Vuoi divorziare? Aspetta 12 anni
Riformare la giustizia per abbreviare i tempi dei processi: se ne parla così tanto che la gente è abituata a considerare il problema come un rumore di fondo. Anche coloro che lavorano quotidianamente nei tribunali – giudici, avvocati, cancellieri – pensano ormai alla lunghezza dei processi come a un male ineluttabile al quale si è fatta l’abitudine. Ma viene un momento in cui ci si rende conto che non possiamo più fare finta di nulla e che la situazione è indegna di uno Stato civile. Per questo voglio raccontare la storia di un giudizio di divorzio in cui l’inefficienza della nostra giustizia si manifesta in modo appena un po’ più grave di centinaia di altre storie che si consumano ogni giorno nei nostri tribunali al ritmo desolante di una o due udienze l’anno.
La separazione consensuale
La vicenda si svolge in un tribunale di provincia del nord Italia, un piccolo tribunale non soffocato dai grandi numeri. La moglie è svizzera, il marito è italiano; hanno sempre vissuto in Italia ed hanno due bambini piccoli. Lei fa lavori saltuari, lui è artigiano. Nel 1999 decidono di separarsi, ma trovano un accordo per una separazione consensuale che viene pronunciata nel dicembre di quell’anno. Alla moglie svizzera viene spiegato che in Italia, anche se c’è un accordo fra i coniugi e anche se la crisi appare irreversibile, il divorzio non può essere pronunciato subito ma si devono attendere tre anni di separazione. All’ inizio del 2003 , dunque, potrebbe essere chiesto il divorzio, ma nessuno dei due prende l’iniziativa. Quando il marito nel 2005 chiede il divorzio, appare invece subito evidente che non sarà facile trovare un accordo: la moglie si oppone all’affidamento condiviso, il marito lo pretende; la moglie dice che i soldi non bastano, il marito afferma di darne troppi. Il caso non è difficile, ma serve un giudice che faccia chiarezza e decida.
Il marito si rivolge al tribunale
Nell’ aprile 2006 , falliti i tentativi di mediazione, il marito si rivolge al tribunale. Il presidente fissa la prima udienza nel settembre di quell’anno: cinque mesi solo per iniziare la causa, un tempo che spesso all’estero è sufficiente per svolgere l’intero giudizio. Finalmente il giudice sente le parti, dedicando pochi minuti. Alla fine dell’udienza, si riserva di decidere. I giorni si succedono e le parti aspettano. Solo alla fine di ottobre il giudice scrive la sua decisione: non c’è nulla da decidere! Nessun provvedimento deve essere preso in via provvisoria. La cancelleria, per pubblicare questa non decisione, impiega 10 giorni e siamo così arrivati alla metà di novembre.
L’udienza successiva viene fissata per il marzo 2007 : è passato un anno da quando la causa è iniziata e non è ancora successo nulla. Quando finalmente arriva la nuova primavera, all’udienza il giudice ritiene doveroso tentare di convincere le parti a raggiungere un accordo: può essere che l’autorità del giudice permetta di ottenere il risultato che gli avvocati, prima della causa, non hanno raggiunto. Formula quindi delle proposte e concede alle parti un tempo per pensarci, rinviando l’udienza al giugno del 2007. L’udienza di giugno viene rinviata a ottobre, l’udienza di ottobre a novembre. A novembre sembra che un accordo si possa raggiungere, forse per stanchezza.
L’udienza di novembre viene quindi rinviata a gennaio del 2008 . Ma a gennaio la moglie si lamenta del fatto che il rapporto fra il marito e i figli proprio non funziona. Il giudice prende atto che l’accordo è sfumato e invita le parti a depositare memorie scritte con l’indicazione delle loro richieste. Inevitabilmente la causa viene rinviata ad aprile 2009.
L’affidamento dei figli
All’udienza di aprile le parti forniscono versioni dei fatti radicalmente diverse sulla ragione delle difficoltà che hanno i figli nei rapporti col padre: questo accusa la madre di creare mille difficoltà, la madre accusa il padre di essere inaffidabile. Appare chiaro che sarà necessario incaricare uno psicologo per capire le ragioni di una situazione che, nei due anni passati da quando la causa è iniziata, è molto peggiorata. Fra l’altro, la madre si duole del fatto che il padre guidi in modo irresponsabile e teme che possa accadere un incidente che coinvolga i figli mentre il padre è alla guida. Tutti sono d’accordo sull’opportunità di incaricare uno psicologo. Il giudice conclude l’udienza riservandosi di decidere.
