Alienazione parentale: 10 domande a Camerini, Pingitore, Lopez
Si verifica una sindrome di alienazione parentale quando, dopo la separazione, uno dei coniugi scredita la figura dell’altro davanti ai figli, fino a favorire il rifiuto di vedere il genitore.
Iniziamo subito con una domanda secca: cos’è, in sintesi, l’alienazione parentale?
E’ un fenomeno psicologico che si può rilevare all’interno delle dispute legali per l’affidamento della prole. In pratica, uno dei due genitori utilizza il figlio per mettere in difficoltà l’ex partner, tramite delle condotte, dirette e/o indirette, volte a denigrare e a svilire agli occhi del bambino il genitore bersaglio. Un esempio è parlar male al figlio dell’altro genitore, solitamente quello non “collocatario”: “Lo vedi? Tuo/a padre/madre ci ha lasciati”, “Siamo in difficoltà economica perché non ci paga gli alimenti”, “Se vuoi stare con lui / con lei per me fai pure, ma sappi che non sono d’accordo”. Il bambino, specialmente se in tenera età, inizia ad introiettare e a fare suoi i pensieri e le emozioni del genitore “collocatario”, sperimentando gradualmente un rifiuto nei confronti dell’altro. Rifiuto che inizialmente è psicologico, successivamente anche fisico con successivo diniego di ogni tipo di contatto con il genitore bersaglio.
Naturalmente l’alienazione parentale corrisponde ad un processo psicologico strutturato da varie fasi e sfumature, per cui se si interviene subito è possibile bloccarlo, limitando potenziali danni.
L’alienazione parentale è più facilmente riscontrabile ed individuabile all’interno di una Consulenza Tecnica di Ufficio (Ctu), grazie ad una serie di incontri, anche congiunti, con i membri della famiglia divisa.
Si parla tanto di Pas – Sindrome di Alienazione Parentale e di Alienazione Parentale. Qual è la differenza?
E’ sostanziale. La Pas rimanda ad una “sindrome” e ai famosi criteri descritti da Richard Gardner, psichiatra statunitense, che per primo coniò questo termine. Fino al 2013, infatti, si parlava di Pas concentrando l’attenzione quasi esclusivamente sul soggetto alienante e sul bambino: se si riscontravano quei criteri, allora si poteva parlare di Pas. I criteri assumevano il valore di veri e propri “sintomi” indicativi di un disturbo.
Così strutturato il concetto di Pas non è riuscito ad essere annoverato nella classificazione dei disturbi mentali (di chi? Del padre, della madre o del bambino?) all’interno del DSM-5 per cui la comunità scientifica, che già da tempo aveva iniziato a rivisitare tale concetto, ha iniziato ad allargare l’oggetto di indagine psicoforense anche sul soggetto alienato e sulle dinamiche psicologiche che intercorrono nella triade padre-madre-bambino. Quindi, non più sintomi che rimandano ad un disturbo individuale, ma fenomeno psicologico più complesso in cui ogni membro della famiglia divisa gioca la sua parte: un problema relazionale. Per intenderci: se un genitore denigra l’altro utilizzando il figlio, quello “bersaglio” non è in grado, per sue caratteristiche specifiche, di contrastare tali condotte e se ci prova risponde spesso in modo disfunzionale tanto da alimentare, indirettamente, la sua posizione “down” di alienato.
Per cui oggi è meglio parlare di alienazione parentale piuttosto che di sindrome di alienazione parentale, anche se spesso si usa il termine Pas per pura comodità e semplificazione.
Eppure la Cassazione con la sentenza n. 7041 del 2013 ha sancito la non scientificità della Pas.
Quella famosa sentenza andrebbe letta con attenzione. Spesso ci si sofferma sul titolo tralasciando il suo contenuto. Quella sentenza non fa altro che mettere in rilievo la criticità di tale costrutto, perché basato sul concetto di “sindrome” che, come detto, doveva rispettare determinati criteri. In pratica, la Cassazione aveva criticato le motivazioni del decreto che allontanava il bambino dalla dimora materna allo scopo di “curarlo” perché affatto da una “sindrome”. Se la Pas come si è detto non corrisponde ad un disturbo, non si poteva disporre un intervento secondo motivazioni e finalità curative. Sta di fatto che la Cassazione conclude quella sentenza rinviando ogni decisione alla Corte d’Appello di Brescia che dopo poco tempo conclude sostenendo: comunque si voglia chiamare, non si può negare che esistano, nel caso specifico, assodati comportamenti da parte di un genitore che portano il bambino a rifiutare un l’altro. Sostanzialmente, dello stesso avviso, anche una famosa sentenza di quest’anno, sempre della Cassazione, la n. 6919, che sancisce finalmente un principio fondamentale: i giudici non possono entrare nel merito di una teoria scientifica, ma davanti a ostacoli posti da un genitore alla frequentazione del figlio con l’altro genitore hanno l’obbligo di indagare e di prendere provvedimenti, anche sulla base della sola presunzione.
