Le non convincenti difese del ddl 735 e delle sue previste modifiche
Marino Maglietta, Crescere Insieme – A una mia Nota di critica verso le novità annunciate in buona parte dallo stesso relatore per il testo unificato (https://www.studiocataldi.it/articoli/35637-affidamento-condiviso-ora-conta-anche-l-eta.asp) ha replicato il sen. Pillon (https://www.studiocataldi.it/articoli/35738-affidamento-condiviso-una-replica-del-senatore-pillon.asp).
Tristemente si deve prendere atto del permanere di difficoltà di comunicazione tra soggetti che, avendo i medesimi obiettivi, potrebbero e dovrebbero limitarsi a cercare il modo migliore per raggiungerli, accettando le critiche costruttive, anziché arrampicarsi sugli specchi per difendere l’indifendibile. Tanto più trattandosi di una tematica trasversale – individualmente e politicamente – in cui si potrebbero tranquillamente evitare i personalismi.
Così non è stato, vista la “replica” piccata e stonata del senatore Pillon a osservazioni del tutto oggettive. Parliamone, dunque, e non per amor di polemica, ma solo perché il largo seguito del senatore non mi permette di sorvolare sul rischio di una pesante disinformazione.
Anticipo solo che non ignoro il repertorio di espedienti dialettici di cui si fa largo uso nella redazione delle memorie nei tribunali, come scansare gli argomenti che mettono in imbarazzo, attribuire all’avversario posizioni che non ha mai assunto, nonché, al limite, cambiare le carte in tavola su dati di fatto.
Avendo avuto, fortunatamente, una formazione scientifica, cercherò di evitare queste strategie, attenendomi al più stretto rigore logico.
Anzitutto mi sono chiesto: visto che è innegabile che i problemi applicativi sono imputabili al sistema legale, perché imbottire di giudici e avvocati il tavolo incaricato di redigere un nuovo testo? Il senatore non ce lo spiega.
Verissimo che alcune osservazioni – come quelle sulle fasce di età – sono state mosse a partire da anticipazioni generiche (per altro non smentite) anziché dalla lettura di un testo ufficiale: ma come lo si poteva fare se il testo è secretato? Non era il caso di metterlo a disposizione delle associazioni promotrici almeno in bozze, visto che non sono state convocate al tavolo? Nessuno lo ha capito, ma comunque se mi sono permesso di anticipare rispetto alla versione definitiva è stato proprio perché così è ancora possibile aggiustare il tiro. Dopo non sarebbe servito a niente.
Entrando nel merito, nessuno ha mai negato che l’età dei figli può influire sulla frequentazione, ma questo va visto nello specifico, caso per caso. Il bambino può avere la madre assistente di volo, o banalmente dei genitori che usano il biberon. Senza contare che a tre anni (3 anni!) lo svezzamento è già avvenuto da tempo. Se poi si voleva esplicitare una situazione che non
permette la pariteticità (pessima idea quella di fare elenchi nelle leggi, perché si rischia di tagliar fuori situazioni importanti), perché non sono state indicate – lo si chiede ovviamente solo per coerenza logica – anche altre comunissime situazioni, come la distanza, la professione o le condizioni di salute di uno dei genitori?
Peggio ancora andrebbero le cose al crescere dei figli. Limitato il pernotto fino a 3 anni sarà ardua impresa averlo paritetico al di sopra, per il classico effetto di trascinamento, per cui non si cambiano le usanze “per non turbare il bambino”. Per non parlare dei fratelli di età diversa. La domanda era evidenziata in neretto: “come disciplinare le frequentissime situazioni familiari in cui i figli sono più di uno, chi sopra e chi sotto una determinata soglia? Sottoporli a regimi diversi, ossia separarli? Oppure sottoporre i più grandi al regime del più piccolo?” Tuttavia la risposta non è arrivata. Il “NO” di Crescere Insieme alle fasce di età non può essere più convinto. Da aggiungere, comunque un’altra obiezione di fondo, di metodo: c’è davvero bisogno di “codificare le eccezioni” ovvero suggerire nella legge quando della pariteticità si può fare a meno? Si ha paura che il sistema legale ecceda nello stabilirla? Mah…
Quanto all’altra sostanziale critica, la continua, esplicita, delega al giudice di valutare liberamente elementi impalpabili e soggettivi come “salute psicofisica” che un figlio potrebbe subire danni dalla pariteticità, la trascuratezza, l’indisponibilità, la “difficoltà” a eliminare l’assegno ecc…- circostanza che toglie ogni certezza a qualsiasi diritto – il senatore non risponde, non ci tranquillizza.
