Strasburgo condanna l’Italia. No a misure stereotipate per il diritto di visita
Parecchia risonanza, anche sulla stampa, ha avuto la sentenza n. 25704/2011 della Corte Europea dei Diritti Umani con la quale l’Italia è stata condannata per violazione del diritto di visita del padre dopo la separazione. Strasburgo fotografa e denuncia una triste situazione, quella dello stato della giustizia italiana in materia di concreta attuazione del diritto del genitore a vedere ed incontrare i figli con lui non conviventi dopo la disgregazione della famiglia. Assai numerosi sono infatti i casi il cui a un genitore (più spesso al padre, poiché in Italia nella stragrande maggioranza delle situazioni il figlio, anche nell’ipotesi d’affido condiviso, viene collocato presso la madre) è di fatto dall’altro preclusa la frequentazione del minore: ciò, nonostante si possa cessare di essere partners ma non si smetta mai d’essere genitori.
Ciò che dovrebbe essere ovvio, tuttavia ovvio non è. Tutt’altro. Specie nella separazioni conflittuali, ove accade troppo frequentemente che i figli vengano usati dal genitore collocatario quale mezzo per rivendicare dall’altro presunti diritti, non di rado economici. I comportamenti ostativi volti a impedire all’altro la piena esplicazione dei propri diritti, ma attenzione, anche al figlio il libero esercizio del diritto di continuare a vedere entrambi i genitori, come quando la famiglia era unita, sono altamente lesivi ed arrecano gravi pregiudizi su più sfere, giuridiche e personali. Chi ne patisce le conseguenze nefaste? Entrambi: genitore non convivente e minore. E’ proprio un caso di diritti genitoriali lesi dal comportamento ostacolante del genitore collocatario che ha dato l’occasione alla Corte di Strasburgo per enunciare importanti principi di diritto, sanzionando l’Italia per non garantire ai suoi cittadini la libera esplicazione del diritto al rispetto alla vita familiare, del quale la frequentazione del figli scevra da ostacoli costituisce una delle principali manifestazioni. Un italiano, stanco di vedere solo formalmente riconosciuto in Italia il proprio diritto di visita nei confronti fella figlia, senza tuttavia essere posto in grado di esercitarlo concretamente, adisce la Corte Europea invocando il rispetto dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e lamentando in particolare, la violazione del suo diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione. Era infatti accaduto che nel 2003 la moglie lasciasse il marito e tornasse con la figlia di appena 2 anni a vivere con la sua famiglia d’origine a Termoli, iniziando a ostacolare qualsiasi rapporto tra il padre e la minore. A luglio 2003 la donna otteneva la custodia della bambina con diritto del padre a vederla e tenerla con sé per due pomeriggi alla settimana, a week-end alternati, tre giorni a Pasqua, sei giorni a Natale e dieci giorni durante le vacanze estive. Ma di fatto veniva impedita al padre la frequentazione della figlia, sicchè l’uomo adiva il Giudice Tutelare affinché fosse ripristinato il proprio diritto di visita: in accoglimento dell’istanza, il Giudice confermava il precedente provvedimento giudiziale e disponeva che gli incontri tra padre e figlia avessero luogo presso i servizi sociali di Termoli alla presenza di un assistente sociale e della madre della bambina. Ma la moglie continuava ad assumere un atteggiamento ostacolante, e il marito, a più riprese, otteneva dal Giudice Tutelare altri provvedimenti, analoghi al primo, a conferma del proprio diritto di vista. Di fatto, al di là delle affermazioni di principio che riconoscevano al padre il diritto di vedere e stare con la figlia, all’uomo viene impedita la frequentazione, e i servizi sociali non si attivavano concretamente per dare attuazione alle modalità di visita indicate dai provvedimenti giudiziali: dodici anni di battaglia giudiziale, che meglio sarebbero stati spesi per consolidare il rapporto genitoriale attraverso la piena frequentazione padre/figlia. Così non è accaduto, e non per volontà dell’uomo, con irrimediabile pregiudizio per l’instaurazione di un equilibrato rapporto con la bambina. Sfinito e sfiduciato, il padre tenta la via della Corte di Strasburgo, accusando tribunali e servizi sociali italiani di non aver prestato la dovuta diligenza ed attenzione al suo caso e di non averlo tutelato come genitore; lo Stato italiano si difende sostenendo il buon operato dei servizi sociali. Ma la Corte Europea sostiene le ragioni del ricorrente, ritenendo violato il diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione. La sentenza precisa che le autorità nazionali, in questa materia tanto delicata, devono agire facilitando la cooperazione dei soggetti coinvolti, dalla cui collaborazione tuttavia non si può prescindere. In altre parole, l’adozione di misure coercitive è limitata, poiché confligge con i diritti e le libertà di tutte le persone, e gli interessi