Il concetto di alienazione parentale è anche oggetto di violenti attacchi. Chi sono questi detrattori e cosa sostengono?
I detrattori dell’alienazione parentale corrispondono ad uno sparuto numero di professionisti fortemente ideologizzati, mentre per la maggior parte è composto da genitori alienanti che, naturalmente, hanno tutto l’interesse a gridare “l’alienazione parentale non esiste!”.
Alla base di queste teorie, collocate al di fuori di un contesto più seriamente scientifico, c’è questo teorema: se un bambino rifiuta un genitore ci sara’ un motivo valido che molto spesso corrisponde alle condotte violente e abusanti del genitore bersaglio, cioè il padre.
I detrattori, infatti, parlano di alienazione parentale sempre e comunque al maschile in cui la figura paterna è descritta sempre e comunque come violenta e abusante, ragion per cui merita di essere rifiutato dal figlio e dalla ex compagna perché “qualcosa avrà fatto se il figlio non vuole vederlo”.
Tuttavia le cose non stanno proprio così.
L’alienazione parentale, si perdoni la banalità, non ha sesso. Nel senso che il genitore rifiutato potrebbe essere tanto la madre quanto il padre. Ovviamente dipende dai casi. Per cui non è vero che il costrutto dell’alienazione parentale serve a coprire le condotte abusanti e violente del padre, perché esistono numerosissimi casi in cui il genitore alienato è la madre. Davanti a questa evidenza, i detrattori solitamente non sanno che cosa rispondere.
Inoltre, costoro molto spesso basano le loro congetture sulla presenza di denunce da parte della madre nei confronti dell’ex compagno. Denunce di stalking, violenza fisica e psicologica che però devono essere tutte da dimostrare successivamente in un eventuale processo.
E spesso tantissime denunce all’interno di un conflitto coniugale risultano strumentali per ottenere un vantaggio secondario: sia dall’una che dall’altra parte.
Inoltre, può capitare che il genitore bersaglio, in questo caso il padre, sia stato accusato anche di violenza sessuale a danno del figlio. Per cui la violenza sessuale è la causa del rifiuto del figlio di incontrare il padre. Ma lo ribadiamo, la denuncia non corrisponde ad una sentenza. Essa va dimostrata nel processo con un’eventuale condanna definitiva che in Italia corrisponde alla decisione della Cassazione (terzo grado di giudizio).
E’ proprio in quest’ultimo caso che la situazione si complica: alienazione parentale e accusa di violenza sessuale. Come procedere?
Purtroppo questo è il genere di situazioni giudiziarie più complesso poiché ci troviamo di fronte a due procedimenti paralleli: da un lato quello civile, in cui è disposta una Ctu per verificare le ragioni del rifiuto del figlio nei confronti del padre; dall’altro, quello penale, in cui il padre è accusato di violenza sessuale a danno del figlio.
Due procedimenti distinti e separati che però, per la difesa della madre, rappresentano uno la spiegazione dell’altro: il rifiuto del figlio di incontrare il padre è dovuto alle violenze sessuali subite. In questo genere di casi occorre procedere con estrema prudenza poiché il Ctu in sede civile, per espletare il suo mandato, dovrebbe far incontrare il figlio con il padre per valutare il presunto rifiuto, ma si vedrebbe accusato dalla difesa della madre di far incontrare un bambino con il genitore abusante. Se però dovesse recepire questa critica, decidendo di non effettuare l’incontro, la sua Ctu risulterebbe parziale, non avendo indagato approfonditamente sul motivo del rifiuto e basandosi solo su circostanze presunte ricavate dagli atti o de relato.
Il Ctu, dunque, è tenuto ad adempiere al suo mandato svolgendo tutti i colloqui peritali necessari al fine di rispondere ai quesiti posti dal Giudice. Se non espressamente indicato dal magistrato, il Ctu non può esimersi dal far incontrare il padre con il figlio, attraverso una metodologia che richiede estrema attenzione e cautela.
