Le crisi coniugali ed il grave problema delle false accuse
Un articolo di cronaca giudiziaria apparso in un giornale locale (L’Eco di Bergamo del 31 gennaio 2009) sollevava un problema molto serio e ben estendibile oltre l’area di diffusione del quotidiano stesso: la strumentalità di molte (false) denunce per abusi e maltrattamenti usate per ottenere vantaggi in sede di separazione coniugale.
La questione veniva pubblicamente proposta proprio da una donna, il P.M. Dott.ssa Carmen Pugliese della Procura della Repubblica di Bergamo, che nel denunciare un allarmante progressivo aumento delle denunce per maltrattamenti aggiungeva che “solo in due casi su dieci si tratta di maltrattamenti veri.
Il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione”. Partendo dalla gravità della questione sopra indicata (spesso causa di gravi sofferenze e di ingiuste detenzioni) il presente lavoro vuole costituire uno spunto di riflessione e collaborazione tra il mondo giuridico e quello della psicologia forense affinché gli operatori del diritto possano contare sul bagaglio di conoscenze di cui è portatore, ogni giorno di più, il mondo della psicologi. Ciò con l’auspicabile obiettivo di giungere, in misura sempre maggiore, a sentenze giuste che conducano alla condanna di chi si sia effettivamente macchiato di reati tanto ignobili e, allo stesso tempo, all’assoluzione di persone ingiustamente denunciate per altrettanto ignobili ragioni di natura economica o di rivalsa personale. Parole chiave: false denunce, trial consultation, PAS, sindrome di Munchausen .
La realtà delle false denunce nelle crisi coniugali e l’uso strumentale dei minori. Il 31 gennaio 2009 nel giornale “L’Eco di Bergamo” è comparso un articolo dal presente titolo: “Più maltrattamenti. Ma molte denunce sono strumentali”. I dati venivano esposti da una donna, il Pubblico Ministero Dott.ssa Carmen Pugliese, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo. Quest’ultima riferiva espressamente che “…i maltrattamenti in famiglia stanno diventando un’arma di ritorsione per i contenziosi civili durante le separazioni” così che, se è vero che negli ultimi anni sono aumentate esponenzialmente le denunce per tale tipo di reato, allo stesso tempo, “solo in due casi su dieci si tratta di maltrattamenti veri. Il resto sono querele enfatizzate ed usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione”.
Un altro articolo, comparso nel quotidiano nazionale “Il Secolo XIX” il 25 novembre 2009 riportava analoga notizia. Era sempre un P.M. donna, la Dott.ssa Barbara Bresci, Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di San Remo, ad evidenziare il problema delle false denunce (nel caso specifico per il reato di stalking) in costanza di una crisi matrimoniale: “Spiace constatarlo ma è così. Sempre più spesso si ricorre alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento.
Non sono rari i casi in cui, a controversia sanata, le querele vengano rimesse, con buona pace delle risorse professionali ed economiche investite dagli inquirenti allo scopo di istruire i fascicoli e raccogliere gli elementi probatori a carico degli indagati”. Nei casi più gravi, poi, le false denunce avanzate da un coniuge nei confronti dell’altro hanno ad oggetto accuse di reati terribili ed ignobili quali le violenze sessuali sui minori.
Ne da conto Luca Stefferoni, autore del libro “Presunto colpevole”, dal quale si apprende una realtà decisamente inquietante: “nella classifica degli abusatori di minori si collocano, con un sorprendente 80 per cento, i padri separati denunciati dall’ex-moglie in concomitanza o immediatamente dopo la richiesta di divorzio”. All’interno di questa drammatica percentuale si celano, però, come evidenzia l’autore, innumerevoli casi di padri falsamente accusati da parte di pedo-calunniatrici prive di alcuno scrupolo.
