I limiti della competenza del giudice nella determinazione dell’assegno di mantenimento
La situazione, al contrario, non solo è ben diversa, ma non potrebbe essere più all’opposto.
Allo scopo di sgombrare da subito il campo da sospetti di parzialità o mancanza di obiettività, facciamo riferimento a fonti della massima autorevolezza e vediamo qual è la situazione, oggi, nel 2022, nei tribunali italiani.
Cominciamo da una relazione agli atti del Senato, redatta dal Prof. Carlo Rimini, tra i più autorevoli esperti italiani di diritto di famiglia.
Su queste pagine abbiamo già illustrato in modo più approfondito la relazione del Prof. Rimini, in questa sede ci limitiamo a riportare le parole più dirompenti, che rappresentano nel modo migliore quanto diffuso sia, nei tribunali italiani, il ricorso a metodi di determinazione dell’assegno che non hanno nessun fondamento scientifico né alcuna corrispondenza con i criteri imposti dalla legge. A tal proposito, il Prof. Rimini afferma che “nella prassi dei nostri tribunali l’assegno di mantenimento per i figli viene determinato non facendo riferimento al costo marginale per l’ordinario mantenimento del singolo figlio convivente ma individuando la somma necessaria al nucleo costituito dal genitore convivente e dai figli che vivono con lui (o con lei) per mantenere un tenore di vita tendenzialmente paragonabile a quello matrimoniale, salvo verificare se i redditi della parte obbligata consentono di essere gravati da tale somma se la risposta è negativa, la somma viene ridotta sino a consentire alla parte obbligata di sopravvivere Talvolta si ha addirittura la sensazione che l’assegno sia determinato sulla base di una motivazione non scritta che consiste nel fare riferimento, con inaccettabile sciatteria ad una predeterminata percentuale dei redditi della parte obbligata“. Il Prof. Rimini, come è naturale, redigendo una relazione per il Senato, pur facendo affermazioni effettivamente drammatiche, usa una inevitabile cautela nel dire che il ricorso a metodi forfettari basati sul reddito del genitore non collocatario, giustamente definiti “sciatti”, avviene solo “talvolta”; chi è del settore, al contrario, sa bene che questa è la regola pressoché unanime nella quasi totalità dei tribunali.
Un lettore giustamente scettico potrebbe considerare con prudenza tali osservazioni; in fin dei conti si tratta di un singolo esperto, umanamente fallibile e potenzialmente condizionato da opinioni personali o posizioni politiche. Inoltre la relazione del Prof. Rimini è stata scritta a margine del noto “DDL Pillon”, che scatenò accesissime reazioni di carattere ideologico e il contesto potrebbe alimentare pregiudizi.
Vediamo allora un’altra fonte, la cui obiettività non può essere messa in discussione: l’Associazione Nazionale Magistrati.
Nel 2002 l’organismo rappresentativo dei magistrati italiani fece un’indagine estesa a ben 50 tribunali, chiedendo ai magistrati interrogati quale fosse l’importo minimo che erano soliti imporre al genitore non collocatario nella determinazione dell’assegno. Agli occhi di chi abbia un minimo di formazione scientifica, i risultati dell’inchiesta non possono che essere sorprendenti, sia per l’ammontare medio degli importi, sia per l’eterogeneità, sia per l’inconsistenza dei criteri (fonte Fiorella Buttiglione, già Consigliere presso la Corte d’Appello di Cagliari, in Rivista AIAF, Associazione Italiana degli Avvocati per la Famiglia, n. 2011/3):
Il lettore più attento avrà notato che l’indagine dell’ANM è del 2002 mentre la legge sull’affido condiviso, che modificò il testo dell’art. 155 c.c. ora confluito nell’art. 337 ter c.c., che determina i criteri di determinazione dell’assegno di mantenimento è del 2006. E’ ovvio! L’indagine dell’ANM era stata fatta in un periodo in cui era ancora in vigore l’affido esclusivo; non essendoci sostanzialmente tempi di frequentazione del minore presso il genitore non collocatario, aveva senso determinare importi forfettari che si presumeva fossero necessari per il mantenimento del minore. Sennonché l’articolo di Fiorella Buttiglione, pubblicato nel 2011, ben 5 anni dopo l’entrata in vigore della Legge 54 trattava proprio di questo: sebbene la legge avesse subito una radicale rivoluzione culturale, passando da un regime di affido esclusivo a un regime di affido condiviso, nulla era cambiato nella prassi dei tribunali, che continuavano ad agire seguendo graniticamente le prassi in uso sotto il vigore dell’affido esclusivo. E chiunque frequenti i tribunali sa che nulla è cambiato nemmeno oggi.
Vediamo un’ultima fonte, più recente e altrettanto, si presume, super partes: l’Istat, che nel report novembre 2016 su matrimoni, separazioni e divorzi riferisce che tra il 2005 e il 2015 l’ammontare medio degli assegni di mantenimento in Italia è stato di 500 euro. Quindi l’importo è sensibilmente cresciuto rispetto agli importi casuali e aleatori che i giudici erano soliti imporre sotto il regime di affido esclusivo, in modo del tutto contrario alla logica, perché nel momento in cui si passa al regime di affido condiviso, i tempi di frequentazione del genitore non collocatario (che in regime di affido condiviso non dovrebbe neppure esistere) aumentano, e conseguentemente dovrebbe diminuire il contributo economico versato all’altro coniuge.
Perché accade ciò? La determinazione di un importo corretto che tenga conto, come previsto dalla legge, del costo marginale di mantenimento di un minore, ponderato in base ai rispettivi redditi dei coniugi e ai tempi di frequentazione non è, come si direbbe in America, scienza missilistica; in fondo si tratta di poche semplici proporzioni aritmetiche, il che rende ancora più grave l’insistenza da parte dei tribunali nel ricorrere sistematicamente a metodi arbitrari ed errati.
Eppure, per quanto non siano necessarie, per il calcolo corretto di un assegno, competenze scientifiche straordinarie, né i giudici, né gli avvocati, evidentemente, hanno queste competenze.
Purtroppo le professioni giuridiche, con un piglio da apprendisti stregoni, si sono arrogate il monopolio della materia con i risultati che su queste pagine da tempo commentiamo.
Eppure l’incompetenza relativa di giudici e avvocati nella determinazione dell’assegno sarebbe evidente; qual è infatti, l’unica categoria professionale che ha approvato un documento ufficiale per la definizione di linee guida standard per la determinazione dell’assegno di mantenimento? Non il Consiglio Superiore della Magistratura, né il Consiglio Nazionale Forense bensì il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed è naturale, perché alla formazione tipica del dottore commercialista concorrono studi in diritto, statistica, fisco e finanza che sono esattamente le materie che bisogna padroneggiare per calcolare in modo corretto l’assegno di mantenimento.
Il problema è che l’art. 61 c.p.c lascia ampia discrezionalità al giudice sulla scelta di un eventuale consulente tecnico, ma se in una causa di responsabilità medica, o nell’indagine sul crollo di un viadotto è ragionevole aspettarsi che il giudice si rivolga a un tecnico senza arrogarsi competenze che non gli appartengono, nel diritto di famiglia purtroppo ciò non accade, eppure le conseguenze non sono meno gravi.
Lorenzo Cornia
Dottore Commercialista
Fonte: https://www.assegnodimantenimento.net/