Il problema può verificarsi nel momento in cui il Ctu conclude con una ipotesi di alienazione parentale, mentre nel penale si potrebbe decidere per un rinvio a giudizio del padre, confermando le ipotesi accusatorie. Una schizofrenia del sistema processuale in cui i tempi del civile non corrispondono a quelli del penale.
E’ chiaro che innanzi ad accertati abusi sessuali e/o maltrattamenti da parte del genitore bersaglio cade ogni tipo di ipotesi di alienazione parentale che, come detto, prevede un rifiuto immotivato del figlio.
Quindi queste critiche all’alienazione parentale come potremmo definirle?
Sicuramente appaiono critiche del tutto strumentali, a fondamento di ideologie e non di dati scientifici e giuridici che confermano il fenomeno dell’alienazione parentale.
E’ innegabile che un bambino possa essere condizionato, manipolato, suggestionato da uno dei due genitori in una disputa familiare. Si negherebbero, in caso contrario, gli elementi più basilari della psicologia dello sviluppo che può portare un bambino in tenera età a schierarsi e diventare complice e alleato di un genitore a danno dell’altro.
E’ innegabile l’esistenza di bambini kamikaze che vengono addestrati nelle zone calde del medio-oriente con armi e bombe, pronti a combattere contro un nemico indotto in una guerra che non comprendono. E’ innegabile che un adulto di riferimento riesca a far attraversare da solo un incrocio pericoloso ad un bambino di 7 anni o che si riesca a convincere un bambino di 6 anni a farlo sporgere pericolosamente da un balcone.
I detrattori dell’alienazione parentale sostengono con vibrante forza che la volontà del bambino va ascoltata e rispettata: se non vuole incontrare uno dei due genitori, bisogna rispettare la sua decisione. Un giorno, da adulto, se lo vorrà, potrà cercare in piena autonomia il genitore rifiutato.
Come non essere d’accordo? Tuttavia è necessario comprendere se quel rifiuto sia supportato da motivazioni valide e genuine, soprattutto se il bambino si trova in età pre-adolescenziale, altrimenti si corre il rischio di considerare un bambino di 8 anni, ad esempio, capace di intendere e volere e di autodeterminarsi.
Stesso discorso, allora, potrebbe valere con il rifiuto di andare a scuola e di studiare: i genitori dovrebbero assecondare tali richieste perché “la volontà del bambino va sempre rispettata” o cercare di comprendere il motivo di tale rifiuto e convincerlo a cambiare idea?
In una Ctu un bambino di 8 anni si rifiutava nettamente di incontrare la madre chiedendo al consulente di voler effettuare una trasfusione di sangue per eliminare ogni traccia di quella materna. Il consulente di parte insisteva sostenendo di rispettare la volontà del minore, mentre il Ctu, provocatoriamente, rispondeva: « se bisogna rispettare la volontà del minore che rifiuta la madre, allora perché non rispettare quella di effettuare la trasfusione del sangue?».
A proposito di età, qual è quella dei minori coinvolti nelle dinamiche di alienazione parentale?
Naturalmente più il bambino è piccolo, maggiore è il rischio che possa introiettare i sentimenti e le emozioni del genitore percepito più forte all’interno del conflitto coniugale. Un bambino in età pre-adolescenziale ha maggiori possibilità di essere influenzato e suggestionato. Discorso diverso per i ragazzini dai 12 anni in su che difficilmente possono essere manipolati avendo ormai raggiunto, per esprimersi con la terminologia giuridica, piena capacità di discernimento. Davanti ad un rifiuto di un ragazzino di 13-14 anni, anche se ha subito negli anni un condizionamento da parte del genitore alienante, risulta difficile qualsiasi tipo di intervento. E’ in questi casi, allora, che la sua opinione può e deve essere rispettata, anche se condizionata, poiché non si può costringere un ragazzino di quella età a compiere azioni contro la sua volontà. Il rischio di provocare un danno ulteriore è realistico. Naturalmente i casi sono tutti differenti e non è possibile a priori stabilire fasce d’età, ma orientativamente l’età fino ai 10 anni è quella in cui i bambini sono più a rischio di essere coinvolti e triangolati nelle dinamiche di alienazione parentale.
Che tipo di interventi possono risultare utili una volta accertata l’alienazione parentale?