È ancora una volta un P.M. donna, la Dott.ssa Jacqueline Monica Magi, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia, ad evidenziare (in www.criminologia.it del 24 gennaio 2006) la terribile questione: “Potrebbe sembrare incredibile che si possa accusare qualcuno che si sa innocente di un delitto turpe quale quello di violenza sessuale, in particolare quando è perpetrata su di un bambino, eppure succede e neanche troppo raramente […] per l’esperienza fatta che le false denunce provengono quasi nella totalità da donne, spesso madri che in tal modo tentano di allontanare gli ex mariti dai figli o peggio credono di vendicarsi di non si sa quali torti subiti durante il matrimonio”.
Le conseguenze delle false denunce possono essere devastanti. Da un lato, infatti, ogni falsa accusa che venga smascherata crea un danno evidente nei confronti di tutte quelle donne e di quei minori che, purtroppo, realmente, sono vittime di reati gravi come i maltrattamenti in famiglia o di reati terrificanti come gli abusi sessuali. Da un altro lato le false accuse costituiscono per la persona calunniata un’esperienza distruttiva, non solo nei casi in cui la stessa venga ingiustamente privata della libertà personale, ma anche qualora, dopo estenuanti sforzi di natura psicologica e l’impegno di importanti risorse economiche, debba giungere ad ottenere una sentenza di piena assoluzione. Sentenza che, in ogni caso, lascerà sempre un’ombra di un’accusa tanto infamante in capo ai familiari, agli amici, ai conoscenti i quali, magari negli angoli più appartati delle loro menti, manterranno comunque sempre un dubbio (si legga a tal proposito la magistrale poesia di Aldo Palazzeschi “L’Assolto”).
Il solo fatto, dunque, di essere sottoposti, ingiustamente, a determinate accuse infamanti, anche in ragione della forte esposizione mediatica che quasi sempre accompagna tali tipi di procedimenti, costituisce già di per se un’ingiustificabile ed intollerabile violenza. Ed è proprio a fronte della gravità del problema delle false denunce che appare oggi quanto mai necessario, oltre che di forte stimolo intellettuale, la ricerca di una proficua collaborazione tra il mondo del diritto e quello della psicologia. Ciò al fine di integrare le conoscenze dei due rispettivi settori con il principale e condiviso obiettivo di raggiungere la conoscenza della verità pur nella consapevolezza, come Pirandello ci ha insegnato, della difficoltà della missione. In tal senso è certamente di aiuto la moderna scienza psicologica in grado di fornire elementi di valutazione tali da far capire quando una vittima sta dicendo il vero, quando è credibile, quando l’insieme delle condotte tenute dimostrano l’essere avvenuto un trauma.
L’utilità della trial consultation Processi penali molto delicati, all’interno dei quali sembrano celarsi ipotesi di false denunce, ben possono trovare adeguato ausilio all’interno di un consulenza psicoforense (trial consultation). Quest’ultima rappresenta una stretta collaborazione tra il legale e lo psicologo nel corso della quale le conoscenze di natura strettamente giuridiche del primo vengono integrate dal bagaglio di conoscenze psicogiuridiche del secondo. Tale incontro può risultare di fondamentale importanza in varie e diverse fasi dell’iter procedimentale come ad esempio la richiesta di un incidente probatorio mirato all’audizione protetta del minore, la preparazione di quest’ultimo, la preparazione della cross examination in 4 generale, la redazione di pareri tecnico-strategici, il supporto tecnico-scientifico nella preparazione della discussione finale ecc.
La Trial consultation, settore in fortissima espansione nell’ultimo ventennio nei Paese Anglosassoni ed in particolare negli U.S.A., è invece ancora un fenomeno sostanzialmente sconosciuto nel nostro Paese. Tale ritardo, dovuto ad una storica diffidenza dei Tribunali nostrani ad accogliere la psicologia all’interno delle aule giudiziarie, merita di essere prontamente superato: ciò porterebbe senz’altro ad un’auspicabile miglioramento della qualità dei procedimenti svolti e delle relative sentenze emesse, forti, quest’ultime, di valutazioni che sarebbero sempre più dotate di una valenza scientifica sino ad oggi troppo trascurata.
