L’Affidamento dei figli
Uno dei temi particolarmente in discussione negli ultimi anni è quello relativo all’affidamento dei figli in caso di separazione, divorzio o cessazione della convivenza more uxorio dei genitori. La vivacità del dibattito è dovuta non solo alla triste evidenza dell’aumento dei casi di rottura dell’unità familiare, ma anche dall’entrata in vigore, peraltro con efficacia retroattiva, della legge 8 febbraio 2006 n. 54.Quest’ultima, come vedremo, persegue come scopo principale la responsabilizzazione dei genitori in merito ai propri doveri verso la prole, scongiurando il rischio di confondere il fallimento del progetto di coppia con gli obblighi come padre o come madre, che persistono anche dopo una separazione o un divorzio.
Evoluzione normativa
La stesura originaria del codice civile del 1942, partendo dal principio fondamentale dell’indissolubilità del matrimonio, consentiva esclusivamente la separazione personale e solo in caso di colpa di uno dei coniugi, prescrivendo che la prole fosse affidata a quello dei due risultato “senza colpa”.
Per quanto concerne la decisione del giudice circa il genitore meritevole del delicato compito di educazione e di mantenimento, si è dovuto attendere il 1970 per assistere alla sostituzione del criterio appena visto, basato sulla condotta e sulla personalità dei coniugi, con uno fondato sulla tutela, in via prioritaria, dell’interesse morale e materiale dei figli.
La stessa legge che ha introdotto in Italia il divorzio ha sancito, infatti, tale basilare e tuttora vigente principio, che è stato esteso anche all’istituto della separazione già dopo pochi anni, con la legge di riforma del diritto di famiglia (legge 21 maggio 1975 n.151).
Situazione antecedente alla riforma
Nonostante i progressi intervenuti a tutela dei figli, tuttavia, specie negli ultimi decenni, da più parti si è lamentata l’inconciliabilità dell’assetto normativo e, soprattutto, della prassi con i principi sanciti dall’art. 30 della Costituzione (“è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”) e dagli articoli 9 e 18 della legge 176/1991, che ha ratificato la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.
Quest’ultime norme impongono di evitare che il fanciullo sia “separato dai suoi genitori contro la loro volontà a meno che le autorità competenti non decidano, sotto riserva di revisione giudiziaria e conformemente con le leggi di procedura applicabili, che questa separazione è necessaria nell’interesse preminente del fanciullo”. Anche in quest’ultima ipotesi, peraltro, è diritto del figlio, di regola, “intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori”, poiché “entrambi i genitori hanno una responsabilità comune per quanto riguarda l’educazione del fanciullo”.
L’enunciazione di questi principi appariva in evidente contrasto rispetto alla realtà concreta e ai dati scaturiti da indagini appositamente svolte. In base a un recente rapporto (ISTAT, Rapporto annuale – Affidamento dei figli minori nelle separazioni e nei divorzi, Roma, 2003), l’affidamento esclusivo alla madre era disposto, salva restando l’analisi degli sviluppi che si avranno dopo la riforma del 2006, nell’84% dei casi contro il 3,8% dei figli affidati al padre a seguito di separazione e al 5,7% di figli affidati al padre nei procedimenti di divorzio, restando ipotesi del tutto marginale l’affidamento a terzi (meno dell’1% dei figli coinvolti tanto nelle separazioni quanto nei divorzi).
I padri, dunque, venivano, di fatto, privati del loro diritto-dovere di educare la prole e, se svantaggiati economicamente rispetto alla madre affidataria, perfino sollevati da doveri di tipo patrimoniale.
Non solo: il diritto di visita del figlio da parte del padre era mediamente circoscritto a due fine settimana al mese e a 15 giorni in estate, solo nel 22,2 % dei casi era stabilita la visita settimanale e nel 15,8% dei casi quella giornaliera.