L’incidente d’auto
I giorni passano, poi le settimane e poi i mesi. La madre è preoccupata, il padre sempre più arrabbiato. Di fronte all’inerzia del giudice, la tensione cresce. Purtroppo si verifica anche un grave incidente automobilistico e i bambini, in macchina con il padre, restano feriti. La madre dice che lei lo aveva detto. Nel marzo 2009 , a distanza di 11 mesi dall’ultima udienza, la moglie sollecita una decisione: fa presente che la situazione è grave, ricorda l’incidente e si lamenta di non essere stata ascoltata. L’istanza non produce alcun effetto, solo il silenzio. Finalmente il giudice deposita la sua decisione nell’agosto 2009, quasi un anno e mezzo dopo l’ultima udienza!
La decisione è identica a quella che era stata ipotizzata molto tempo prima: il giudice incarica uno psicologo di indagare le ragioni del conflitto fra i genitori in relazione ai rapporti con i figli, che per fortuna, a parte l’incidente, stanno crescendo. Purtroppo però ormai è estate e lo psicologo deve prestare il giuramento previsto dal codice prima di iniziare a lavorare: non è possibile convocarlo prima della fine di settembre 2009.
Finalmente, a ottobre 2009, lo psicologo partecipa all’udienza. Il giudice gli concede un termine per fare le indagini e fissa l’udienza successiva per il marzo 2010. Lo psicologo, al termine del suo lavoro, evidenzia che vi sono effettivamente molti problemi. Il consulente attira l’attenzione del giudice sull’incidente automobilistico, affermando la necessità che su di esso sia fatta subito chiarezza. Vengono poi suggerite una serie di modifiche nei rapporti fra genitori e figli, chiedendo che siano immediatamente attuate dal giudice.
La questione economica
All’udienza del marzo 2010, si chiede al giudice di attuare immediatamente i suggerimenti dello psicologo. Contemporaneamente la moglie ripropone la questione economica, da troppo tempo dimenticata. Il giudice, ancora una volta, si riserva di decidere. Ricominciano a passare i giorni, poi le settimane e poi i mesi. A metà settembre la madre si stanca di attendere un provvedimento che, secondo quanto lo psicologo aveva suggerito al giudice, doveva essere immediato. La signora si rivolge quindi al presidente del tribunale con un’istanza scritta. L’istanza non ottiene alcuna risposta, ma 15 giorni dopo, finalmente, viene depositato il tanto atteso provvedimento con il quale il giudice recepisce le indicazioni dello psicologo ed interviene sulle questioni economiche. La nuova udienza viene fissata a novembre 2010. La causa finalmente sembra avviarsi alla conclusione, ma a novembre una sorpresa attende le parti: il giudice è cambiato e un nuovo magistrato tiene l’udienza. Il nuovo giudice reputa opportuno convocare i coniugi per tentare di indurli a trovare un accordo. Il nuovo rinvio è per febbraio 2011. L’ultima udienza si tiene in un clima più disteso rispetto alle precedenti, forse perché il nuovo magistrato affronta i problemi con calma, forse perché, in tutti questi anni, i figli sono ormai diventati grandi. L’accordo, comunque, non viene raggiunto perché il conflitto economico è ancora irrisolto. Alla fine, una nuova sorpresa: il giudice comunica alle parti che il fascicolo sarà trasferito ad un altro magistrato ed è perciò necessario disporre un rinvio. Sono passati cinque anni dall’inizio della causa di divorzio, dodici dalla separazione.
L’Italia, a 150 anni dalla sua nascita, sembra aver abdicato alla funzione essenziale di rendere giustizia ai suoi cittadini. Il Governo e il Parlamento, quando si occupano della riforma della giustizia, dovrebbero tenere bene a mente questa vicenda e le altre analoghe che si consumano nei nostri tribunali, perché è questa la giustizia che interessa la gente.
CARLO RIMINI* *Ordinario di diritto privato Università di Milano