La trial consultation, deve intendersi come una collaborazione informale di cui può liberamente avvalersi il legale senza che debba necessariamente essere formalmente effettuata, all’interno del processo, una nomina quale consulente tecnico di parte. Detta collaborazione tra professionisti, nell’ambito del processo penale, potrebbe allora costituire un’indispensabile aiuto per il legale anche nella scelta della migliore strategia processuale da seguire.
Il processo penale italiano da oltre un ventennio è infatti di natura accusatoria, ed è perciò caratterizzato dalla particolarità che la formazione della prova avviene nel corso del dibattimento. È proprio in tale fase, quindi, che il legale deve operare le proprie scelte strategiche, spesso dovendo operare nell’immediatezza di un’udienza e o comunque sulla base di una pluralità di variabili spesso imprevedibili. All’interno di questo quadro ricco di incertezze ben può tornare utile, dunque, la figura dello psicologo forense, soggetto ricco di conoscenze specifiche in grado di guidare le scelte del legale.
Lo psicologo forense ben potrà infatti coadiuvare l’avvocato in una pluralità di fasi distinte del processo: ad esempio nello studio della documentazione (a volte molto abbondante) raccolta in fase di indagini, nella scelta dei testimoni da indicare in lista e nelle modalità di presentazione degli stessi al Giudice, nella formulazione delle domande da porre ai testi di controparte in sede di controesame, nell’interpretazione delle prove raccolte ed anche nella scelta delle argomentazioni più efficaci da spendere nella discussione finale. Quanto sinora affermato ben può tornare utile, evidentemente, all’interno del fenomeno delle false denunce; in tali ipotesi, infatti, risulta fondamentale l’intervento dello psicologo nell’ambito della psicologia della testimonianza, soprattutto in età evolutiva, ad esempio in sede di escussione del minore che appaia essere vittima di maltrattamenti od abusi. 5 Tale intervento può allora realizzarsi già in una fase pre-processuale come quella delle indagini difensive.
Quest’ultime rappresentano una sostanziale novità nel procedimento penale italiano introdotta dal legislatore con la l. 397/2000: al difensore sono stati riconosciuti veri e propri poteri di indagine (al pari di quelli istituzionalmente riservati alla Procura) tra cui quello di assumere testimonianze. In tali ipotesi, al pari di quanto accade quando il minore è sentito dalla P.G. o dal P.M. anche l’avvocato dovrà procedere all’audizione alla presenza di un ausiliario psicologo la cui presenza sarà fondamentale per il buon esito della testimonianza che si intenda raccogliere. L’audizione del minore, inoltre, ben potrebbe essere realizzata in sede di incidente probatorio, in una fase, cioè, solo eventuale ed antecedente al dibattimento che si può instaurare su richiesta delle parti qualora ve ne siano i presupposti fissati dalla legge. Ebbene anche in tale ipotesi la trial consultation può risultare fondamentale ad esempio già in fase di richiesta (al fine di realizzare una corretta argomentazione, da presentare al G.I.P.) di audizione protetta del minore: ciò attraverso la puntuale indicazione di riferimenti scientifici e bibliografici che evidenzino al Giudice da un lato la necessità di una tempestiva audizione del minore e, da un altro lato, la necessità di un verifica preliminare delle reali capacità mnestiche, cognitive e linguistiche dello stesso. Sempre per la buona riuscita dell’audizione protetta del minore in sede di incidente probatorio può essere fondamentale la programmazione delle domande da porre ed anche la redazione, sempre da parte dello psicologo, di una nota tecnica, destinata all’avvocato, sulle modalità con cui deve essere condotta l’intervista. Ben evidente, infine, risulta l’importanza del ruolo del trial consultant nella fase di valutazione critica del materiale audio video raccolto nel corso delle audizioni del teste minorenne (registrazione dell’incidente probatorio, delle precedenti escussioni realizzate da P.G. o dal P.M., eventuali registrazioni “domestiche” presenti agli atti).