Siffatta situazione ha stimolato la proliferazione di associazioni e comitati per la tutela dei diritti di padri separati e divorziati e, anche grazie a loro, agli inizi del 2006 è finalmente approdata in Parlamento la legge che segnerà, almeno basandoci sulle premesse, una vera e propria svolta in materia.
Il “nuovo” istituto dell’affidamento condiviso
La principale novità introdotta dalla legge n. 54/2006 è il completo ribaltamento del rapporto regola/eccezione in materia di affidamento: l’affido prima definito “congiunto”, da mera opzione, peraltro scarsamente adottata in concreto, come abbiamo poc’anzi visto, è divenuta la regola, al punto che è necessaria una specifica motivazione, da riportare nel provvedimento giurisdizionale, per stabilire l’affidamento esclusivo.
Per evidenziare ancor meglio tale radicale inversione di tendenza, il legislatore ha perfino “ribattezzato” l’istituto con l’aggettivo “condiviso”. In definitiva, mentre prima la tendenza era quella di abbandonare le altre due opzioni, quella dell’affidamento congiunto e quella dell’affidamento “alternato” (scelta, quest’ultima, ancor più scarsamente praticata per le immaginabili ripercussioni negative sia dal punto di vista psicologico che pratico), per procedere all’affidamento esclusivo (di regola alla madre), il nuovo art. 155 del codice civile impone al giudice di valutare “prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori”, in modo da realizzare al meglio il diritto della prole a “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi”.
Dopo aver ribadito il principio dell’assoluta preminenza dell’interesse morale e materiale dei figli, si affida al giudice il compito di determinare “i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli”.
Sia nel caso di affidamento congiunto che in caso di affidamento esclusivo (ipotesi quest’ultima da ritenersi praticabile oggi solo per i casi di provata incapacità di uno dei due ad assolvere, al momento della pronuncia, i compiti connessi), inoltre, è fissata la regola della tendenziale sovranità degli accordi dei genitori, a meno che l’organo giudicante non rilevi un contrasto con l’interesse della prole.
Al fine di sollecitare il più possibile il raggiungimento di soluzioni condivise, il magistrato può perfino sospendere l’adozione di provvedimenti provvisori per dar modo ai coniugi (o ex-coniugi o, anche ex-conviventi more uxorio, dato che l’art. 4 della legge n. 54/2006 estende il campo di applicazione anche ai procedimenti che riguardino “figli di genitori non coniugati”) di rivolgersi ad esperti, valorizzando, così, lo strumento della mediazione familiare.
Oltre ad essere enfatizzata la volontà dei genitori, un ruolo assai più decisivo è garantito, altresì, ai figli, specie se ultradodicenni o, comunque, in grado di discernere: il giudice, difatti, è tenuto ad ascoltare quest’ultimi prima dell’adozione di provvedimenti che li riguardino.
Nonostante il risvolto negativo del prolungamento dei tempi giudiziari in un rito che, al contrario, dovrebbe essere caratterizzato, ancor più degli altri, dalla celerità (anche per evitare il protrarsi di situazioni “sospese” che nuocciono alla serenità dei figli), non si può che accogliere con speranza queste norme che premiano la maturità di genitori e figli nell’esprimere con chiarezza e civiltà le proprie intenzioni e lo sforzo di addivenire a soluzioni che trovino l’accordo di tutto coloro che sono i veri protagonisti della vicenda giudiziaria e, soprattutto, della vita quotidiana che li aspetta fuori dall’aula del tribunale.
L’accordo tra i genitori può essere raggiunto e formalizzato da essi in modo autonomo o con l’ausilio di organi di mediazione familiare necessariamente accreditati, come sottolinea il nuovo 709 bis del codice procedura civile, che ora intervengono in via preventiva e non più in corso di causa.
Già nella prima udienza presidenziale, il magistrato si limita, tendenzialmente, a “prendere atto” del cd. “progetto di affidamento condiviso”, che va allegato al ricorso per separazione.
