Se il giudice giudica il collega di scrivania. di Arturo Maniaci
Come scrisse l’inventore del personaggio di Sherlock Holmes, il mondo è pieno di cose ovvie, che però nessuno si prende la briga di osservare.
Sorprende che nessuno si sia accorto di una ovvia anomalia. O, quantomeno, che non lo abbia fatto notare a gran voce.
Tocca, dunque, a noi farlo in queste righe. Partiamo dall’inizio della storia, scusandoci sin d’ora per la suspence involontariamente provocata al lettore (forse perché abbiamo esordito evocando un noto investigatore privato).
Quando il codice del processo civile fu emanato (siamo nel 1940), non era previsto alcunché sulla competenza territoriale nel caso in cui una parte in causa fosse un magistrato. Anche questa anomalia non fu notata, sino a quando venne approvato (siamo nel 1988) il nuovo codice del processo penale, che ebbe l’accortezza di sancire che, quando un magistrato assume la veste di imputato, la competenza a giudicarlo non può essere del tribunale del luogo in cui il magistrato presta servizio (per esempio: Milano), ma deve essere quella del capoluogo del distretto più vicino (e quindi, per rimanere all’esempio, non Milano, ma Brescia).
Nel processo civile, una disposizione del genere (art. 30-bis) fu introdotta soltanto dieci anni dopo (siamo nel 1998). Ma, come era facile prevedere, i giudici non la presero bene e iniziarono a tempestare della questione (solo nel primo lustro del nuovo millennio si contano nove volte) la Consulta, che, per sfinimento, li accontentò. E così (siamo nel 2004) quella disposizione venne dichiarata incostituzionale, con riferimento a quasi tutte le cause civili.
Dunque, dal 2004 adoggi, se un magistrato promuove una causa civile, il giudice naturale potrà tranquillamente essere un collega del medesimo tribunale. Incredibile, ma vero! Il bello è che sono trascorsi vent’anni senza che nessuno abbia mai gridato allo scandalo.
Supponiamo che un giudice del tribunale di Messina sia sposato e voglia chiedere la separazione giudiziale e supponiamo pure che questo giudice si trovi a prestare servizio nella sezione del medesimo tribunale di Messina che tratta la materia della famiglia. Chi sarà il giudice della separazione? Sì, proprio la/il collega di stanza del coniuge separando. L’esempio non è così tanto fantasioso, perché a portare per l’ulti-
ma volta la questione dinanzi alla Consulta fu un giudice del tribunale di Bari adìto da due coniugi uno dei quali era giudice presso quel medesimo tribunale, che insieme all’altro coniuge avevano fatto domanda congiunta di divorzio. Si è persino scritto con disinvoltura che andare a farsi giudicare altrove sarebbe costato di più (in termini di trasporto, organizzazione, ecc.), anche perché i due divorziandi tenevano figli (perché sballottarli da Bari fino alla lontana Lecce?).
Così, ad eliminare una volta per tutte quella disposizione tanto scomoda provvide senza remore la Consulta, attraverso un certo Bile (sì, padre di quell’altro giudice Bile balzato di recente agli onori della cronaca per una decisione altrettanto strabiliante, avendo condannato un capitano e un armatore italiani per aver salvato la vita di migranti, ma portandoli in Libia, al posto dell’Italia, che a quanto pare è l’unico porto sicuro del Mediterraneo).
Peccato, però, che nel caso barese non poteva parlarsi tecnicamente di controversia (si trattava di un divorzio su domanda congiunta), che i coniugi avrebbero potuto evitare la competenza territoriale di Bari con un accordo preventivo e che, comunque, non era possibile né necessario per la Consulta dichiarare incostituzionale l’art.30-bis in relazione a pressoché tutte le cause civili. Così, non soltanto è suonato il requiem per tale disposizione, ma è saltato un principio basilare di qualsivoglia Stato di diritto e costituzionale: quello della imparzialità e della terzietà del giudicante.
Qualcuno obietterà: ma chi crede più a questo principio? Sì, è vero: soltanto gli idealisti e i garantisti. E dunque, in definitiva, una minoranza. Finora, peraltro, anche molto silenziosa.
Aturo Maniaci