Cass. 26875/23 – Il mantenimento del figlio maggiorenne un chiarimento che lascia zone d’ombra di Marino Maglietta
La vicenda di cui a Cass. 26875/2023 è lineare e ben esposta nella sentenza. Un padre,
onerato in Corte d’appello a proseguire nel mantenimento della figlia trentacinquenne, si
rivolge alla Suprema corte con quattro motivi di reclamo, dei quali questa accoglie
parzialmente il quarto. Più esattamente, si contesta sia la collocazione in capo all’obbligato
dell’onere della prova, sia l’esistenza di circostanze di fatto che giustifichino l’obbligo del
mantenimento. La Suprema corte accoglie la seconda parte e per la prima, pur
dichiarandola inammissibile, non rinuncia ad enunciare un principio di diritto che le serve
per ribadire alcuni concetti.
Un primo rilevante motivo di interesse che presenta il provvedimento è fornito dal fatto
che a redigerlo sia stata la medesima giudice già relatrice di Cass. 17183/2020, il più
accurato e innovativo intervento in materia di mantenimento del figlio maggiorenne degli
ultimi anni, pesantemente contestato da una parte della dottrina (v. G. De Marzo, in Foro
It., 24 agosto 2020; R. Russo, in Giustiziainsieme.it, 2020; G. Gilardi, in
Giustiziainsieme.it, 2020). Circostanza che permette di monitorare eventuali mutamenti
del pensiero della Suprema Corte in tale ambito. Può essere utile, pertanto, darne una
lettura il più possibile sinottica. E un primo esempio del collegamento tra i due interventi
può essere visto nell’essere passati dalla forma dell’ordinanza (una scelta commentata
negativamente in dottrina) a quella della sentenza, che sembra tradire l’intenzione di dare
una maggiore forza nomofilattica al parere attuale.
In concreto, comunque, la Corte si sofferma su un precedente intervento di Cassazione
del 2016 (12952) – intorno al quale si costruisce la distanza tra il provvedimento contestato
della Corte d’appello e il reclamante – affermando che quella pronuncia in sostanza aveva
già costruito correttamente le regole per attribuire l’onere della prova. Più precisamente,
era stata fatta distinzione tra il momento in cui viene costituito il diritto al mantenimento,
per il quale l’onere della prova è a carico del beneficiario, rispetto all’iniziativa di revoca,
richiesta dall’obbligato, gravato in tali circostanze della necessità di dimostrare il venir
meno delle circostanze che hanno dato titolo al diritto, coerentemente con l’art. 2697 c.c. A
partire da questa analisi la Corte sviluppa un proprio ragionamento sulla facilità o
difficoltà di fornire le prove, basandolo su presunzioni di diritto a loro volta collegate
all’età anagrafica del figlio. In altre parole, quando il genitore si attiva per far cessare
La dottrina di Ondif
l’obbligo può giovarsi di una presunzione di fondatezza se il figlio ha superato da tempo il
compimento della maggiore età. Pertanto, a quel punto spetta al figlio controbattere,
compito che solo per il neomaggiorenne si presenta come estremamente facile, bastando la
prosecuzione di un percorso di studi.
Fin qui le considerazioni sicuramente utili e condivisibili dell’intervento. Non mancano
tuttavia, ulteriori affermazioni, meno convincenti, così come restano inesplorati altri
essenziali aspetti, non proposti dal caso specifico, ma strettamente attinenti alla tematica e
quindi meritevoli di essere trattati in un intervento di sintesi.
Si sostiene, anzitutto, che la pronuncia del 2016 segna la fine dell’attribuzione dell’onere
della prova sempre e comunque all’obbligato, posizione che apparterrebbe solo ad arresti
precedenti, mentre a seguire la Suprema Corte si sarebbe costantemente orientata per la
tesi di Cass. 12952. Tutto ciò non è esatto. In particolare, le differenze emergono molto
chiaramente quando si fa riferimento alla sopracitata ordinanza 17183. Vi si affermava
infatti, senza mezzi termini, che il raggiungimento della maggiore età, investendo
l’individuo di responsabilità a pieno titolo, gli fa perdere l’automatico diritto al
mantenimento, che viene subordinato al verificarsi di ulteriori circostanze e deve essere
ricostituito ex novo: “l’età maggiore, … , tanto più quando è matura – perché sia
raggiunta, secondo l’id quod plerumque accidit, quell’età in cui si cessa di essere ragazzi e
di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita, anche minuta
e quotidiana, e si diventa uomini e donne – implica l’insussistenza del diritto al
mantenimento. …”. Ovvero, con lapidaria chiarezza: “La legge, quindi, fonda l’estinzione
dell’obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, in
concomitanza all’acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione,
che si conseguono al raggiungimento della maggiore età.”