Sugli interventi in Italia, purtroppo, siamo all’anno zero. Nel nostro Paese gli interventi psicosociali nei casi di conflitto familiare risultano estremamente difficili da realizzare, sia per la scarsa presenza di risorse sul territorio, sia per la scarsa preparazione di molti professionisti che non sono addestrati su come intervenire in questo genere di casi.
L’intervento più efficace nei casi di alienazione parentale è invertire la residenza privilegiata del minore: se risiede con il genitore alienante allora potrebbe essere risolutivo un immediato cambio di casa, trasferendolo presso l’altro in un regime almeno di residenza alternata. Tuttavia questa soluzione non è sempre praticabile, specie, come detto, se il minore è un adolescente che con forza chiede di rimanere a casa del genitore alienato con cui ha instaurato una relazione adesiva. Pensiamo anche ai casi in cui il bambino non può essere trasferito nella residenza del padre poiché su quest’ultimo pende l’accusa (da dimostrare) di violenza sessuale nei confronti del figlio.
In quest’ultimo caso una soluzione, la più drastica, potrebbe essere quella di trasferire temporaneamente il minore presso una struttura dedicata in cui poter effettuare visite protette con entrambi i genitori, mentre nei casi in cui il minore sia adolescente, si potrebbe prendere in considerazione l’ipotesi di lasciare invariata la residenza, nonostante sia quella del genitore alienante, per ridurre al minimo il rischio di provocare danni su danni.
Oltre a questa tipologia di interventi, vi è la possibilità di intervenire tramite programmi specifici di recupero dei rapporti genitori-figlio che in questa sede sarebbe troppo oneroso illustrare. Intervenire tramite incontri protetti tra genitori e figlio in spazio neutro appare una delle soluzioni più frequenti, a patto che siano gestiti da personale qualificato e non improvvisato.
Sul piano giudiziario sarebbero comunque da privilegiare i provvedimenti di tutela inibitoria, o di coercizione indiretta, sanzionando da punto di vista amministrativo e/o penale in genitore inadempiente. Se applicati con la dovuta tempestività questi provvedimenti sono spesso in grado di evitare il radicarsi di una condizione di alienazione.
Quale potrebbe essere una soluzione valida in questo genere di casi?
Intervenire nel conflitto già in corso da tempo, spesso da anni, appare impresa ardua per tutti, compreso per il Giudice. Probabilmente una delle possibilità che lentamente si sta sperimentando anche in Italia è prevedere sin dalla prima udienza di separazione innanzi al Presidente del Tribunale tempi equipollenti di frequentazione genitori-figlio. L’affidamento condiviso oggi in Italia è meramente teorico con dati statistici che restituiscono tempi di frequentazione abbastanza sproporzionati a favore del genitore “collocatario”, nella maggior parte dei casi la madre.
Questo vuol dire alimentare il conflitto poiché il genitore con poche ore a disposizione con il figlio pretenderà maggiore spazio e considerazione, anche in merito all’altra spinosa questione dell’assegno di mantenimento.
Tempi equipollenti ed equilibrati per entrambi i genitori (in pratica, non più di due terzi e non meno di un terzo) potrebbero incidere sulla riduzione del conflitto e sulla possibilità per il figlio di evitare di instaurare un rapporto quasi esclusivo e simbiotico con un solo genitore, seppur in regime di affidamento condiviso, a danno dell’altro su cui riversare rivendicazioni e rancori.
E’ stato pubblicato recentemente un vostro libro sul tema, come nasce l’idea?
Sì, è da qualche settimana uscito il libro curato da noi tre «Alienazione parentale. Innovazioni cliniche e giuridiche» edito da FrancoAngeli in cui raccogliamo, oltre ai nostri, vari punti di vista di autorevoli esperti della materia. Il libro tratta l’alienazione parentale dalla sua definizione alle tipologie di intervento possibili per contrastare tale fenomeno. Il libro è dedicato a tutti quei bambini che vivono intensamente queste situazioni a cui viene spesso delegato, direttamente o indirettamente, il compito ingrato di dover scegliere tra l’uno o l’altro genitore, seppur desiderando intimamente entrambi, anche se separati.
Giovanni Battista Camerini: Neuropsichiatra infantile
Marco Pingitore: Psicologo-Psicoterapeuta
Giovanni Lopez: Psicologo-Psicoterapeuta
Fonte : Laleggepertutti.it