Al fine di assicurare il più possibile la tutela degli interessi del figlio in ogni momento della sua vita, non solo è prevista la possibilità che un genitore presenti opposizione rispetto alla decisione del giudice di affidarlo in via esclusiva all’altro ovvero congiuntamente ad entrambi, ma può anche chiedere, in ogni tempo, la revisione di qualunque decisione che riguardi, più in generale, “l’attribuzione dell’esercizio della potestà su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo” (cfr. art. 155-ter c.c., introdotto dalla legge n. 54/2006).
Al fine di scongiurare tentativi di esperire azioni giudiziarie prive di fondamento, l’ultimo comma dell’art. 155-bis prevede che qualora la domanda risulti manifestamente infondata, il giudice può valutare negativamente il comportamento del genitore istante, sia ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli, sia ai fini dell’eventuale condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria, ai sensi dell’articolo 96 del codice di procedura civile.
L’esercizio della potestà genitoriale
Il Passaggio dall’usuale affidamento esclusivo a quello condiviso ha inevitabili risvolti anche sull’esercizio della potestà che oggi inequivocabilmente spetta ad entrambi i genitori, come recita il novellato art. 155 del codice civile e in armonia con il dettato costituzionale, con le principali convenzioni internazionali (tra cui quella di New York citata sopra), nonché con le norme della maggior parte degli Stati Europei (in particolare Francia, Olanda, Inghilterra e, soprattutto, Svezia, dove l’affidamento congiunto ha raggiunto il 96% dei casi).
Il nuovo disposto prevede, comunque, un’ampia possibilità di graduare l’esercizio della potestà per rispondere al meglio all’interesse dei figli: mentre la regola generale vorrebbe che i genitori adottino di comune accordo tutte le decisioni inerenti i figli, il giudice può prevedere l’esercizio separato della potestà (quindi autonomamente da parte di ciascuno dei due) per le questioni di ordinaria amministrazione.
Resta salvo, comunque, il diritto sia della madre che del padre, anche nel caso di affidamento esclusivo all’altro coniuge, di partecipare alle decisioni “di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute”, per le quali l’accordo dei genitori deve tenere conto “delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”. Solo quale extrema ratio, ossia in caso di disaccordo, la decisione è rimessa al giudice.
Aspetti patrimoniali
La nuova regola dell’esercizio congiunto della potestà genitoriale ha riflessi fondamentali anche sotto il profilo dell’estrinsecazione del dovere di contribuire al mantenimento della prole e della gestione del patrimonio della stessa. Sotto quest’ultimo aspetto, si deve evidenziare, da un lato, che, proprio così come avviene in costanza di matrimonio e di convivenza, l’amministrazione del patrimonio del figlio minorenne deve essere condotta non più dal genitore affidatario, bensì congiuntamente dai genitori, fermo restando la necessità della preventiva autorizzazione del giudice tutelare per gli affari di straordinaria amministrazione, ai sensi dell’art. 320 c.c..
Le regole relative alla rappresentanza del minore in atti giuridici ricalcano armonicamente quelle appena viste: la rappresentanza, infatti, è congiunta, anche se per gli atti di ordinaria amministrazione restano salvi gli autonomi poteri di ciascun coniuge.
E’ bene precisare che quanto detto in tema di esercizio della potestà e di rappresentanza è attualmente applicabile anche per i casi di affidamento esclusivo.
Per quanto riguarda la contribuzione di entrambi i genitori alle spese per la prole, anche in questo caso il nuovo art. 155 c.c. privilegia la stipula da parte dei genitori di accordi scritti che disciplinino tale aspetto; in mancanza, vale la regola della proporzionalità del contributo rispetto al reddito personale di ciascuno di essi.