particolari del bambino e dei diritti propri di cui all’articolo 8 della Convenzione. Si tratta quindi di valutare se lo Stato Italiano abbia facilitato le visite, prendendo tutte le misure necessarie, che potevano essere ragionevolmente richieste: Strasburgo ritiene che così non sia. I servizi sociali avrebbero dovuto attivarsi maggiormente cercando di garantire ed organizzare gli incontri tra padre e figlia secondo quanto stabilito dal Giudice, e i giudici avrebbero dovuto adottare le misure idonee a creare le condizioni future per l’esercizio effettivo del diritto del padre. In pratica, le autorità nazionali avrebbero potuto adoperarsi molto meglio, invece di delegare ai servizi sociali l’organizzazione degli incontri, anche considerato la notoria inefficienza e carenza d’organico dei servizi suddetti. E soprattutto, i Giudici avrebbero dovuto adottare soluzioni più celeri e specifiche per garantire il ripristino concreto dei contatti fra padre e figlia: ritardi e dilazioni sono inaccettabili perché il passare del tempo consolida situazioni e pregiudica irrimediabilmente la relazione tra il bambino e il genitore non convivente. E’ intuitivo, oltre che scientificamente comprovato, che per una crescita equilibrata il bambino deve poter accedere anche al genitore non collocatario in modo da elaborare la separazione di mamma e papà e mantenere con entrambi un rapporto significativo: “la possibilità del minore di accedere all’altro genitore, è un fattore protettivo per il bambino stesso, permettendogli di riconoscere la sopravvivenza e la continuità del legame parentale alla rottura coniugale messa in atto con la separazione; esiste infatti uno stretto collegamento tra una buona elaborazione della separazione da parte dei bambini e la possibilità per essi di mantenere rapporti affettivamente significativi con entrambi i genitori separati, durante e dopo la separazione” (Cigoli, 1998). In tal senso risulta fondamentale e rassicurante, per il minore, poter contare su una frequentazione costante, continua e prevedibile del genitore non convivente, affinché possa essere agevolato nel delicato processo di riorganizzazione psichica dell’assetto familiare. Ciò è importante non solo da un punto vista relazionale ma anche intrapsichico, in quanto l’esperienza che un bambino fa con il genitore reale, esterno, è di fondamentale importanza per la costruzione dell’immagine genitoriale interna, rappresentazione che risente anche dell’immagine che ciascun genitore rimanda dell’altro. Tutti questi aspetti assumono particolare rilevanza nei casi d’età infantile; la scarsa frequentazione del genitore potrebbe complicare questo delicato processo oltre che privare il bambino della necessità di avere una stabile figura di riferimento (maschile o femminile). Occorre quindi sempre cercare di preservare la continuità dei contatti con il genitore non collocatario. Consapevole di ciò appare essere la nona sezione del Tribunale Civile di Milano. Con l’ordinanza del 16 aprile 2013 è stato disposto che, nell’ambito di una causa di divorzio altamente conflittuale, in cui i figli minori – evidentemente risentendo dell’acredine tra i genitori – avevano manifestato forti difficoltà ad incontrare la madre – genitore non collocatario – quest’ultima quotidianamente si colleghi via Skype con i figli, sempre con il monitoraggio dei servizi sociali del Comune tenuti a riferire all’Autorità Giudiziaria l’esito della modalità “sperimentale” di contatto. In tal modo, nonostante la lontananza fisica (la madre si è intanto trasferita in Francia), attraverso la videochiamata si rende possibile conservare una continuità di rapporto, che, seppur “tenue” costituisce comunque, nel caso particolare, un utile strumento per evitare drastici distacchi, anche emotivi. Oltre, evidentemente, ad essere un mezzo per favorire il superamento, da parte dei minori, delle resistenze dai medesimi manifestati nei confronti del genitore lontano ed attuare un avvicinamento graduale: il provvedimento del Giudice va infatti inteso quale strumento “di transito” per consentire ai bambini di elaborare le loro difficoltà nei confronti del genitore e ripristinare, in un secondo tempo, gli incontri dal vivo. Un plauso va quindi alla sensibilità e all’attenzione del Giudice milanese, che, in conformità ai principi espressi dalla Corte di Strasburgo, non si limita all’adozione di misure stereotipate e automatiche affidando l’organizzazione delle modalità di visita ai servizi sociali, bensì si cala nella situazione concreta individuando le misure atte a conservare il rapporto genitoriale. Misure che debbono necessariamente essere attuate con rapidità, attesa la peculiarità delle situazioni di crisi familiare che vedono coinvolti i minori, specie in età infantile. Diversamente rischiandosi di pregiudicare irrimediabilmente la relazione col genitore non convivente. Avv. Valeria Mazzotta – Avvocato Familiarista ANFI Nazionale