MANCATO VERSAMENTO MANTENIMENTO: NO A RESPONSABILITÀ PENALE
L’art. 12 sexies della Legge 1 dicembre 1970, n. 898 punisce la condotta del coniuge che, in caso di scioglimento del matrimonio, si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno di mantenimento, dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della medesima legge, rispettivamente in favore del coniuge e dei figli, con l’applicazione delle medesime pene previste dall’art. 570 del codice penale per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare ovvero con la reclusione fino a un anno o con la multa
Il reato previsto si configura per la semplice mancata corresponsione all’ex coniuge dell’assegno nella misura disposta dal giudice, senza che sia necessaria la verifica della mancanza nel beneficiario dei mezzi di sussistenza (Cass. Pen. n. 11005/2001).
Ai fini della sua integrazione è sufficiente anche un inadempimento parziale dell’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile (Cass. Pen. n. 7910/2000), non essendo riconosciuta al soggetto obbligato la facoltà di auto-adeguare l’assegno in revisione della determinazione del giudice civile (Cass. Pen. n. 37079/2007).
Il fatto che la norma in esame sanzioni penalmente il mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno fissato con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, peraltro, non esclude la rilevanza dell’eventuale incapacità economica dell’obbligato, allorché la stessa sia assoluta e non ascrivibile a colpa. In una simile ipotesi, infatti, deve negarsi la configurabilità della responsabilità penale, alla stregua del principio “ad impossibilia nemo tenetur”.
Nel caso di specie, la Corte di Appello ha escluso la sussistenza dell’esimente invocata dall’appellante, ritenendo non credibile che l’imputato, soggetto quarantenne all’epoca dei fatti e dotato di buona salute, nell’arco di oltre due anni e mezzo non sia stato nemmeno una volta in condizione di adempiere esattamente all’obbligo impostogli.
Tale affermazione, tuttavia, è apparsa ai giudici di legittimità come apodittica, ponendosi in contrasto con quanto precedentemente rilevato dallo stesso giudice del gravame, secondo cui le “deduzioni difensive” hanno trovato “effettivamente riscontro nella deposizione resa in dibattimento dalla ex coniuge dell’attuale ricorrente”.
Secondo la prospettazione della difesa “l’imputato ha sempre corrisposto l’assegno dovuto fin quando ha regolarmente esercitato la propria attività lavorativa; la non regolarità del versamento è coincisa con la chiusura della propria società e con la conseguente perdita del lavoro; dopo aver perso il lavoro, ha sempre cercato di lavorare, accontentandosi anche dei lavori più umili e chiedendo aiuto, nella ricerca del lavoro, persino all’ex moglie che, nelle sue possibilità, si è adoperata in suo aiuto; il prevenuto, ogni qualvolta riesce a racimolare qualche spicciolo con lavori saltuari, contribuisce al sostentamento della figlia e dell’ex moglie; il non versamento dell’intero assegno da parte dell’imputato è stato dettato dalla necessità incolpevole di dover provvedere alle proprie esigenze primarie”.
Se, dunque, tutti tali postulati difensivi hanno effettivamente trovato riscontro nella deposizione della stessa persona offesa ( ex moglie), la Corte di Cassazione non comprende come la Corte territoriale abbia potuto affermare in termini di certezza che l’ex marito/padre abbia avuto, almeno in qualche occasione, la concreta possibilità di adempiere alla propria obbligazione.
La decisione adottata dal giudice di merito di secondo grado è stata pertanto ritenuta non sorretta da un tessuto motivazionale dotato del necessario substrato di coerenza logica e pertanto annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello