MOBBING GENITORIALE NELLA SEPARAZIONE E ALIENAZIONE GENITORIALE
L’utilizzo che farò del termine “mobbing”, in questo contesto, è esteso al campo delle separazioni. L’accezione da me utilizzata è pressoché identica a quella già utilizzata da Gaetano Giordano (2004; 2005); non si limita, quindi, a considerare il fenomeno solo da un punto di vista lavorativo, ma lo estende anche ad altri contesti umani, come, ad esempio, quello del rapporto coi figli dopo la separazione.
Il termine “mobbing” ha origine inglese e deriva dal verbo to mob, che nella traduzione letterale può significare: assalire, accerchiare, avvilire, rattristare.
E’ un termine mutuato dall’etologia e si riferisce a quel meccanismo per cui, in una popolazione animale, un membro viene espulso dalla comunità di appartenenza con dei comportamenti di allontanamento o di aggressività, o perché considerato estraneo alla comunità animale stessa, o perché ritenuto malato, e in ogni caso pericoloso. In sostanza è un meccanismo di difesa attraverso il quale un gruppo animale mantiene il suo equilibrio e la sua sicurezza espellendo l’indesiderato con comportamenti lesivi, che in taluni casi portano persino alla distruzione del membro ritenuto diverso/pericoloso/ inadeguato.
Concezione estensiva, quindi, di un fenomeno che può definirsi come quello della espulsione/esclusione/distruzione di un essere vivente da parte di altri esseri viventi, non importa se appartengano alla stessa specie, se siano prede o predatori, se appartengano allo stesso branco/famiglia, o altro.
Recentemente, si è cominciato a parlare di mobbing familiare (Giordano, 2004; Bernardini de Pace, 2004), non nel senso di doppio mobbing, che indica le ripercussioni del mobbing lavorativo sulle relazioni familiari del soggetto mobbizzato. Spesso, nelle famiglie il mobbing viene posto in essere da quei coniugi che, utilizzando atteggiamenti vessatori, spingono deliberatamente i loro partner ad abbandonare la casa familiare. Si tratta di una violenza che non viene esercitata sul piano fisico, ma attraverso sottintesi, allusioni, sgarbi che si ripetono fino all’ossessione; è una violenza insidiosa proprio perché invisibile: è sotterranea, nascosta e chi cerca di denunciarla passa per debole o per paranoico (Hirigoyen, 1998). E’ un fenomeno che viene rilevato sempre più frequentemente, e che necessiterebbe di essere assimilato ai reati contro la persona e la famiglia, in special modo nei casi di separazione coniugale. Secondo Giordano (2004), i coniugi, che in regime matrimoniale sono equiparati nella potestà genitoriale, al momento della separazione vengono a trovarsi in posizione nettamente asimmetrica, perché l’affidamento esclusivo ad un genitore (art.155 c.c.), di fatto, attribuisce solo ad uno dei due l’esercizio della potestà genitoriale sui figli minori.
La diminuzione della conflittualità dopo la separazione spesso resta una chimerica speranza, e lo squilibrio nei ruoli provocato dall’affidamento monogenitoriale si tramuta in ulteriore fonte di conflitto, questa volta non più di tipo psicogeno, dovuto cioè alla relazione coniugale, bensì di tipo iurigeno, incentrato, cioè, questa volta, sulla rivendicazione della genitorialità che è stata
inficiata dopo l’iter giudiziario della separazione.
Di fatto, a causa dell’intempestività e della limitatezza dei risultati ottenuti col ricorso alla giustizia dal genitore non affidatario, dopo poco tempo le decisioni sulla vita dei figli divengono facilmente retaggio esclusivo del genitore affidatario.
Ciò consente al genitore affidatario di abusare del proprio ruolo, e di porre in essere, nell’ambito genitoriale, comportamenti corrispondenti a quelli rilevabili nel mobbing lavorativo: sabotaggi delle
frequentazioni con il figlio, emarginazione dai processi decisionali tipici dei genitori, minacce, campagna di denigrazione e delegittimazione familiare e sociale (Giordano, 2004).