Solo ove necessario, il giudice impone la corresponsione di un assegno periodico al fine di riequilibrare l’onere contributivo alle reali possibilità economiche delle parti. Ulteriore novità della riforma del 2006 è rappresentata dall’elencazione dei criteri cui deve attenersi l’organo giudicante nella determinazione dell’assegno, anche se pare preferibile parlare di “clausole generali” data la loro, forse eccessiva, genericità. Questi sono:
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le attuali esigenze del figlio;
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il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
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i tempi di permanenza presso ciascun genitore (per evitare l’ingiustificato arricchimento da parte del genitore che, pur essendo meno abbiente, accolga il figlio nella sua casa, accollandosi tutte le spese che ne derivano, per un tempo assai minore rispetto all’altro coniuge);
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le risorse economiche di entrambi i genitori (che, su disposizione del giudice, possono essere oggetto di accertamento della polizia tributaria, qualora “le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate” (art 155 c.c. novellato);
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la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore (criterio, quest’ultimo, che finalmente assegna il giusto valore alle mansioni delle casalinghe). L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
Assegnazione della casa familiare
Anche i principi in tema di assegnazione della casa familiare hanno subito delle modifiche, al fine di contemperare, da un lato, il primario interesse dei figli a mantenere il proprio habitat, e, dall’altro lato, la tutela dei diritti reali immobiliari.
Per quanto riguarda il diritto della prole a rimanere nell’ambiente cui erano abituati, è da sottolineare che in gioco non è solo la permanenza nelle “mura domestiche” ma, spesso, anche la possibilità di continuare a frequentare senza disagi la stessa scuola, la stessa comitiva di amici e usufruire di tutti i servizi che il quartiere dove abitava era solito offrire.
Ebbene, prima della novella del 2006, l’assegnazione della casa familiare era strettamente legata alla scelta, da parte del giudice, del coniuge cui affidare i figli, senza tenere in considerazione l’esistenza di eventuali diritti reali da parte di una sola delle parti.
Così capitava frequentemente che il padre, dopo essere stato di fatto pressoché estromesso dalla vita del figlio, era costretto anche ad abbandonare l’appartamento di sua proprietà, dovendo tollerare perfino che un eventuale nuovo compagno dell’ex-coniuge usufruisse dei suoi beni (letto nuziale compreso).
Il nuovo disposto tenta di evitare il protrarsi di tali situazioni, pur senza dimenticare che il principio cardine dell’intero diritto di famiglia è la tutela dell’interesse di eventuali figli. Il neointrodotto art. 155-quater, difatti, da una parte, dispone che “il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”, mentre, dall’altra parte, precisa che “dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà”.
Ciò significa, in pratica, che la casa familiare verrà normalmente assegnata al coniuge con cui, sulla base degli accordi tra le parti e sentito il figlio (ovvero, in caso di impossibilità di raggiungere accordi, su decisione del giudice), la prole trascorrerà la maggior parte del tempo.
Al fine di riconoscere che dall’assegnazione della casa familiare si ha un beneficio economico per il coniuge che, magari, non ne era proprietario (o ne possedeva solo una quota percentuale), si prevede, quindi, che tale circostanza sia oggetto di specifica valutazione al momento della determinazione dell’eventuale assegno a favore, il quale andrà corrispondentemente ridotto (ovvero escluso).
Deve essere tenuto in debita considerazione, tuttavia, che le spese di gestione della casa, ivi comprese quelle condominiali, restano a totale carico del coniuge che ne gode.
Fin qui, sia la dottrina che la giurisprudenza hanno apprezzato queste forme di tutela di eventuali diritti reali di uno dei coniugi. Critiche sono state avanzate da più parti, invece, in merito a due delle cause che giustificano la revoca del provvedimento di assegnazione della casa familiare.
Questo tipo di provvedimento può essere ordinato, invero, non solo qualora “l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare”, ma anche nelle ipotesi in cui si accerti che egli vi conviva more uxorio con un/a nuovo/a compagno/a oppure contragga nuovo matrimonio.
E’ da notare che, in questi casi, il diritto del figlio è sacrificato sulla base di scelte che non dipendono assolutamente dalla sua volontà e che, anzi, hanno magari aggravato il senso di frustrazione cui è sottoposto.