Una tesi che tuttavia la Suprema Corte stessa smentisce con altrettanta enfasi a
pochissima distanza di tempo: ribadendo l’orientamento precedente: “l’obbligo dei
genitori di concorrere al mantenimento dei figli, secondo le regole degli articoli 147 e 148
cod. civ., non cessa, “ipso facto” con il raggiungimento della maggiore età da parte di
questi ultimi, ma perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria
della cessazione dell’obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto
l’indipendenza economica, ovvero che il mancato svolgimento di un’attività economica
dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato dello stesso” (Cass.
21752/2020). Valutazioni, dunque, tra loro incompatibili, tanto che si auspicò un
intervento delle Sezioni Unite, ancora non effettuato; il che avrebbe meritato un
posizionamento più attento rispetto a una questione così importante e delicata.
Altro motivo di rammarico è costituito dal non avere approfondito – o almeno prospettato
– alcune criticità che pure, più o meno implicitamente, la stessa relatrice aveva accennato
nel precedente provvedimento. Riprendendo quel testo, ad esempio, è di sicuro interesse
l’affermazione “Tale obbligo economico viene configurato, in modo paritario, unitamente
ad altri essenziali diritti-doveri verso la prole: ossia quelli di “istruire, educare e assistere
moralmente i figli”. Un giro di parole che sottintende alcuni fondamentali principi. Sia
quello del coinvolgimento paritetico dei genitori negli obblighi economici, sia il richiamo
alla Costituzione che nell’articolo 30 collega l’obbligo di mantenere a quello di educare ed
istruire.
Anche perché giurisprudenza maggioritaria insiste da tempo nel distinguere la posizione
e i diritti doveri dei due genitori. Quello che, pur in regime di affidamento condiviso, era
stato indicato come “prevalente” o “collocatario” diventa automaticamente “convivente”,
mentre l’altro viene indicato come “non convivente”. Una distinzione della quale non è
facile comprendere l’ispirazione e il senso, anzitutto perché il figlio, soggetto con piena
capacità di agire, può stabilire dove soggiornare senza alcuna particolare regola, ospitato
ora dal padre, ora dalla madre, ora dalla fidanzata ora nella città dove sta compiendo gli
studi. Il che rende quella etichettatura del tutto arbitraria e tuttavia foriera di diritti
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esclusivi, negati all’altro genitore. Basti rammentare che i giudici di merito consultati
all’interno di una recentissima indagine accademica (Marino Maglietta “L’affidamento
condiviso. I tribunali dichiarano i propri orientamenti”. Pacini editore Pisa, 2022), alla
domanda su quale fosse il genitore obbligato a provvedere al mantenimento del figlio per il
22% hanno risposto “solo il genitore non convivente”. Una risposta che tradisce uno
schema ideologico fortemente radicato, secondo il quale anzitutto si presume che il figlio
maggiorenne abbia rapporti di una qualche consistenza soltanto con uno dei genitori,
quello che in precedenza era stato nominato collocatario e, in secondo luogo, che quel
genitore assolva ogni dovere economico nei confronti del figlio semplicemente perché lo
ospita per un tempo più lungo, a prescindere dal reddito. Non a caso era stato costruito un
castello giuridico sulla legittimazione di quel genitore a chiedere il contributo dell’altro
iure proprio e non ex capite filiorum se il figlio non si attivi per ottenere un sussidio non
versato. Affermazione certamente condivisibile, ma soltanto se bilaterale, visto che anche
il genitore prevalentemente presente potrebbe venir meno ai suoi obblighi, o assolverli
inadeguatamente. Un aspetto, dunque, di notevole importanza rispetto alla capacità di
creare contenzioso, che la sentenza qui in esame non prende in considerazione, nemmeno
di sfuggita e che in questa sede merita un suggerimento costruttivo, ovvero che si
attribuisca l’onere di contribuire al mantenimento del figlio ad entrambi i genitori,
ciascuna in debito verso il figlio per la propria parte, tenuto conto ovviamente delle
rispettive risorse e del tempo che mediamente il figlio trascorre presso ciascuno nel caso
specifico.
