Il mobbing coniugale
Il Mobbing coniugale ovvero il seme dell’amore malato E’ il più difficile da riconoscere, in quanto presenta contorni sottili e ambigui. Per una sua definizione non giuridica si rimanda a Leymann e Gustavson, che hanno descritto il fenomeno come una …. …. persistente e continua svalutazione psicologica della vittima designata, mediante la messa in atto di comportamenti prepotenti, coercitivi e vessatori, finalizzati a rendere fragile e manipolabile la sua intera persona.
Sempre più spesso emergono atti di violenza familiare in concomitanza con casi di separazione o di affidamento, o nella fase precedente.
Il mobbing coniugale consiste in attacchi e accuse, svolte in modalità sistematiche nei confronti del partner, cercando di colpirlo nelle sue parti più deboli e di umiliarlo. Per riconoscerlo dovranno essere presenti tentativi di sminuire il suo ruolo nell’ambito familiare, emarginazioni, continue provocazioni e prevaricazioni anche senza motivo, pressioni affinchè il coniuge lasci il letto coniugale, o il tetto coniugale, o la gestione economica nelle mani del mobber.
Ma sussiste mobbing anche in presenza di imposizioni, esclusioni, rifiuto al dialogo e disinteresse continuo nei confronti del partner in tutte le sfere della normale vita quotidiana, compresa la sfera della sessualità.
Come per gli altri tipi di mobbing, anche quello coniugale, specie se perpetuato per lunghi periodi, può portare a danni nella sfera psicofisica della persona, che possono sfociare in sindrome ansioso-depressiva o in un disturbo post-traumatico da stress, con i sintomi caratteristici di angoscia, senso di inefficacia, diminuzione dell’autostima, oltre ai disturbi fisici collegati.
Tali violenze spesso vengono tenute nascoste, per paura di vendette, di minacciare la ormai compromessa unità familiare, di perdere il contatto con i figli, ecc.
E’ essenziale tenere presente che questa violenza psicologica è punibile penalmente, anche denunciando i singoli reati che andranno poi a costituire la sanzione unitaria.
Nell’ambito del diritto di famiglia il fenomeno mobbing assume caratteri complessi e disordinati per la mancanza assoluta di uno studio proficuo e descrittivo del fenomeno.
Nella maggior parte dei casi rinvenuti in giurisprudenza di merito e di legittimità il mobbing viene descritto come un metodo subdolo messo in pratica per indurre la vittima a deprimersi facendole credere di essere una completa nullità o per cercare di farla allontanare dalla casa familiare.
Tali “attentati psicologici”, non agiscono mai sul piano fisico come una violenza, una spinta, ma giorno dopo giorno, creano un clima fortemente refrattario attuando un processo di distruzione psicologica e affettiva.Il “mobbing coniugale” si manifesta con le seguenti manifestazioni, che hanno solo carattere descrittivo e che non possono, in alcun modo, essere considerate come esaustive del fenomeno:
- Apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici e conoscenti.
- Atteggiamenti di disistima e disinteresse.
- Provocazioni continue e sistematiche.
- Tentativi di sminuire il ruolo in famiglia.
- Coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari.
- Sottrazione di beni comuni.
- Mancato supporto alla vittima nel rapporto con gli altri familiari.
- Rifiuto al dialogo e disinteresse.
Si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”, consentendone così l’asilo nel diritto di famiglia, da una sentenza di inizio del nuovo secolo, della Corte di Appello di Torino che ritenendolo, in motivazione, causa giustificante della addestrabilità della separazione, ha individuato determinati comportamenti lesivi della dignità del coniuge e quindi in contrasto con i doveri che derivano dal matrimonio.
Nella predetta sentenza si può infatti leggere:
“comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattasi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’ autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; si legge ancora nella sentenza che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali condotte sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”. (Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000).
Per la prima volta, nella giurisprudenza italiana, il fenomeno mobbing viene sdoganato dalla disciplina del diritto del lavoro per essere utilizzato nel delicatissimo ambito familiare quale elemento di addestrabilità della separazione.
La pronuncia di addestrabilità della separazione, come noto, può essere richiesta solo quando il comportamento di uno dei coniugi contrasta con i doveri nascenti dal matrimonio, principalmente gli artt. 143 e 145 c.c. ( la mancanza di attività sessuale; l’offendere il decoro e l’onore del coniuge; il divieto di intrattenere rapporti extra familiari; la gelosia morbosa; l’ostacolare ogni attività di carattere religioso, culturale, politica, assistenziale ed altre ancora; il far mancare al coniuge più debole quanto necessario per il sostentamento o per una vita dignitosa), ma la Corte Suprema di Cassazione ha più volte precisato che “…ai fini indelebilità della separazione il giudice di merito deve accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto la violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa”.
Il mobbing coniugale non può solo essere considerato quale “semplice” motivo di adattabilità della separazione.
E’ necessario, infatti, considerare, attesa la notevole carica lesiva delle aggressioni del mobber (dalla perdita della stima personale a quella genitoriale e professionale, dall’aggressione morale in ambito familiare a quella in ambito sociale), il risvolto della responsabilità civile anche nei rapporti coniugali e, di conseguenza, della risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c. , subiti dalla vittima del mobbing familiare. Tale ultima norma, infatti, esprimendo il principio del risarcimento del danno da fatto illecito non pone alcuna forma di limitazione.