Sarà in tale momento che lo psicologo forense potrà evidenziare errori di conduzione dell’intervista od anche possibili segni di induzione esterna del teste magari emergenti dallo studio del comportamento non verbale dello stesso. È proprio in tale fase di studio del materiale raccolto (audio, video, s.i.t., testimonianze dibattimentali) infine, che lo psicologo forense potrà aiutare l’avvocato ad evidenziare e denunciare la sussistenza di elementi che possano portare al riconoscimento di una falsa denuncia di maltrattamenti o abusi: ciò ad esempio mediante l’accertamento di casi di Sindrome di Alienazione Parentale (P.A.S.) o di una Sindrome di Munchausen per procura. 6 3. La P.A.S. alla base di alcune false denunce Richard Gardner, psichiatra forense statunitense, nel 1985 coniò per primo la definizione di Sindrome di Alienazione Parentale (PAS) descrivendola diffusamente nel saggio omonimo. Quest’ultima può verificarsi in presenza di posizioni fortemente conflittuali di separazioni o divorzi nelle quali un figlio, sostanzialmente indottrinato dal genitore affidatario (alienante), mette in atto una campagna denigratoria nei confronti dell’altro genitore (alienato).
Lo studioso americano individuò per primo otto sintomi primari di natura comportamentale e quattro criteri di natura relazionale che devono essere indagati qualora si sospetti una P.A.S. Tra i predetti sintomi rientrano atteggiamenti del minore fortemente ostili nei confronti del genitore alienato che viene descritto con toni esclusivamente negativi attraverso razionalizzazioni deboli, superficiali ed assurde (spesso ripetendo frasi e affermazioni provenienti dal genitore affidatario), ciò in netto contrasto con la figura del genitore alienante che, al contrario, gode di un supporto automatico e incondizionato da parte del bambino. Tra i criteri di natura relazionale Gardner individua la crescente difficoltà del genitore alienato ad intrattenere normali rapporti con il figlio in netto contrasto con quanto avvenuto prima della “programmazione” e del “lavaggio del cervello”. Tali difficoltà possono allora essere riscontrate nel rifiuto del minore di incontrare il genitore alienato anche mediante l’invenzione di impegni inesistenti o addirittura attraverso la somatizzazione di tale rifiuto con disturbi come mal di testa, vomito o altro.
A ciò può spesso aggiungersi, sempre tra i criteri di natura relazione elaborati da Gardner, un comportamento del bambino affetto da PAS provocatorio nei confronti del genitore alienato. Tale atteggiamento sarebbe direttamente finalizzato a provocare una reazione del genitore stesso che, ormai esasperato, arriverebbe a reagire in modo forte e magari autoritario dando così immediato pretesto al figlio per tornare dall’altro genitore. Contesto principale di una PAS è certamente il nucleo familiare stretto composto da madre – padre – figlio ma spesso può anche influire il contesto familiare più in generale (nonni, zii, cugini ecc.) o anche quello extra-familiare come quello legale e scolastico.
Protagonisti di una PAS sono spesso genitori dotati di personalità fragili, facilmente influenzabili dalle opinioni altrui e legati morbosamente al minore. Quest’ultimo, a sua volta, sarà tanto più facilmente vittima di una PAS quanto più sarà suggestionabile dal genitore alienante, magari a causa dell’età (il rischio maggiore si ha tra i sette e i quindici anni) che non consente una piena capacità di pensiero in grado di filtrare le informazioni ricevute valutandole secondo una propria capacità critica. 7 Il fenomeno della PAS, dopo Gardner, è stato ed è tuttora al centro di numerosi studi che interessano sempre di più oltre al mondo della psicologia quello del diritto: è infatti ormai prossimo l’inserimento della PAS all’interno del nuovo DSM V e cresce esponenzialmente il numero di sentenze che danno atto, in sede civile come in sede penale, della presenza di casi di alienazione parentale. Nei Tribunali italiani, infatti, sempre più spesso si riscontrano casi di minori che, a seguito dell’indottrinamento subito, arrivano ad accusare falsamente l’altro genitore anche di veri e propri abusi sessuali.
