Cassazione N. 9235/12 – Vietato spiare il coniuge fedifrago.
Problemi di utilizzabilità nel giudizio civile di prove illecitamente acquisite.·Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n.9235/2012), costituisce reato documentare il tradimento del coniuge in violazione del suo diritto alla privacy all’interno di qualunque luogo privato.L’investigatore privato che sia stato incaricato dal coniuge tradito (rectius:che teme di esserlo e per questo intende scoprirlo) non può spiare il coniuge fedifrago, o presunto tale, nell’abitazione dell’amante, anche se quest’ultimo lo avesse eventualmente autorizzato ad entrare. E ciò in quanto qualunque persona deve essere preventivamente informata e messa in condizione di evitare interferenze nel proprio privato ad opera di terzi; pertanto, nel caso specifico, tacere la presenza di estranei in tale luogo deve intendersigravemente lesivo della privacy,con conseguente incriminazione dell’investigatore per “interferenze illecite nella vita privata”ai sensi dell’art. 615 biscod.pen.
La questione,tuttavia, si presentapiù articolata, in quanto investe aspetti siadi carattere sostanziale, di tutela della privacy, che di carattere processuale, di utilizzabilità nel giudizio civile di prove acquisite in modo eventualmente illecito.
In ambito penalistico costituisce senz’altroreato immettersi personalmente, o per il tramite di un terzo, nel privato del proprio coniuge, ancorché fedifrago, al fine di ottenere filmati o registrazioni comprovanti l’adulterio. Il codice penale nell’art. 614 c.p. sancisce espressamente il divieto di violare i luoghi di privata dimora contro il volere di chi ha il diritto di escluderlo; mentre il successivo art. 615 bis c.p. – sopra citato – ne rafforza il concetto, laddove la violazione della privacy avvenga all’interno di luoghi privati dovesi sta consumando il tradimento, e ciò anche nel caso in cui il proprietario dell’abitazione (nel caso specifico dell’amante) avesse espressamente dato all’investigatore il proprio consenso a girare il filmato.
L’investigatore ( in concorso con il coniuge mandante) commette dunque reato ed è punibile;ma la prova in tal modo acquisita sarà inutilizzabile solo in materia penale ai sensi dell’art. 191 c.p.p., che sancisce l’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge (con le uniche eccezioni di cui all’articolo 189 c.p.p. per le prove cd. atipiche e all’articolo 234 c.p.p. per le prove documentali). Resta invece aperto il problema della utilizzabilità in sede civile della prova illecitamente acquisita (e sanzionata) in sede penale, non essendo dato rinvenire nel codice civile ( né in quello di procedura civile) un corrispondente espresso divieto.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte ci consente di invocare la disciplina di cui all’art. 2712 cod. civ. in materia di “prove meccaniche” (fotografiche, informatiche, cinematografiche, registrazioni e qualunque rappresentazione meccanica di fatti) che formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale vengono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime.Qui sorge il problema se, in caso di contestazione della conformità ai fatti, la prova possa ugualmente formare oggetto di libera valutazione del giudice, magari attraverso un confronto con altri elementi probatoridi natura indiziaria, ma comunque efficaci. Il problema permane, ma sembra prevalere l’opinione sostenuta in dottrina, secondo la quale la contestazione della conformità ai fatti da parte del soggetto interessato priverebbe la prova meccanica di qualunque efficacia, in analogia con il disconoscimento della scrittura privata.
Tuttavia,l’art. 26 della legge sulla privacy (d.lgs.196/2003) dispone al comma 4° la possibilità di trattare dati personali sensibili senza consenso dell’interessato (come da autorizzazione preventiva del Garante della Privacy, la n. 4/2009) soltanto «quando il trattamento è necessario ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento. Se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, il diritto deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile». Ed allora, in sede civile sarà compito del giudice cercare di attuare un bilanciamento degli interessi coinvolti e, accertata l’eventuale sussistenza del “pari rango” costituzionale dei medesimi, decidere, secondo il suo prudente apprezzamento, se utilizzare la prova o meno (art. 116 cod.proc.civ.).
Avv. Maria Rosaria Basilone