Si perde invece in un confronto con precedenti progetti (tacendo ai lettori distratti che sono stati citati come da aggiornare), comunque esenti da critiche in tutti gli aspetti essenziali. E qui davvero la contestazione di Pillon manca di finezza giuridica. Per sostenere che quei testi non tutelano la parità “dei tempi” si infila in una pesante svista, confondendo le modalità con i tempi: Il giudice determina le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore”. Le modalità, naturalmente, indicano il dettaglio, non la quantità, il come, non il quanto. Ad es., come si distribuisce la frequentazione, sempre paritetica: a settimane alternate o 3:2:2 ovvero 5:2 (su due settimane) e così via. Nonché chi va a prendere i bambini e quando e dove li porta… ecc. Mille sottocasi, che non può decidere che il giudice in caso di disaccordo. Difficile spiegare un equivoco del genere da parte di un avvocato, soprattutto perché il suo stesso
testo utilizza i due termini assieme: “[il giudice] stabilisce comunque il piano genitoriale, determinando i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore”. Con il che dimostra di sapere benissimo che si tratta di due concetti diversi, che le modalità non sono i tempi. Anzi, si legga bene: è proprio questa sua versione che dà carta bianca al giudice sui tempi. Il bue che dà di cornuto all’asino. Ma poi, davvero si tratta di un asino? Vediamo la formulazione del ddl 2049 (che secondo il senatore io avrei sposato) laddove davvero tratta la
frequentazione: “A prescindere dal rapporto tra i genitori il figlio minore ha il diritto, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi, con paritetica assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità per i figli, salvo i casi di impossibilità materiale”. Questa è la versione della scorsa legislatura, che ho introdotto, anzitutto, in una considerazione strettamente di metodo: ”occorre che si riparta da quei testi di base popolare, del tutto simili tra loro (ovviamente aggiornati: per il centro-destra Valentino et al., per i 5 Stelle Bonafede et al., per il PD Lumia et al.)”. Qui con tutta evidenza mi rammaricavo per essere stata abbandonata la via della concertazione su un tema trasversale come il diritto di famiglia, a favore di un approccio muro contro muro che può solo produrre danni e moltiplicare le resistenze. E l’aggiornamento esiste e sta nel ddl 768 (del quale il relatore non può ignorare la paternità, visto che risulta dalla mia audizione, per convocazione della sen. Gallone): “A prescindere dal rapporto tra i genitori il figlio minore ha il diritto, nel proprio esclusivo interesse morale e materiale, di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi, con paritetica frequentazione e assunzione di responsabilità e di impegni e con pari opportunità anche temporali per i figli, salvo i casi di impossibilità materiale”.
D’altra parte è il senatore stesso a confessare le vere finalità del suo testo: unico modo per riformare davvero l’affido è quello di indicare legislativamente tempi minimi (comprensivi dei pernottamenti) sotto i quali il giudice non possa scendere senza dare ampia motivazione circa la specialità del caso.” Quindi quando il giudice sta sopra tempi minimi, diversi dalla parità, (i famosi 12 giorni!) non gli occorrono nemmeno giustificazioni. Lo fa e basta. E che il testo Pillon non elimini affatto il genitore collocatario – a differenza di quelli segnalati nella nota di chi scrive – è ulteriormente provato dall’avere mantenuto l’obbligo di indicare la “residenza abituale” dei figli, che quelli citati spazzano via. Credo, francamente, che il senatore sappia benissimo di non garantire nulla, tanto da impegnarsi solo a far sì che i tempi di cura siano “adeguati”; come scrive poco oltre.
E veniamo ad altra questione, la forma del mantenimento. Qui l’avvocato Pillon si trova in ottima compagnia nel fraintendimento delle due modalità, diretta e indiretta. Mi riferisco ad una ex presidente della I sez. civile della Suprema Corte e alla Garante nazionale dell’Infanzia, sulle cui esternazioni preferisco stendere un velo (chi vuole le trova facilmente). Tornando a noi, mi viene attribuito, a torto, il seguente pensiero: “ è necessario … chiarire bene …che il giudice possa discostarsi dal mantenimento diretto con un provvedimento motivato che potrà essere assunto solo ed esclusivamente ove si dia prova che la forma diretta non sarebbe sufficiente a provvedere a tutte le esigenze del minore.” Questa sciocchezza, mai pensata e tanto meno scritta, mi viene attribuita in conseguenza del passaggio di legge – effettivamente mio: Ove necessario al fine di realizzare il suddetto principio di proporzionalità, il giudice può stabilire la corresponsione di un assegno perequativo periodico. Non volendo tediare i lettori con considerazioni strettamente giuridiche cercherò di chiarire con un esempio per quale motivo è la natura dell’assegno a porlo in alternativa al mantenimento diretto, non il fatto che esista. Nel sistema attuale, indiretto, l’assegno non ha natura perequativa, ma compensativa. Se, viceversa, è perequativo (ovvero integrativo), il mantenimento è diretto ugualmente. Consideriamo, dunque, una famiglia monoreddito, prodotto solo dal padre. Per i figli servono 800,00 € al mese. Il padre fornisce alla madre collocataria tale cifra e lei pensa a tutto (lasciamo perdere le spese straordinarie, per semplicità). Nel sistema a mantenimento diretto, viceversa, il padre dà 400,00 € alla madre associati a compiti di cura per la stessa cifra, mentre lui con altri 400,00 € provvede direttamente agli altri bisogni dei figli. C’è l’assegno, perequativo, ma il mantenimento è diretto ugualmente. E’ chiaro adesso? Venendo adesso al ddl 735 e a quanto anticipa lo stesso redattore della versione emendata, siccome per quanto sopra avremo ancora un genitore prevalente, per il nostro amato sistema legale sarà un gioco da ragazzi farne discendere l’obbligatorietà dell’assegno, come compenso al genitore, poverino, che sta più tempo con i figli. A prescindere dai redditi. Due parole soltanto sulle restanti accuse. Per quanto attiene alle case famiglia il testo è questo “… il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona, preferibilmente dell'ambito familiare, o, nell’impossibilità, in una comunità di tipo familiare”. E quanto alla mediazione familiare vi si riporta la versione concordata con le associazioni nazionali di mediatori.
Concludendo, bisogna comprendere che le appartenenze, corporative e partitiche, condizionano molto, per cui non averne alcuna, come chi scrive, regala una preziosissima libertà di pensiero. Come dire che essere “un fisico” (non un ingegnere, per cortesia), non è per me motivo di rammarico né di vergogna: anche se il senatore si compiace di ricordarlo in negativo, come prova di incompetenza, allineandosi in ciò ad eminenti studiosi della materia, del tipo di Andrea Mazzeo e Luisa Betti Dakli. Una compagnia in cui lo lascio serenamente e senza invidia.