Ciò si registra in misura crescente in particolare dal 2006, ovvero dal medesimo anno in cui, con la l. n. 54/2006, è stata stabilita la regola della bigenitorialità. Con tale innovazione legislativa, infatti, a seguito di una separazione viene realizzato di regola l’affido condiviso del minore ad entrambi i genitori salvo nei casi in cui sussistano importanti motivazioni perché il Giudice possa disporre l’affido esclusivo ad uno solo di questi. È allora purtroppo sempre più frequente il caso del genitore che, per ottenere l’affido esclusivo, ponga in essere condotte che favoriscano l’insorgenza di una PAS mettendo in atto un’azione costante e subliminale sul figlio affinché questi diventi in prima persona “nemico” del genitore alienato rifiutandone la presenza fisica. Nei casi più gravi poi, l’egoismo e la determinazione di un genitore può condurre alla creazione di false accuse di abusi sessuali contro l’altro genitore ai danni del figlio. La maggior parte delle false accuse si verifica infatti in concomitanza con separazioni conflittuali nelle quali nel 90,4 % dei casi l’accusato è il padre che risulta poi però innocente nel 92,4 % dei casi.
Tale realtà costituisce un vero dramma in primo luogo per il minore stesso che, a fronte di una denuncia di abuso, viene automaticamente sottoposto ad una escalation di visite, ascolti protetti, racconti alla presenza di soggetti estranei quali gli assistenti sociali, gli psicologi, gli operatori di P.G., i giudici, il CTU ecc. Un Illustre studioso come il Prof. Francesco Montecchi, primario di neuropsichiatria infantile al Bambino Gesù di Roma, ha in proposito affermato che il coinvolgimento di un bambino in una denuncia infondata, specie allorquando da essa derivino provvedimenti giudiziari e psicosociali che incidono sulle relazioni intrafamiliari, può produrre “effetti negativi sul funzionamento psicologico, sociale ed adattivo del bambino sovrapponibili a quelli che si verificano nelle condizioni di abuso realmente esperite” (Rivista: Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza 2010- vol. 77; 127-137).
La gravità del problema sin qui esposto sembra dunque richiedere uno sforzo sempre maggiore nella tempestiva valutazione della sussistenza di una PAS al fine di limitare quanto possibile i gravi effetti dalla stessa prodotti. Ciò, in chiave difensiva, nell’interesse del genitore falsamente accusato ma, ancor più, in chiave “psicologica”, nell’interesse primario del minore affinché questo non venga danneggiato in modo irreparabile nella propria personalità ancora in fase di sviluppo. Proprio per raggiungere tale obiettivo, ancora una volta, il lavoro del legale non può prescindere da quello dello psicologo forense il cui ruolo sarà evidentemente quello di coadiuvare il difensore (e la giustizia più in generale) nella concreta distinzione tra maltrattamenti ed abusi realmente compiuti e false denunce pretestuosamente poste in essere per fini ragioni strettamente egoistiche.
Criteri di distinzione tra abuso reale ed abuso PAS Per Gardner, primo teorizzatore della PAS, il racconto di un falso abuso da parte di un minore può essere un sintomo di PAS. Più in particolare questo può essere classificato come una spontaneo ed autonomo sviluppo operato dal minore sul racconto/indottrinamento sino a quel punto compiuto dal genitore alienante. Sempre secondo Gardner, poi, elemento di distinzione tra un abuso reale ed uno PAS può essere individuato nella presenza, solo nel primo caso, di sintomi riconducibili ad uno Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) in capo alla vittima. Una tale soluzione, però, non trova piena condivisione da parte degli studiosi non potendo garantire ampi margini di certezza essendo comunque ben possibile riscontrare una PTSD anche in soggetti che non siano stati vittima di abusi di natura sessuale ma, semplicemente, di eventi traumatici di tutt’altro tipo. Per poter realmente distinguere un abuso reale da un abuso PAS sarà allora più opportuno verificare nel dettaglio il racconto narrato dal bambino e la sua reale corrispondenza agli elementi sintomatici della PAS teorizzati dallo stesso Gardner.