L’illeicità della condotta idonea per il risarcimento del danno ex art. 2043 cc. è estranea dai parametri dei doveri coniugali predisposti dagli artt. 143 e 145 del codice civile, ma può senz’altro essere applicata nell’ambito del diritto di famiglia, in presenza di mobbing, in quanto lo stesso deriva da comportamenti che ledono ingiustamente la personalità, la stima e le aspettative dell’altro coniuge.
Vista la mancanza di un pensiero giurisprudenziale significativo sul tema, è utile soffermarsi su due sentenze di merito che hanno trattato il risarcimento del danno nei rapporti coniugali: Tribunale di Milano 10/02/1999 e Tribunale di Firenze 13/06/2000.
Nella prima pronuncia, il tribunale milanese, nel corso del giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, si è trovato investito dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per la carenza di rapporti sessuali tra i coniugi a causa della impotenza del marito sin dai primi anni del matrimonio, che aveva procurato una danno biologico ed alla vita di relazione, della moglie, per mancata maternità.
Il Tribunale di Milano, ha respinto tale domanda con la giustificazione della presenza di una consapevolezza in capo alla moglie sin dall’inizio del matrimonio di questa patologia di cui il marito era affetto e, conseguentemente, il mantenimento del consortium familiare per anni si è tradotto in una libera scelta della moglie stessa.
Ma l’aspetto interessante della pronuncia del Tribunale di Milano è, soprattutto, l’apertura al riconoscimento della responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali, anche se nel caso trattato, per la pregressa posizione di conoscenza e quindi di accettazione della malattia aveva esculo categoricamente l’elemento fondante della responsabilità, ovverosia la ingiustizia del danno. Il Tribunale ha sostenuto la compatibilità della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. con quelle contenute nel diritto di famiglia e secondariamente ha fatto emergere la natura giuridica, e non soltanto morale, dei doveri nascenti dal matrimonio, giungendo ad affermare che essi rappresentano una vera e propria posizione giuridica di diritto soggettivo del coniuge ed in quanto tale meritevole di protezione.
Il Tribunale di Firenze, invece, sempre nell’ambito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, basata su ragioni di abbandono materiale e spirituale determinate da malattia psichica della moglie, accoglie la domanda di risarcimento del danno, basando la propria decisione su argomentazioni che hanno introdotto l’ingresso della tutela risarcitoria nella disciplina del diritto di famiglia.
Secondo i Giudici di Firenze nel rapporto coniugale, i diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla salute, all’immagine, alla personalità, all’onore ecc., restano sempre e comunque sacri ed intangibili. Ogni aggressione merita la risposta punitiva da parte dell’ordinamento anche e soprattutto con il risarcimento del danno patito dal soggetto “aggredito”.
La Corte di Appello di Torino sopra richiamata, dunque, per la prima volta ha configurato la fattispecie indicando la rilevanza di un “comportamento, in pubblico, del coniuge offensivo ed ingiurioso nei confronti dell’altro coniuge, sia in violazione delle regole di riservatezza, e sia, soprattutto, in riferimento ai doveri di fedeltà, correttezza e rispetto derivanti dal matrimonio, condotta ancor più grave se accompagnata dalle insistenti pressioni (“mobbing”) con cui il coniuge stesso invita reiteratamente l’altro ad andarsene di casa”.
Più recentemente il Tribunale di Napoli (27 settembre 2007) ha affermato che : “la continua denigrazione di un coniuge da parte dell’altro, integrando il c.d. “mobbing“, può comportare l’addebito della separazione al coniuge responsabile di tali abusi” .
Ad ultimo, la sentenza n. 13983 del 19 giugno 2014 della Cassazione segna un importante arresto in materia di mobbing familiare.
Puntualizzando le violazioni che possono dar luogo all’addebito della separazione e l’adempimento del rigoroso onere probatorio richiesto all’istante, in una vicenda riguardante il ricorso di una moglie che chiedeva l’addebito adducendo al marito comportamenti assimilabili al mobbing familiare, finalizzati ad indurla a lasciare la casa coniugale, la prima sezione della Corte di Cassazione ha colto l’occasione per precisare la nozione di mobbing e il suo contesto di applicazione, escludendone a priori la riconduzione nel rapporto familiare, improntato, a differenza del passato, al “principio di uguaglianza morale e giuridica” dei coniugi.
Secondo la Corte, infatti, la nozione di mobbing, intesa come condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico “che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente” è idonea a fotografare quelle situazioni “patologiche” che si ravvisano in presenza di un dislivello tra antagonisti, dove la vittima cioè è in posizione “di costante inferiorità rispetto ad un’altra – e – ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione“.
“In materia familiare, invece, tale nozione può essere utile solo in campo sociologico, ma “in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli“.
Secondo la suprema Corte, dunque, l’uguaglianza tra coniugi esclude il mobbing.
Ma sempre in virtù del principio pacifico dell’uguaglianza tra i coniugi non può certamente ritenersi lecita la condotta tra gli stessi che sfocia in emarginazione, prevaricazione e umiliazione.
Ebbene, carattere giuridico, etico o sociologico?
Fonte: www.StudioCataldi.it