Sempre relativamente al ruolo dei due genitori, l’ordinanza del 2020 aveva lasciato
intendere che il versamento del contributo nelle mani dell’avente diritto, ovvero del figlio,
fosse sicuramente e automaticamente liberatorio, ai sensi dell’articolo 337 septies c.c.,
senza bisogno di istanze al giudice. Ciò nonostante, a livello applicativo non di rado si è
continuato ad esigere che occorresse un provvedimento giudiziario che autorizzasse a
cambiare il destinatario del versamento, se prima della maggiore età era già stato stabilito
nelle mani del genitore collocatario. La già citata indagine attesta che ciò avviene nel 20%
circa dei casi. Un chiarimento definitivo della Cassazione sul punto sarebbe stato
auspicabile.
Rimanendo nell’ambito dell’onere della prova, ancora più strettamente legato al thema
decidendum, apprezzata e accolta la distinzione fra il momento in cui il diritto al
mantenimento deve essere costituito (con onere della prova a carico del beneficiario) e
quello in cui lo si vuol far cessare (ove la prova è a carico dell’obbligato) è inevitabile
osservare che in questo modo rimane una sorta di terra di nessuno, intorno alla quale la
sentenza attuale, così come la precedente ordinanza, sembrano incerte, assumendo una
posizione sfumata, certamente non risolutiva. Viene fatto riferimento, difatti, alla maggiore
o minore difficoltà di fornire la prova in funzione del tempo trascorso dal momento in cui è
stata compiuta la maggiore età. E questo, in pratica, sia per il beneficiario che per
l’obbligato, atteso che spetta a quest’ultimo su basi presuntive attivarsi per ottenere la
revoca dell’obbligo di mantenimento, così come di fronte ad una sua richiesta tocca al
beneficiario dimostrare che sta ancora vivendo lodevolmente la fase formativa, ovvero sta
seriamente cercando di procurarsi un’attività dopo averla completata. Tutto soggettivo,
tutto opinabile. È evidente, infatti, che rimane zona di nessuno tutto il periodo, a volte
assai lungo, che intercorre tra il momento in cui un giovane si iscrive all’università e quello
in cui completa il ciclo di studi. È ben noto quanto sia elevato il numero degli studenti fuori
corso che da tempo non sostengono neppure un esame. Esaminando la questione da un
punto di vista sostanziale, e ipotizzando che con uno dei genitori, obbligato a versare un
assegno, da tempo non esistano più rapporti e tenendo conto delle regole della privacy che
limitano drasticamente la possibilità di ottenere informazioni dalle segreterie, è evidente
che o si rinuncia al principio di prossimità, pur invocato, o si rinuncia ad applicare
l’articolo 2697 c.c. All’atto pratico, probabilmente il problema potrebbe essere prevenuto o
La dottrina di Ondif
risolto stabilendo in sentenza iniziale una scansione temporale periodica per una
rendicontazione sull’andamento degli studi da parte del soggetto beneficiario. Ciò non
invertirebbe l’onere della prova poiché una regola del genere potrebbe essere vista come
una legittimazione provvisoria, con diritto che si estingue di volta in volta ma può essere
ricostituito semplicemente allegando un attestato sull’andamento degli studi. È
interessante segnalare che dalla sopra citata indagine risulta che l’80% dei magistrati
condivide il principio, che considera già attuale, di un obbligo del beneficiario di segnalare
di non avere più titolo per percepire l’assegno di mantenimento.
Concludendo, la sentenza qui analizzata riveste certamente un elevato interesse e appare
condivisibile nell’intenzione di rimarcare l’autonomia di un figlio divenuto maggiorenne,
che sempre più affermi la propria autonomia e la viva, in nome del principio di
autoresponsabilità. È auspicabile, ma anche probabile, che successivi arresti vadano a
colmare quelle zone d’ombra che sono state qui segnalate.