Il minore vittima di PAS, infatti, in primo luogo sembrerà provare quasi una certa soddisfazione nel descrivere le condotte terribili attribuite al genitore denunciato. In caso di abusi reali, al contrario, proverà egli stesso vergogna nel descrivere il male subito. Ancora nel minore con PAS il genitore alienato viene descritto con termini categoricamente negativi mentre il minore realmente abusato tende generalmente a ricordare anche elementi positivi del genitore abusante.
Nei casi di PAS, poi, il minore trova il sostegno del genitore alienante mentre nei casi di abusi reali può spesso capitare che il genitore non accetti la gravità delle accuse rivolte al coniuge. Altro elemento distintivo può essere costituito dal linguaggio usato dal minore nel corso delle escussioni: l’uso di un gergo eccessivamente tecnico, infatti, ben può evidenziare la sussistenza di un indottrinamento o comunque di un’influenza da parte dell’altro coniuge. Ulteriore elemento di distinzione tra una ipotesi di PAS ed un reale abuso può essere evidenziato dal comportamento tenuto dal minore nei confronti della famiglia del genitore presunto abusatore.
Nei casi di reale abuso, infatti, il minore non sembrerà presentare una particolare repulsione per la famiglia del genitore abusante ma solo per quest’ultimo. Negli episodi di PAS, invece l’ostracismo posto in essere dal minore si estende anche ai parenti del genitore alienato. Ebbene ancora una volta risulta evidente come la corretta individuazione dei predetti elementi, tali da smascherare casi di abusi e maltrattamenti del tutto immaginari, risulti di vitale importanza nello svolgimento di un processo civile o penale che sia.
Nel corso di un procedimento giudiziario, dunque, l’intervento della psicologia forense ben può costituire, allo stato attuale, un valido baluardo contro pronunce giurisprudenziali errate e potenzialmente letali per un genitore che, pur essendo innocente, finisca per essere bersaglio di denunce tanto infamanti. 5. False denunce di abusi senza dolo: come individuare la Sindrome di Munchausen Non sempre una falsa denuncia di maltrattamenti o di abusi trova fondamento su di una espressa volontà calunniatrice da parte di un genitore nei confronti dell’altro. Ben può accadere infatti che, all’interno di una cronica situazione di conflitto familiare, un genitore giunga a convincersi, in buona fede, che il minore sia vittima di attenzioni perverse da parte dell’ex coniuge.
Prima vittima di un tale comportamento, alla cui origine spesso si rinvengono vere distorsioni cognitive e di personalità del genitore accusatore, è senz’altro il minore stesso. Vittima immediatamente successiva è, evidentemente, il genitore ingiustamente accusato. Tale fenomeno è ormai oggetto di sempre più numerosi approfondimenti da parte della pediatria, della psicopatologia e della giurisprudenza ed è studiato sotto il nome di Sindrome di Munchausen per procura (Munchausen Syndrome by Proxy –MBP). Quest’ultima trae il nome dai favolosi ed inverosimili racconti narrati dal protagonista della storia del barone di Munchausen ai propri ospiti ed è costituita dalla malattia apparentemente riscontrata in un bambino alla cui origine, però, sta un soggetto (nella gran parte dei casi la madre) che, più o meno coscientemente, finisce per simularne i sintomi.
Tutto ciò, stando al tema delle false denunce che ci occupa, può avere come fine ultimo quello di giungere ad una determinata conclusione: trovare prove di un abuso subito da un minore da parte di un adulto (quasi sempre il padre). In presenza di un conflitto coniugale ben può accadere infatti che il coniuge affidatario del minore, soprattutto qualora sia anche quello che abbia maggiormente subito il trauma della separazione, giunga (anche in buona fede) ad accusare l’ex coniuge di ogni più varia nefandezza compresa quella di compiere abusi sessuali sul proprio figlio. In tali casi, quindi, pur nel tentativo di proteggere il minore da un abuso (che nella realtà non è mai esistito), un genitore può giungere anche a simulare le prove dell’abuso stesso denunciandone ai medici i relativi sintomi od anche celando agli stessi le vere origini di problemi effettivamente esistenti nel minore. Tutt’altro che facile appare però il problema della diagnosi pediatrica di una Sindrome di Munchausen per procura.