Secondo Richard Gardner (1985, 1998a, 1998b, 1999a, 1999b, 2002a, 2002b), la “programmazione” o “indottrinamento” operato da un genitore afflitto da “odio patologico” nei confronti dell’altro, potrebbe sortire sui figli un effetto di tipo denigrazione “alienante”.
Quando, cioè, a causa della campagna di operata da uno dei genitori (perlopiù quello affidatario, prevalentemente le madri, quindi), i figli venissero ad allinearsi con un genitore (Wallerstein e Kelly, 1980) rifiutando l’altro, allora ci troveremmo di fronte alla Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS – Parental Alienation Sindrome).
Allora i figli si dimostrano personalmente coinvolti in una campagna di denigrazione che non ha giustificazione – né è sostenuta da elementi realistici
nei confronti dell’altro genitore, che viene “odiato”. La finalità di questo odio è quella di escludere il genitore rifiutato dalla loro vita.
Otto sono i sintomi principali della PAS, riscontrabili nei figli, e che hanno lo scopo di rafforzare e vitalizzare quanto più è possibile il legame col genitore alienante:
Campagna di denigrazione: i figli evidenziano astio nei confronti del genitore alienato in maniera continua e insistente.
Razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il biasimo: i figli riferiscono giustificazioni irrazionali e spesso risibili per spiegare il loro rifiuto del genitore odiato.
Mancanza di ambivalenza: i figli mostrano una minima, se non nessuna, ambivalenza nella loro ostilità per il genitore-bersaglio, il quale è sempre considerato totalmente negativo.
Il fenomeno del pensatore indipendente: i figli affermano orgogliosamente che i loro sentimenti di avversione verso il genitore odiato, e le ideazioni relative, provengono da loro stessi e non dal genitore alienante.
Appoggio automatico al genitore alienante: i figli accettano come valide, prima ancora di averle ascoltate o comprese, unicamente le asserzioni del genitore amato, a danno di quelle del genitore odiato.
Assenza di senso di colpa: i figli non mostrano empatia per la sofferenza del genitore alienato, che si permettono di bersagliare impietosamente con una crudeltà simile a quella psicopatica.
Scenari presi a prestito: i figli utilizzano termini o frasi solitamente estranee al repertorio dei ragazzi della loro età e di cui possono anche non conoscere esattamente il significato.
Estensione dell’ostilità alla famiglia allargata ed agli amici del genitore alienato.
Così come accade per il mobbing lavorativo, anche nella PAS l’avversione si sviluppa insidiosamente tra genitore e figli, con gradualità attraverso una serie di livelli di disagio crescente a cui la vittima non riesce a mettere riparo.
Così come il lavoratore mobbizzato viene spinto a licenziarsi, così il genitore mobbizzato o alienato può sentirsi spinto ad autoescludersi dalla vita dei figli.
Così come accade per la diminuzione di rendimento lavorativo delle vittime del mobbing, anche per rivalsa nei confronti del sistema lavorativo che non lo tutela, così anche l’inadempienza economica
di molti genitori mobbizzati o alienati (i padri principalmente) spesso origina da un sentimento di rivalsa per essere stati esclusi dalla vita dei figli. Parimenti, anche le esplosioni di rabbia contro i figli sono conseguenti, alla frustrazione e al senso di impotenza generato dal rifiuto e dall’ostilità da loro dimostrata nel momento in cui si schierano con l’altro genitore (Gardner, 1999a).
Il genitore mobbizzato o alienato viene sottoposto ingiustamente, e spesso subdolamente, allo stress della svalutazione del suo ruolo genitoriale, per poi essere denigrato nel momento in cui perde il controllo e reagisce con esasperazione.
Questi genitori, solitamente, avrebbero un normale autocontrollo, ma, ovviamente, le loro reazioni negative verranno poi ridefinite dal genitore mobbizzante come disturbo psicopatologico e verranno utilizzate, sia in sede giudiziale che davanti ai figli, come argomentazione per dimostrarne l’inidoneità genitoriale.
Sia il mobbing genitoriale, che la PAS non potrebbero verificarsi con tanto successo se non avessero l’apporto collusivo del sistema giudiziario: un vero e proprio mobbing giudiziario.