Il legislatore introduce, infine, un ulteriore motivo che legittima ciascun coniuge a chiedere la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici: il cambio di residenza o di domicilio da parte dell’altro coniuge, qualora sia idoneo a interferire con le modalità dell’affidamento, ad esempio perché la nuova residenza o domicilio si trovi in città (o anche solo quartiere di una metropoli) distante dall’abitazione dell’altro genitore.
Figli maggiorenni
Anche in merito al rapporto tra figli e genitori divorziati, separati o che hanno cessato la convivenza more uxorio, la novella del 2006 ha cercato di valorizzare il ruolo del figlio che, non solo avrà diritto di essere ascoltato con particolare attenzione, data la presumibile maturità di giudizio ormai raggiunta, per ogni questione che lo riguardi, compresa l’assegnazione della casa familiare, ma l’art. 155-quinquies ha previsto, altresì, la facoltà per il giudice di disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico, permanendo l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli, anche oltre la maggiore età, in capo ad entrambi i genitori. Altro dato, che, del resto, sancisce espressamente una prassi spesso adottata nelle pronunce giurisdizionali antecedenti alla riforma: quella di individuare direttamente il figlio come soggetto legittimato a ricevere e riscuotere l’assegno. Nonostante con tale disposizione venga scongiurato il pericolo di indebiti arricchimenti da parte dell’altro genitore e, contemporaneamente, si responsabilizzi il giovane, parte della dottrina ha evidenziato che potrebbe essere troppo azzardato pretendere che un ragazzo, magari appena diciottenne, sia posto in condizione di agire da solo contro il proprio genitore che dovesse essere inadempiente; pare inopportuno, in definitiva, introdurre questa ulteriore forma di inasprimento dei rapporti tra il figlio e un genitore e, soprattutto, pretendere che il giovane, per definizione privo di risorse economiche, sia lui stesso a doversi rivolgersi all’avvocato per far valere le proprie ragioni. E’ da evidenziare, infine, che l’espressione “valutate le circostanze” (art. 155-quinquies) fuga ogni dubbio circa la non automaticità dell’obbligo di mantenimento; quest’ultimo scatta, invero, solo nel caso in cui si accerti che il giovane sia effettivamente sprovvisto dei necessari mezzi economici sufficienti a condurre una vita dignitosa. Starà alle concrete applicazioni giurisprudenziali, ora, individuare concreti parametri al ricorrere dei quali sorge il diritto del maggiorenne all’assegno, dato che l’attuale disposto normativo non offre precisi appigli sul punto.
Aspetti procedurali
Un cenno meritano anche le principali innovazioni introdotte sotto il profilo procedurale. Si è già detto del dovere del giudice di ascoltare il minore e favorire, il più possibile, il ricorso alla mediazione familiare, nonché del potere di assumere, su impulso di parte oppure d’ufficio, mezzi di prova e disporre accertamenti sui redditi, tramite polizia tributaria, anche verso «soggetti diversi» (per es. parenti o società).
Tali ampie facoltà sono riconosciute al magistrato fin dalla fase presidenziale, ossia prima ancora dell’adozione di provvedimenti provvisori, circostanza che, come si accennava, ha sollevato dubbi di compatibilità con l’esigenza di celerità e definizione di rapporti così delicati.
L’art. 2 della legge n. 45/2006, inoltre, ha previsto la possibilità di impugnare i provvedimenti provvisori emessi dal giudice della separazione o del divorzio innanzi alla Corte d’appello, ossia al giudice di grado superiore, che potrà assumere tutti gli elementi probatori ritenuti indispensabili ai fini della decisione.
Si instaurerà, così, un nuovo giudizio che proseguirà in parallelo rispetto a quello principale relativo alla separazione o al divorzio, che si concluderà con : ciò rappresenta un novità, rispetto alla vecchia formulazione del codice di procedura civile che legittimava solo giudice istruttore del procedimento a revocare o modificare i provvedimenti provvisori.
E’ stato inserito, infine, in seno al codice di procedura civile, l’art. 709-ter, il quale dispone che, in pendenza del giudizio principale, “per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso”, mentre, per i procedimenti di cui all’articolo 710 (relativi alla separazione dei coniugi) è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.
In tali sedi il giudice è tenuto ad ascoltare le parti, adottando i provvedimenti ritenuti opportuni, anche modificando i provvedimenti già emanati; a tal proposito, il magistrato è tenuto a verificare l’esistenza di eventuali “gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”, potendo, in tali circostanze, anche:
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ammonire il genitore inadempiente;
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disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
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disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
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condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.
I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
Efficacia retroattiva
Il sistema instaurato con la riforma avrebbe creato disparità, che sarebbero state, probabilmente, oggetto di questione di legittimità, tra i “protagonisti” di procedimenti ormai conclusi e le parti di procedimenti ancora pendenti. Per evitare una evidente discriminazione in una materia così delicata, il legislatore ha deciso di superare le resistenze opposte da quanti temevano un ingolfamento della macchina giudiziaria: l’art. 4 della legge n. 54/2006 ha esteso il proprio ambito di applicazione, oltre che alle “famiglie di fatto”, anche a tutti procedimenti di separazione, di divorzio e di nullità del matrimonio passate in giudicato.
La differenza rispetto ai procedimenti in corso è che, mentre per quest’ultimi l’applicazione delle nuove norme è automatica, per i procedimenti conclusi ciascuno dei genitori ha facoltà di proporre un apposito ricorso per ottenere la modifica dei provvedimenti relativi alla prole e ai coniugi, che sarà deciso in camera di consiglio, quindi con minori formalità, senza, peraltro, la necessità di allegare alla domanda di modifica dei provvedimenti alcuna prova di sopravvenienza di fatti che legittimino la richiesta stessa.
Conclusioni
La riforma del 2006 ha sollevato una molteplicità di reazioni.
Da una parte c’è chi l’ha accolta con estremo entusiasmo, anche per un doveroso allineamento con i principi sanciti tanto dalla nostra Costituzione quanto da varie norme di diritto internazionale, a loro volta recepite, specie a partire dagli anni ’90, da gran parte dei Paesi Europei.
Viene sottolineato con favore, innanzitutto, la nuova centralità del diritto dei figli ad essere ascoltati fin dalla fase presidenziale e a mantenere contatti con entrambi i genitori, i quali sono fortemente stimolati a rapportarsi l’un l’altro con serenità, maturità e spirito di collaborazione, magari anche grazie all’intervento di organi di mediazione familiare.
Si acclama, in particolare, la tendenziale eliminazione dei limiti di visita per i genitori non affidatari e l’estensione della tutela anche ai figli dei genitori non coniugati, i quali erano stati in precedenza del tutto trascurati dall’ordinamento.
Altri Autori, dall’altra parte, sono alquanto scettici sulla concreta praticabilità di gran parte delle innovazioni appena introdotte.
Si ricorda, soprattutto, che l’istituto dell’affidamento “congiunto” era già esistente in Italia da decenni, ma per la sua effettiva applicazione era stata ancorata dalla magistratura a una serie di dati fattuali, piuttosto raramente ricorrenti nella realtà: ad esempio la non eccessiva conflittualità fra i coniugi, l’età non troppo bassa della prole e la relativa vicinanza delle abitazioni dei genitori. Sono da non trascurare, inoltre, le difficoltà che derivano da questa sorta di “vita itinerante” per la vita quotidiana del giovane, quali la fissazione di una stabile dimora, la scelta della scuola da frequentare, del medico di base e così via. Fermi restando gli ostacoli di tipo “logistico”, in merito alla presunta necessaria maturità dei genitori, al fine di addivenire all’affidamento condiviso, un esperto del settore (Mario Finocchiaro) ha affermato che “contrariamente a quanto comunemente si crede, non è la conflittualità tra i genitori che impone l’“affidamento esclusivo” a uno di essi, ma è proprio la previsione che la regola sia l’affidamento esclusivo e l’eccezione quello congiunto la fonte della conflittualità”.