N.9660/14 – La ex rifiuta un lavoro a tempo pieno? Il mantenimento non cambia
Anche se la ex moglie ha rifiutato a un lavoro a tempo pieno, il diritto al mantenimento potrebbe non subire riduzioni. Lo afferma la Corte di Cassazione con l”ordinanza n. 9660/2014, che interessa anche per alcuni ulteriori spunti di riflessione.
Nel caso de quo il ricorrente lamentava che la moglie, dipendente in una impresa del gruppo appartenente alla famiglia del marito, avesse rifiutato l’offerta di trasformare il suo rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno, con corrispondente aumento del salario, situazione che avrebbe premesso una riconsiderazione al ribasso dell’assegno divorzile stabilito in suo favore.
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La Corte ribadisce che
“Per giurisprudenza ampiamente consolidata, l’assegno per il coniuge deve tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante la convivenza matrimoniale, e tuttavia indice di tale tenore di vita può essere l‘attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi(Cass. Civ., sent. n. 2156/10)”.
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Aggiunge:
“Va precisato che il regime di separazione non vincola quello di divorzio, trattandosi di rapporti distinti ed autonomi, e tuttavia l’importo dell’assegno di separazione può essere liberamente considerato dal giudice del divorzio, eventualmente anche come indice del tenore di vita coniugale” (tra le altre, Cass. n. 5140 del 2011).
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e conclude
rigettando il ricorso in quanto, come già affermato dalla sentenza impugnata, “l’accettazione della predetta proposta non avrebbe comunque consentito alla moglie di conservare l’elevato tenore di vita condotto in costanza di matrimonio“.
Nulla questio sul leitmotiv che ormai conosciamo: il coniuge più debole ha diritto ad un assegno di mantenimento che gli consenta di godere “dello stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”; ma qui emerge un ulteriore elemento e cioè che il “tenore di vita” goduto dai coniugi in costanza di matrimonio può essere desunto anche dall’attuale disparità di posizioni economiche tra i medesimi.
Tale decisione recepisce un criterio di massima ormai largamente diffuso nella giurisprudenza, ma a nostro avviso non solo solleva dubbi di compatibilità con il principio di certezza del diritto, ma si pone in stridente contrasto sia con le regole che sovrintendono all’accertamento del diritto all’assegno di divorzio sia con la natura giuridica dell’istituto.
Nel ribadire la natura “prettamente assistenziale” dell’assegno di divorzio, si è affermato che esso “trova presupposto nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio e nell’impossibilità di procurarsi tali mezzi per ragioni oggettive“ e che “gli altri criteri individuati dall’art. 5 L. n. 898 del 1970 – condizioni economiche delle parti, ragioni della decisione, contributo personale ed economico di ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e di ognuno, durata del matrimonio – sono destinati ad operare solo in caso di accertamento positivo del primo presupposto“, e, perciò, “il divario economico esistente tra i coniugi all’atto della pronuncia del divorzio non può assurgere di per sé solo a presupposto sufficiente per l’attribuzione dell’assegno divorzile“ (cfr. anche Trib. Monza, Sez. IV, 12.09.2007).
La funzione prevalentemente “assistenziale” dell’assegno di divorzio trova pieno riconoscimento anche nella normativa di riferimento: secondo quanto previsto dall’articolo 5 della Legge sul Divorzio, infatti, requisiti per il riconoscimento dell’assegno sono la mancanza da parte del coniuge richiedente di mezzi “adeguati” a conservare un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio (c.d. “requisito pregiudiziale”) e l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Dunque, nella sentenza in commento, la Cassazione, mediante il riferimento “alla attuale disparità” contraddice un principio (quello dell’ancoraggio al “pregresso” tenore di vita matrimoniale) che, invece, trae fondamento nella stessa legge.
Seconda osservazione:
nulla da eccepire sul richiamo “che il regime di separazione non vincola quello di divorzio, trattandosi di rapporti distinti ed autonomi,” siamo meno convinti sul prosieguo di tale richiamo e cioè che ” … tuttavia l’importo dell’assegno di separazione può essere liberamente considerato dal giudice del divorzio, eventualmente anche come indice del tenore di vita coniugale.”
La riconferma che “assegno di mantenimento” ed “assegno di divorzio” non sono la stessa cosa non può che avere come corollario che il riferimento dell’articolo 5, comma 6, della L. n. 898 del 01.12.1970 (Legge sul Divorzio) al “tenore di vita goduto in costanza di matrimonio”, non possa non essere coordinato con la finalità propria dell’istituto del divorzio, che è quella di “sciogliere o far cessare gli effetti civili del matrimonio”. Perciò, mentre il contributo per il mantenimento può essere concepito come espressione dell’ultrattività dei doveri economici coniugali (poiché la separazione instaura tra i coniugi un regime che tende a conservare il più possibile tutti gli effetti propri del matrimonio), quello di divorzio no: il divorzio, infatti, estingue il vincolo matrimoniale e, quindi, esclude la permanenza degli obblighi di natura economica (tra i coniugi) nascenti dal citato vincolo.
La sentenza in commento, ammettendo la possibilità per il giudice del divorzio di considerare liberamente l’assegno di mantenimento, eventualmente anche come indice del tenore di vita coniugale, unitamente, aggiungiamo noi, alla affermazione precedente, e cioè di una considerazione delle differenze reddituali attuale, sembra, invece, voler estendere al divorzio il medesimo principio di ultrattività del dovere di solidarietà economica previsto per la separazione. Anzi: l’individuazione del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio sulla base del dislivello ravvisabile tra le parti a distanza di (a volte anche dieci) anni dal momento in cui è cessata la convivenza (ed in alcuni casi anche dal momento in cui le parti si sono presentate al Presidente del Tribunale per chiedere lo scioglimento del matrimonio), riecheggia alla mente l’idea di un vincolo matrimoniale “indissolubile”, i cui effetti permangono invariati nel tempo, laddove, invece, il principio dell’indissolubilità del matrimonio, dopo l’introduzione della legge sul divorzio e della stessa riforma del diritto di famiglia, non è più alla base della tutela dell’istituto familiare.
Ma vi è di più:
una volta richiamato “il divario attuale” la sentenza sembra contraddirsi nel non porlo a fondamento della richiesta modifica del quantum e sopratutto contraddice tutta la pregressa giurisprudenza sulla “impossibilità oggettiva” di uno dei coniugi di conservare lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio e sulla valutazione dei “miglioramenti” attuali alla richiesta dell’assegno divorzile.
Richiamiamo ex multis la definizione di “miglioramenti” economici che fa la Corte di Cassazione, con sent. n. 5132 del 05.03.2014, secondo la quale, nella determinazione dell’assegno divorzile, occorre tenere conto degli eventuali miglioramenti della situazione economica del coniuge obbligato a versare l’assegno, qualora costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta durante il matrimonio. Non possono invece essere valutati i miglioramenti che scaturiscano da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto e alle aspettative maturate nel corso del matrimonio e aventi carattere di eccezionalità, in quanto connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili.
Ergo: rifiutare di trasformare un lavoro da tempo parziale a tempo pieno è una scelta che configura “una impossibilità oggettiva”; trasformare un lavoro da tempo parziale a tempo pieno, per contro, sarebbe un evento eccezionale che in ogni caso non potrebbe essere valutato ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile in quanto “l’accettazione della predetta proposta non avrebbe comunque consentito alla moglie di conservare l’elevato tenore di vita condotto in costanza di matrimonio“.
Avv. Mara Battaglia
Fonte: www.StudioCataldi.it