Infatti tali fenomeni non potrebbero verificarsi con tanta frequenza se la prassi consolidata della giurisprudenza non privilegiasse l’affidamento monogenitoriale. Inoltre, in caso di ricorso al giudice, mentre il mobbing lavorativo trova un preciso riscontro, lo stesso non può dirsi per il mobbing o l’alienazione genitoriale, che, pur essendo fenomeni reali, dal punto di vista giuridico non trovano alcun inquadramento. E non avendo, per così dire, alcuna esistenza giuridica, il fenomeno tende ad essere ignorato da parte dei tribunali.
Pertanto, non essendo perseguito, il genitore mobbizzante o alienante, può proseguire indisturbato la distruzione del rapporto tra i figli e l’altro genitore.
Questo tipo di reazioni insorgono tipicamente nell’età dello sviluppo, periodo della vita in cui la suggestionabilità degli esseri umani è maggiore. Ciò che spinge i figli ad accettare passivamente l’influenzamento di uno dei genitori, è, a mio avviso, il bisogno di sentirsi accuditi da quello dei due genitori che gli assicura maggiormente protezione e rassicurazione. Dopo l’evento traumatico
della rottura dell’ unione familiare, i figli si sintonizzano emotivamente con quel clima emotivo familiare dal quale si sentono maggiormente rassicurati e protetti. Spesso i servizi di tutela del minore, così come anche i giudici dei tribunali competenti, percepiscono e privilegiano l’esigenza dei figli di essere accuditi dal genitore che eleggono a loro protettore, ed agiscono unicamente in
linea con questa esigenza.
E’ fin troppo evidente che limitare la frequentazione di un genitore coi figli può provocare facilmente progressivamente, l’inasprimento tanto nel el presente suo che dolore e in disabilitandolo prospettiva futura, all’espletamento del proprio ruolo.
Ed il suo disagio non potrà restare inosservato per i figli.
Quando si toglie un genitore ad un figlio gli si sottrae una parte fondamentale della sua identità, della sua storia. Quando si sottrae un figlio ad un genitore si sopprime quella parte fondamentale della sua identità che si è formata nel momento in cui egli, occupandosi dei propri figli, è diventato qualcosa che prima non esisteva. La sua identità è mutata nel momento in cui è diventato
genitore. Si è formata in lui un’identità genitoriale. Impedirgli di essere genitore equivale a sopprimere una parte vitale di sé essenziale per continuare a dare un senso alla sua vita.
Ma qualsiasi tentativo da parte del genitore rifiutato di riavvicinarsi ai figli, anche in assenza di una loro richiesta o del loro gradimento, viene giudicato come indebita intromissione nella libera scelta dei figli, in quel rapporto, cioè, all’interno del quale, dopo la separazione, essi hanno individuato un assetto risolutivo.
Viene da pensare che, latitando la capacità o la competenza degli adulti genitori per primi perché in crisi, e poi gli operatori dell’infanzia, gli avvocati e i magistrati) nel saper gestire e sanare una situazione spinosa come quella della conflittualità coniugale irrisolta, il sistema delle separazioni-affidamento finisce col delegarne ai figli minori la risoluzione: a dirimere un contenzioso tra adulti vengono messi, di fatto, i figli. Da tutto ciò si evince che la maggior parte dei genitori, vittime di esclusioni dalla vita dei figli, non faccia granchè per meritarsele. Se non per il fatto di essere entrati in conflitto con l’ex partner.
E qualora la denigrazione non sia stata sufficiente a spezzare il legame affettivo del genitore escluso o rifiutato dai figli, alla denigrazione si possono aggiungere anche le false dichiarazioni o le denunce (maltrattamenti e abusi sessuali principalmente).
In questi casi, l’esclusione del genitore ricade all’interno di quello che potremmo definire un mobbing tutelare. Infatti, laddove venga paventato il rischio di maltrattamenti o abusi, spesso gli operatori dei servizi, suggestionati dal rischio di lasciare indifesi dei soggetti deboli, colludono con il primitivo meccanismo di difesa di ricercare la parte cattiva per salvare quella buona quasi sempre identificata nella coppia madre-bambino; si allarmano e attivano i canali di protezione del minore. I magistrati, anche quando chiamati ad intervenire da uno dei genitori, non solo sono costretti a prendere provvedimenti limitativi contro il genitore incriminato, ma, preoccupati del rischio di lasciare liberi di agire dei soggetti pericolosi, possono colludere col comportamento mobbizzante/alienante degli accusatori, che si manifesta attraverso forme di vittimismo/allarmismo, finendo col condannare anche dei genitori innocenti (Gardner, 2002b).
Difettando di preparazione psicologica, ed essendo costretti ad attenersi alla realtà processuale, gli operatori del sistema giudiziario non sempre riescono a rendersi conto della distorsione delle dichiarazioni delle parti, e possono ben colludere inconsciamente con atteggiamenti che ad uno psico-professionista apparirebbero patologici, o quanto meno irrealistici (Salluzzo, 2004a).
Tutto ciò costituisce una forma di disagio, un abuso emotivo (emotional abuse) (Gardner,1998b; 1999a), che può verificarsi solo perché il sistema attuale non possiede valide contromisure per affrontarlo. Lo sviluppo psicologico dei figli, in tali condizioni, non può che risultarne compromesso.
Sia ben inteso, che anche il genitore alienato subisce un abuso emotivo, in quanto l’odio del suo ex partner si materializza come vendetta compiuta per mano dei figli; al punto che Gardner (2002b) descrive la sua terribile sofferenza paragonandola ad uno “stato di morte vivente” (state of living
death).
I brani seguenti, in cui i nomi dei personaggi sono puramente di fantasia, sono tratti dal verbale di interrogatorio di Sandro, ormai ventiduenne, all’interno di un procedimento penale che vede la madre imputata, su denuncia del padre, ai sensi dell’art. 388 c.p.. La madre è accusata di non aver fatto incontrare i figli col padre in alcune di quelle occasioni che erano previste dalla sentenza di separazione. I fatti risalgono al 1998. All’epoca il ragazzo, che è il maggiore di due fratelli, aveva 15 anni. L’interrogatorio si svolge nel 2004.
Sandro spiega al giudice i motivi del suo rifiuto agli incontri col padre. “Praticamente c’era paura di un litigio da parte mia di mio padre, perché io mi ero schierato dalla parte di mia mamma. Secondo le cose che lei mi aveva detto avevo creato un odio nei suoi confronti …”.
L’avvocato difensore della madre chiede se l’avversione del figlio sia stata provocata da “episodi negativi” col padre. “Più o meno tutti i fatti, tutte le cose che mia mamma ci raccontava e ci metteva la paura che nostro padre potesse farci male, che nostro padre ci poteva seguire, ed ogni causa che faceva, ogni cosa era recepita su di noi dalla parte della versione di mia madre perciò ha nutrito in noi un odio, una corazza a tutela di nostro padre.”
L’avvocato difensore vuole sapere l’andamento dei colloqui avuti da Sandro con l’assistente sociale della ASL incaricata dal tribunale.
“Ne ho avuti molti di colloqui con gli assistenti sociali, e rileggendo quest’anno, per mia curiosità, tutte le pratiche, mi sono accorto comunque di … Sì mi sono accorto di falsità che sono state scritte all’interno, mi è stata data una parte che non è mia, perciò mi sono accorto delle bugie anche da parte degli assistenti sociali che ascoltavano molto quello che mia mamma raccontava e non quello che noi dicevamo.”
L’avvocato difensore chiede ancora se Sandro abbia taciuto qualcosa alla psicologa incaricata dal tribunale di effettuare una valutazione su di lui, e perché.
“Molte volte mi veniva detto anche di non dire tante cose in quanto mi hanno istruito che la dottoressa Rossi era una che non faceva parte del Tribunale e non doveva sapere determinate cose, e che i miei punti di riferimento dovevano essere la dottoressa Bianchi e l’assistente sociale Verdi … […] … purtroppo c’era uno schieramento da parte nostra verso mia madre ed ascoltavamo molto quello che lei ci diceva, e molte volte, fin dal primo giorno, ci è stato detto: state attenti a come parlate perché è una psicologa non del Tribunale come dice, ma la psicologa che è stata messa da parte di nostro padre contro gli assistenti sociali.”
L’avvocato difensore chiede altre delucidazioni.
“ … avevo creato dentro di me una sorta di tutela di mia madre, in quanto vedendola piangere per tutte le udienze e sentendo comunque quello che mi diceva alla sua maniera ho creato una corazza, e per non star male io mi sono allontanato … Perciò vedendo noi piangere nostra madre veniva comunque una rabbia, una qualcosa di tutela, per tutelare lei allora dicevi: evito di vedere mio padre. Evito comunque di avere un rapporto io così può fare meno male a mia madre …”.
Il pubblico ministero chiede a Sandro se alla madre facesse piacere che i figli si incontrassero col padre o se facesse qualcosa per impedirlo.
“Mia madre cercava comunque di stimolarci a vederlo, anche se da … cioè faceva in due maniere contrapposte: una cercava di farcelo vedere, e l’altra cercava di impedirci di vederlo con tutte le cose che lei mi diceva, con le paure che ci metteva. Perciò era diciamo un doppio gioco, una bella faccia davanti agli altri a dire: Dai! Perché non vedi… , anche davanti ai carabinieri: Andate con vostro padre. Io non ve lo impedisco … , e poi dietro su tutto ciò che succedeva ci venivano raccontate cose che comunque ci intimorivano ad andare con nostro padre”.
La parte civile chiede ulteriormente in che termini la madre spiegasse le azioni del padre.
“… ogni volta che mio padre si presentava o comunque ogni vicenda che succedeva, che lo incontravamo per strada … state attenti perché vostro padre potrebbe farvi del male … soprattutto dopo la caduta della potestà con la dichiarazione che il mio babbo è disturbato per sé e gli altri … ci venne detto da nostra madre di stare molto attenti a come ci muovemamo perché mio padre poteva comunque avere un attimo di pazzia e commettere qualcosa di sbagliato nei nostri confronti”.
Anche in una recente testimonianza Sandro ha confermato quanto dichiarato in precedenza, aggiungendo ulteriori particolari.
“ … purtroppo mia mamma forse per vendetta personale … sembra più una vendetta nei confronti di mia mamma a mio padre … Gli assistenti sociali forse non si sono accorti di questo, che siamo stati strumentalizzati, usati; o credevano perché mia mamma è sempre stata una brava attrice …”.
Sandro spiega perché secondo lui la madre lo ha sbattuto fuori di casa. “Perché io stavo indagando sul mio passato, perciò io gli ho chiesto spiegazioni delle relazioni, delle lettere, delle cose che comunque erano state dette, quindi stavo diventando un intralcio perché comunque la sua paura che io potessi andare da Piero e dirgli: Guarda sta succedendo questo e quest’altro, e potessi aprire gli occhi anche a lui, lei poteva ritrovarsi senza casa, senza figli … […] … io forse sarò un mammone o quello che era molto legato a mia mamma, gli credevo molto, non so cos’è che mi legava, comunque mi son fatto molto influenzare …”.
A Sandro viene chiesto cosa abbia da imputare ai servizi sociali.
“ … nelle relazioni ci sono delle cose che noi non abbiamo detto ma sono cose riportate da mia mamma che poi sono state attribuite a noi, che magari mia mamma gli diceva: mio figlio dice che il padre lo maltratta … ho letto una relazione dove dice che le donne sono tutte troie e poi loro l’abbiano attribuita a me una cosa detta da mia mamma. […] … penso un’assistente sociale, una psicologa … doveva parlarne con noi dicendo: facciamo dei colloqui separati, ma è vero che tuo padre diceva che le donne sono tutte troie, almeno chiedere spiegazioni a noi, invece la maggior parte dei colloqui li abbiamo avuti con loro e con mia mamma presente. […] hanno creduto molto a mia mamma, perciò sono state riportate queste cose che purtroppo sono cose false, anche la caduta di potestà … è sempre stato detto: gliel’hanno data perché faceva le manifestazioni in piazza per i figli allora lo hanno reputato un malato di mente … io sono stato uno stupido perché ero un bambino, però a 18-19 anni ho capito i miei errori, ho chiesto scusa a mio padre, quando sono arrivato da lui gli ho detto: guarda che io ho chiesto il reintegro della potestà genitoriale …”. “ … gli assistenti sociali di adesso hanno chiara la situazione … si sono mossi per tutelare due minori …”.
