali posizionamenti di tutte le componenti in gioco (non solo delle parti). La resistente, sulla base di modalità stabilite al primo grado che, anche se rispettate, creavano una forte disparità di opportunità e di ruolo tra i genitori, stava costituendo un nuovo nucleo familiare rispetto al quale l’altro genitore sarebbe stato comunque accessorio e sempre meno rilevante. Il ricorrente, sicuramente fortemente risentito per l’inutilità dei suoi sforzi e quindi esposto al rischio di andare fuori misura, intendeva svolgere compiutamente il proprio ruolo di genitore, permettendo alle figlie di godere di pari opportunità di accesso ad entrambi. E le cose sono andate come sappiamo.
Il braccio di ferro tra i due modelli, mono e bigenitoriale, non è dunque ancora terminato. Anche se la bigenitorialità viene sistematicamente svuotata dei suoi contenuti sostanziali, ciò non basta: non è forse in atto una raccolta di firme per chiedere al Parlamento anche l’abrogazione della legge istitutiva dell’affidamento condiviso (LA LEGGE 54 DEL 2006 VA ABOLITA!)? E da che parte stia la Suprema Corte non potrebbe essere più chiaro. Ma anche in quale direzione va la storia e dove porterebbe avallare una concezione della famiglia in crisi tutt’altro che progressista.
CASSAZIONE CIVILE, SENTENZA N. 1191/2020 >> SCARICA IL TESTO PDF