Questa, infatti, risulta spesso celata dal comportamento stesso del genitore che, anche in ragione dell’età del bambino, finisce quasi sempre per essere l’unico (o quantomeno il primo) referente per i medici dei sintomi della presunta malattia. Gli stessi medici, tra l’altro, solo con grandi difficoltà possono giungere a sospettare davvero che una madre, solitamente premurosa nella tutela della salute del proprio figlio, possa giungere a tanto. Fondamentale allora risulta, anche sul piano strettamente psicogiuridico che qui ci occupa, l’osservazione del genitore che lamenta l’insorgenza di determinati sintomi (il cd. caregiver). Il DSM – IV – TR inserisce allora la MBP nei disturbi comportamentali definendola come un “disturbo fittizio con segni e sintomi fisici predominanti” ove la caratteristica principale è la produzione o simulazione intenzionale di segni o sintomi fisici o psichici in un’altra persona che è affidata alle cure del soggetto. I numerosi studi in materia sono giunti dunque ad evidenziare come il genitore denunciante i sintomi fittizi (quasi sempre la madre), sia spesso affetto da un disturbo psichiatrico ascrivibile al quadro depressivo, oppure una personalità isterica o borderline, generalmente caratterizzata da un atteggiamento estremamente distaccato nei confronti del padre del minore.
Tra gli studiosi del fenomeno Isabella Mergarora Betsos, Professore Ordinario di Criminologia presso l’Università di Milano, (Demoni del focolare: Mogli e madri che uccidono”, Centro scientifico Editore 2003) è giunta allora ad evidenziare alcuni elementi sintomatici di una MBP distinguendo tra quelli relativi all’osservazione medica e quelli relativi all’osservazione del caregiver. Tra i primi risultano: la presenza di sintomi anomali e non corrispondenti a malattie note o che non corrispondono a quelli normalmente ad esse collegati, l’inefficacia dei trattamenti realizzati, la comparsa di sintomi solo allorquando il minore si trovi con il genitore. La presenza in famiglia di malattie insolite o di morti strane.
Tra gli elementi relativi al caregiver Betsos ha invece evidenziato: l’ostentata esibizione di conoscenze mediche, un comportamento eccessivamente controllato rispetto alla gravità del quadro del figlio, il tentativo di stringere relazioni cordiali e strette con il personale medico, la volontà di non lasciare mai solo il bambino durante le visite mediche e la degenza in ospedale.
La corretta e tempestiva diagnosi di una MBS risulta dunque, per quanto particolarmente difficile, di fondamentale importanza per la vera tutela del minore. I danni riportati da quest’ultimi a causa della predetta sindrome, infatti, possono essere molteplici, sia di natura fisica che psicologica (difficoltà nell’apprendimento, assenza di relazioni sociali, sindrome ipercinetica, difficoltà a riconoscere le sensazioni interne del proprio corpo). La corretta individuazione di una MBS, dunque, risulta un obiettivo di primaria importanza in relazione ad un duplice interesse: quello di salvaguardare il corretto sviluppo del minore da un lato e quello, altrettanto importante, di destituire di fondamento false accuse di reati particolarmente infamanti.
Ancora una volta, come già osservato precedentemente, risulterà dunque di particolare importanza la trial consultation tra avvocato e psicologo forense: da quest’ultima può infatti più facilmente emergere, anche in sede strettamente processuale, una realtà spesso difficile da smascherare ma ben conosciuta dal mondo scientifico. Tutto ciò, lo si ribadisce, nell’interesse supremo di una giustizia veramente giusta che sappia punire i colpevoli e, al tempo stesso, garantire onore e libertà agli innocenti.
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Fonte: Psicologia & Giustizia Anno XV, numero 2 Luglio-Dicembre 2014 LE CRISI CONIUGALI ED IL GRAVE PROBLEMA DELLE FALSE DENUNCE: UTILITA’ E RUOLO DELLA TRIAL CONSULTATION Avv. G. Manuali