Il padre ha intentato causa contro il servizio della ASL a cui appartenevano la dottoressa Bianchi e l’assistente sociale Verdi. Dopo aver rifiutato il padre all’età di circa 15 anni, Sandro ha litigato anche con la madre che, a 18 anni circa, l’ha cacciato di casa. Poco tempo dopo, il fratello minore, vistosi trascurato dalla madre, aveva deciso di andare a vivere col padre ed è rimasto soddisfatto.
A circa vent’anni, Sandro ha cercato di riprendere i rapporti col padre ed ha chiesto, a nome del fratello minore il reintegro della potestà per il padre. Ma questi, ormai rifattosi una famiglia con un’altra donna, si è trovato di fronte ad un figlio diverso, che lo cercava sì, ma solo per usufruire del suo sostegno economico. Il padre lo ha visto spinto da interessi materiali più che affettivi.
In ogni caso, non ha ritenuto opportuno accondiscendere alle prepotenti richieste di mantenimento economico da parte del figlio. Questi si è sposato nel 2003, ed ha due figli. La moglie è anch’ella una persona indebolita da vicende che l’hanno privata della famiglia nell’età dello sviluppo (entrambi i genitori condannati per spaccio di stupefacenti). Sandro ha intentato causa al padre chiedendogli un mantenimento per sé di 1000 euro mensili.
Questo caso, e tanti altri simili, ci inducono a riflettere come mai sino ad ora contesti mobizzanti e patologici di questo genere non siano stati riconosciuti in sede giudiziaria, pur essendo spesso evidenti. Qui, come in altri casi, il meccanismo di difesa che sembra aver operato in Sandro è quello della paura di inimicarsi il genitore necessario per mantenere il proprio equilibrio psico-affettivo; il comporta la necessità di non esprimere affetto verso il genitore mobbizzato.
Una luce inquietante piomba sugli operatori deputati alla tutela dei minori.
Qualora un bambino si rifiutasse di andare a scuola, o di fare le vaccinazioni, o di curarsi quando è malato, o compiere qualsiasi altro gesto autolesionistico, interverremmo con dei provvedimenti, nel suo stesso interesse. Ma se si tratta di un bambino che si rifiuta di avere rapporti con uno dei genitori, tendiamo istintivamente a credere che egli debba comunque avere un buon motivo per farlo. Lo stigma del cattivo genitore, del genitore pregiudizievole, cala immediatamente su di lui. Non possiamo non considerare disfunzionale questa semplicistica reazione degli operatori.
Dobbiamo considerare che la rabbia agita senza freni in particolare quella del genitore mobbizzante o alienante – è un potente e contagioso fattore di disturbo nelle facoltà di pensiero (Bion, 1962) in tutti coloro che vi sono coinvolti. Il processo di elaborazione del lutto per la perduta felicità familiare, o per ciò che avrebbe potuto essere, non può verificarsi, e “ … quando i lutti non vengono elaborati essi possono essere fissati (con un restringimento dell’Io e della vita psichica) oppure denegati e rifiutati, pronti all’espulsione e all’agito …” (Del Guerra ed altri, 1996, pag. 206). La sofferenza può restare priva di un convincente perché alla disperante perdita di senso e di storia.
Non solo. Diversi sono gli autori che sostengono la trasmissibilità tra più generazioni (Kaes ed altri, 1993) delle dinamiche psichiche individuali e familiari irrisolte: “Il lutto espulso può venire trasportato … da una persona all’altra, da una generazione all’altra, aumentandone il carico e rendendo sempre più difficile la sua metabolizzazione. Chi riceve il processo negato – “il portabagagli” (Racamier, 1992) – deve affrontare un lavoro inaffrontabile in quanto non ne conosce il senso” (Del Guerra ed altri, 1996, pag. 206).
Solo la grande sofferenza degli infelici attori, che viene denegata, e l’intollerabilità delle massicce proiezioni di cui sono oggetto gli operatori coinvolti in questi casi, possono spiegare la ricerca della via più breve [il Macbeth di Shakespeare ci offre un esempio tragico degli eccessi a cui può portare il perseguimento di uno scopo attraverso la via più breve (Macbeth, Atto I, scena V)], di una scorciatoia, laddove, invece, tutta la famiglia necessiterebbe di un faticoso lavoro di ristrutturazione delle loro relazioni.
La mentalità che spinge impulsivamente i coniugi a separarsi, con un vero e proprio acting-out giudiziario (Salluzzo, 2004), senza elaborare le cause del proprio disagio, può essere solo una reazione difensiva (nel senso psicopatologico del termine) estesa e condivisa, fino ad arrivare a costituire un’ideologia collusiva che pervade in modo variabile le famiglie, gli addetti ai lavori e la società.
Il compito degli psico-professionisti è quello di riuscire ad inserirsi all’interno di queste dolorose vicende, evitando che il fallimento e il disorientamento si trasformino in agiti (acting-out) e conflittualità giudiziaria, inasprendo ulteriormente una situazione già compromessa. L’unico modo per evitare questo danno aggiuntivo (Salluzzo, 2004a) è che i professionisti dell’ambito giudiziario e quelli dell’ambito psicologico imparino a lavorare fianco a fianco, sia per tutelare i diritti di ognuno, sia per cercare di ridare un senso ed una progettualità alle famiglie separate. Se la società è organizzata per sostenere le trasformazioni familiari importanti – come la nascita, il battesimo, il matrimonio, la morte – per la separazione, invece, non c’è alcun rito sociale che sostenga questo passaggio. I riti svolgono una funzione di guida ai sentimenti e ai comportamenti più adatti, un supporto alla difficoltà di cambiamento di status sociale. Non esiste alcunché di analogo per quanto riguarda la separazione. In tutti gli altri casi i riti servono a garantire un senso di solidarietà e integrazione sociale, cosa che nella separazione manca. Non abbiamo una cultura della separazione.
La legge è lo strumento privilegiato che la nostra società attualmente mette a disposizione dei cittadini per trattare la complessità del mondo affettivo e dell’appartenenza sociale. Niente stupore, pertanto, se essa, da sola, fallisca nel gestire un fenomeno sociale sempre più emergente e incontrollabile.
La legge, sia pure senza volerlo, senza esserne all’altezza, si fa carico di una funzione importante, di tipo simbolico-rituale, quella cioè di veicolare la trasformazione di un sistema familiare. Questo processo non può essere ridotto al semplice passaggio dall’essere sposati all’essere separati, perchè è un momento chiave delle relazioni familiari, il cui obiettivo fondamentale è quello di affrontare la fine del patto coniugale portando in salvo la continuità tra tutte le generazioni coinvolte.
Col suo disimpegno, con il suo imbarazzo, con lo sbrigativo utilizzo di capri espiatori, con il progressivo indebolimento delle maglie di contenimento giudiziario, più che una cultura della separazione, la nostra società ha favorito, a mio avviso, lo sviluppo di un malcostume della separazione. Più il malcostume resta impunito, privo della necessaria attenzione e contromisure, e
più i cittadini sono incentivati a ricorrervi. E, senza le opportune contromisure, dal malcostume alla malvivenza il passo è breve. Non possediamo ancora dei percorsi socialmente definiti, degli ordinatori sociali per gestire le potenti emozioni e i sentimenti scatenati dai conflitti della separazione. La religione e le tradizioni ancora non ci forniscono modelli soddisfacenti Pertanto, in assenza di modelli chiari e condivisi, la separazione può assumere i connotati più selvaggi.
I contesti politici, religiosi, giudiziari, accademici e professionali devono rendersi conto che solo uno sforzo comune e sinergico può accompagnare la nostra società verso la maturazione di schemi condivisi capaci di porre un limite e una soluzione alla violenza esplosiva che scaturisce dalle rotture dei contenitori familiari.
L’interesse dei figli è quello di disporre di entrambi i genitori, e, se possibile, che siano ancora capaci di collaborare e favorire i rapporti, sia con l’altro genitore, che con il relativo ramo parentale; quello cioè, che viene definito come cogenitorialità (Mazzoni, 2002), o bigenitorialità (Eurispes, 2005, Nestola, 2005).
*
Psicologo, psicoterapeuta operante nel S.S.N..
Per contatti
e-mail:
marioandreasalluzzo@virgilio.it
BIBLIOGRAFIA
Andolfi M. (2001) Il padre ritrovato, Franco Angeli, Milano.
Bernardini de Pace A. (2004) Calci nel cuore. Storie di crudeltà e mobbing familiare, Sperling & Kupfer Editori, Milano.
Bion W. R. (1962) Learning from experience, W. Heinemann, London. Trad. it.
(1972) Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma.
Del Guerra R. e altri (1996) Separazione dei genitori: I processi di lutto nella
coppia e nei figli. Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale, vol, 14, n. 2, pp. 204-215.
Eurispes – Osservatorio sulla Famiglia (2005) Verso un “familismo utilitaristico”, pubblicato su Territorio Scuola, Roma, il 5 Maggio 2005.
Gardner R.A. (1985) Recent trends in divorce and custody litigation, Academy Forum, 29 (2) , pp.3-7.
Gardner R.A. (1998a) Recommendations for dealing with parents who induce a parental alienation syndrome, Journal of Divorce & Remarriage, Volume 28(3/4), pp.1-21.
Gardner R.A. (1998b) The Parental Alienation Syndrome (2nd. ed.), Cresskill, NJ: Creative Therapeutics.
Gardner R.A. (1999a) Differentiating between the parental alienation syndrome
and bona fide abuse/neglect, The American Journal of Family Therapy, Vol. 27, n. 2, pp.97-107.
Gardner R.A. (1999b) Family Therapy of the Moderate Type of Parental Alienation Syndrome, The American Journal of Family Therapy. 27:195-212.
Gardner R.A. (2002a) Does DSM-IV Have Equivalents for the Parental Alienation Syndrome (PAS) Diagnosis?, American Journal of Family Therapy, 31(1):1-21.
Gardner R.A. (2002b) The empowerment of children in the development of parental alienation syndrome, The American Journal of Forensic Psycology,
20(2):5-29. Trad. It. (2005) L’acquisizione di potere dei bambini nello sviluppo
della sindrome di alienazione genitoriale, Nuove tendenze della psicologia, vol.
3, n. 1, pp. 75-102.
Giordano G. (2004) Conflittualità nella separazione coniugale: il “mobbing” genitoriale, Psychomedia Telematic Review, 20 luglio 2004.
Giordano G. (2005) Verso uno studio delle “transazioni mobbizanti”: il mobbing genitoriale e la sua classificazione, Psychomedia Telematic Review, 16 giugno 2 0 0 5
Gulotta G. (1998) La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione, Pianeta infanzia, Questioni e documenti, n. 4, Istituto degli Innocenti di Firenze, pp. 27-42.
Hirigoyen M. F. (1998) Le harcèlement moral: la violence perverse au quotidien, Editions La Découverte et Syros, Paris. Trad. it. (2000) Molestie morali, Giulio Einaudi Editore, Torino.
Kaes R., Faimberg H., Enriquez M., Baranes J. J. (1993) Transmission de la vie psychique entre générations, Dunod, Paris. Trad.it. (1995) Trasmissione della vita psichica tra generazioni, Borla, Roma.
Mazzoni S. a cura di (2002) Nuove costellazioni familiari, Giuffrè Editore, Milano.
Nestola F.(2005) Perché i giudici non sono bambini, Fe.N.Bi. – Federazione Nazionale per la Bigenitorialità, Roma.
Racamier P.C. (1992) Le génie des origins. Psychanalyse et psychoses. Trad. it. (1993) Il genio delle origini, Milano, Cortina.
Rowles G.L., The “Disenfranchised” Father Syndrome, Psychomedia Telematic Review, 9 settembre 2003, traduzione di A. Vanni, S. Ciotola e G. Giordano.
Salluzzo M.A. (2004a) Psicopatologia nella separazione, divorzio e affidamento, Attualità in Psicologia, Volume 19, n. 3/4 – pp. 221-235.
Wallerstein J.S. e Kelly J.B. (1980) Surviving the Break-up: How Children and Parents Cope with Divorce, New York City (USA):Basic Books.